L’ultimo schiaffo all’Europa
L’uccisione dell’ambasciatore russo Andrei Karlov ad Ankara e la strage di Berlino sembrano confermare come la minaccia terroristica islamica sia ancora ben viva nonostante le vittorie conseguite sui campi di battaglia contro lo Stato Islamico e le altre milizie jihadiste. I due episodi terroristici sono molto diversi tra loro anche se hanno in comune la concomitanza e l’aver ottenuto un grande effetto strategico e mediatico impiegando un solo uomo.
Se Mosca non sembra avere dubbi circa il fatto che l’omicidio di Karlov sia legato ai successi conseguiti in Siria contro i gruppi islamisti, il governo turco ha ravvisato nell’omicidio la volontà di minare la recente ma già stretta cooperazione russo-turca manifestatasi proprio sul fronte siriano. La disfatta subita ad Aleppo dalle milizie ribelli, per lo più qaediste, salafite e dei fratelli musulmani, è strettamente connessa all’intesa tra Mosca e Ankara. I turchi hanno cessato di sostenere lo Stato Islamico e di rifornire le altre formazioni ribelli ad Aleppo e Idlib favorendo la riuscita dell’offensiva di Damasco appoggiata dai russi.
Recep Tayyp Erdogan ha rinunciato all’obiettivo, condiviso con Arabia Saudita e Qatar, di rovesciare il regime di Bashar Assad puntando ora a cacciare l’Isis e soprattutto le milizie curdo-siriane dai suoi confini meridionali. Un «tradimento» che suscita non pochi rancori a Doha e Riad e che potrebbe rappresentare il movente dell’omicidio dell’ambasciatore Karlov.
L’assassino, l’agente dei servizi di sicurezza turchi Mevlut Mert Altintas, nonostante i suoi 22 anni godeva della fiducia dei suoi comandanti: si occupava della sicurezza dell’ambasciata russa e tra il 2014 e il 2015 aveva fatto parte del personale di sicurezza del presidente Erdogan. Non è ancora chiaro se avesse contatti con la rete dell’imam Fethullah Giilen (accusato di aver pianificato il fallito golpe del luglio scorso), con l’Isis, o con altre organizzazioni islamiste come parrebbe indicare il grido rivolto a Karlov «noi moriamo ad Aleppo tu muori qui».
Prima di sparare l’assassino avrebbe intonato in arabo l’inno di Jabhat al-Nusra, costola siriana di al Qaeda ora ribattezzata Fatah al Sham, tra i movimenti anti-Assad a lungo sostenuti da Ankara e che accusa ora i turchi (come fa anche l’Isis) di averne tradito la causa. Ciò nonosrabnte Ankara, cone sempre, privilegia la pista del seguace di Giilen o quella davvero improbabile del simpatizzante del PKK curdo.
Non si può neppure escludere che Altintas avesse legami con i servizi segreti stranieri e che l’uccisione di Karlov sia stata decisa in qualche Paese arabo del Golfo Persico per compromettere l’intesa russo-turca e indurre Ankara a tornare a sostenere i gruppi jihadisti e la guerra ad Assad. Interrogativi e dubbi a cui lo stesso Altintas avrebbe forse potuto rispondere se le forze speciali turche non lo avessero ucciso.
La strage di Berlino conferma invece come la minaccia terroristica jihadista resti elevatissima in Europa. Appena tre settimane or sono la rivista propagandistica del califfato, Rumyah, aveva ripreso il proclama del defunto capo della comunicazione Mohamed al-Adnani, rinnovando l’incitamento ad utilizzare i camion per «uccidere i crociati».
Il terrorismo veicolare noto come «ramming» (speronamento) non è certo una novità e prima ancora della strage di Nizza era stato utilizzato da fanatici islamici in Israele, Francia, Gran Bretagna e altri Paesi. Quanto è accaduto a Berlino conferma l’efficacia di questa tecnica per colpire un numero molto elevato di persone, mietendo spesso più vittime di quante possa provocarne una bomba o un assalto con armi da guerra ma con il vantaggio di “sacrificare” nell’attacco un solo uomo.
Per di più neppure un professionista ben addestrato ma semplicemente un fanatico con la patente di guida. A Nizza come a Berlino il «ramming» si è rivelata un’arma devastante, specie quando riesce ad abbinare spazi molto affollati a pesanti veicoli di cui la polizia non è in grado di fermare rapidamente la corsa a causa delle armi troppo leggere di cui dispone.
Per questo è lecito aspettarsi a breve un’escalation nell’uso di questa tecnica in Europa considerato che la prevenzione è quasi del tutto inefficace in aree a intenso traffico.
In termini politici la tragedia di Berlino costituisce una disfatta per Angela Merkel e per l’intera Europa.
Per l’ennesima volta il terrorista è un immigrato illegale, addirittura un criminale tunisino che avrebbe dovuto essere espulso dall’Italia e dalla Germania. Uno dei tanti “richiedenti” un asilo che non ottengono (ma che nessuno espelle), arrivati in Europa tramite le organizzazioni di trafficanti che i servizi d’intelligence ritengono colluse con i gruppi jihadisti, attraverso quella rotta balcanica che l’anno scorso i servizi segreti macedoni definirono (inascoltati dalla Ue) una vera e propria «autostrada» per l’infiltrazione di terroristi ed estremisti islamici.
Ma la lunga serie di attacchi terroristici e i numerosi crimini compiuti dai «rifugiati» (un anno fa gli stupri di Capodanno a Colonia e diverse altre città tedesche) sono già sufficienti a ribadire il fallimento di un’Europa mostratasi incapace di difendere le sue frontiere esterne dal crimine organizzato, che si limita ad accogliere chiunque paghi i trafficanti e non procede alle espulsioni neppure dei «rifugiati» macchiatisi di reati previste dalla Convenzione di Ginevra sui Rifugiati del 1951.
La Germania e l’Europa pagano inoltre il prezzo di un’ambiguità politica sempre più stridente. La Ue continua a condannare e minacciare nuove sanzioni economiche a Russia e regime siriano che combattono, con i metodi certo brutali della guerra, un nemico jihadista non meno feroce e che a rigor di logica dovrebbe essere percepito anche dall’Europa come il nemico da combattere.
Invece gli europei restano proni alle posizioni delle monarchie del Golfo, cioè dei finanziatori in tutto il mondo dell’Islam radicale e dei gruppi jihadisti che compiono stragi nelle città europee.
(da Il Mattino del 20 dicembre)
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.