Bosnia: la Republika Srpska riafferma la sua identità

La semplice celebrazione della Giornata della Republika Srpska (9 gennaio) è stata sufficiente a scatenare polemiche infinite in tutta l’area balcanica, ma ad esacerbare ulteriormente la situazione è stata la partecipazione all’evento del Terzo Reggimento di fanteria appartenente alle Forze Armate bosniache, che ha portato addirittura alcuni quotidiani a scrivere che le accresciute tensioni potrebbero portare ad uno scontro armato.

Coerentemente con il risultato del referendum dello scorso settembre in cui i cittadini dell’entità serba della Bosnia si erano espressi a favore dell’istituzione di una loro festa nazionale, infatti, il Presidente della Srpska, Milorad Dodik, ha deciso di organizzare la giornata in grande stile, invitando non solo i leader dei Paesi o dei partiti amici (fra cui il Front National francese), ma anche dando vita ad una sfilata/parata che mettesse in mostra il meglio che la piccola entità federale ha da offrire. Come è facile immaginare, però, tale scelta è stata osteggiata in maniera rabbiosa da parte delle autorità centrali di Sarajevo, che dopo aver fatto esprimere la corte Costituzionale contro il voto popolare dichiarandolo nullo, hanno minacciato più volte i politici di Banja Luka nel tentativo di farli desistere dai loro intenti.

Tale sforzo, peraltro, è stato condiviso anche dal locale Comando NATO, che nei giorni scorsi ha messo il veto sul coinvolgimento di qualsiasi effettivo dell’OS BiH (FF.AA. bosniache). Questa presa di posizione ha indispettito più di qualcuno e ha permesso a Dodik di sferrare un nuovo attacco al Governo di Sarajevo, affermando che se l’Alleanza Atlantica può esprimersi su questioni interne alla Bosnia, pur essendo quest’ultima ufficialmente neutrale, ciò significa che le forze armate del Paese sono di fatto di proprietà della NATO. La vicenda, inoltre, rischia di costare il posto a Sead Jusić, viceministro della Difesa immediatamente attaccato dai suoi stessi colleghi bosgnacchi e ai soldati che hanno presenziato all’evento, attualmente sotto indagine ufficiale del Ministero competente e probabilmente destinati a finire sotto corte marziale.

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Il grande supporto popolare ricevuto in seguito all’iniziativa e, sembra, il tacito benestare di Mosca – sempre più interessata ad impedire il collasso della Republika Srpska – inoltre, hanno consentito a Milorad Dodik di avanzare la proposta di ripristinare “l’ordine di Dayton”, eliminando ogni dispositivo militare appartenente alla Bosnia e sostituendolo con due Forze Armate separate appartenenti rispettivamente alla Federazione croato-musulmana e alla Republika Srpska. Si tratta, come è facile immaginare, di una proposta inaccettabile per la quasi totalità degli attori in gioco. I musulmani di Bosnia, spalleggiati da UE, NATO e USA, infatti, sono i principali sostenitori del progressivo accentramento dei poteri, che permetterebbe loro, in quanto ormai gruppo “etnico” di maggioranza, di controllare anche le aree attualmente sotto il controllo serbo-bosniaco.

Dal canto suo, Valentin Inzko, Alto Rappresentante dell’ONU in Bosnia, si è scagliato contro le recenti proposte del leader serbo-bosniaco, arrivando a paragonare la festa nazionale della Srpska ad un’ipotetica celebrazione per la nascita della NDH, la Croazia indipendente filo-nazista alleata di Hitler durante la Seconda Guerra Mondiale. Particolarmente preoccupata dalla rapida evoluzione dei fatti si è mostrata anche la Presidente croata, Kolinda Grabar-Kitarović, che dopo aver a lungo rappresentato la principale voce favorevole alla distensione con i vicini, ha attaccato pesantemente sia Banja Luka che Belgrado, accusando quest’ultima di aver al suo interno un buon numero di “fascisti”. L’ostilità dimostrata dalla Grabar-Kitarović sembra essere il frutto sia della crescente preoccupazione dimostrata dagli ambienti conservatori e ultra-conservatori croati per la progressiva integrazione della Serbia all’interno dello scacchiere europeo, cosa che secondo alcuni potrebbe indebolire la posizione di Zagabria, sia di alcune scelte inopportune dell’élite politica serba.

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Questa, infatti, è composta in larga parte da persone con un retaggio culturale di estrema destra e non formate per svolgere ruoli di primo piano all’interno della vita di un Paese. La loro impreparazione, inoltre, viene spesso manifestata attraverso dichiarazioni inappropriate o prese di posizione evitabili, rese ancor più gravi dalla celerità con cui i media locali ed internazionali le portano all’attenzione del grande pubblico, spesso tralasciando quelle dei loro omologhi croati o bosniaci.

Questo scambio di “cortesie” fra i principali eredi dell’ex-Jugoslavia ben si inserisce all’interno dei recenti sviluppi dell’area, sempre più divisa dalle tensioni che le guerre degli anni ’90 non sono riuscite a cancellare e dalla corsa al riarmo resa possibile dal leggero miglioramento della situazione economica.

All’interno dei Balcani, infatti, esistono due pericolosi focolai di instabilità: il primo è rappresentato dalla già citata Bosnia, che sopravvive più per volontà degli Stati che hanno contribuito a crearla che per quella dei suoi abitanti, il secondo dalla crescente insoddisfazione degli albanesi che, come i serbi, vivono in quattro diverse nazioni. Sebbene le avvisaglie dei due problemi appena citati siano evidenti da anni, nulla o quasi è stato fatto per individuare una soluzione definitiva.

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La sacralizzazione dei confini emersi negli anni’90, costruiti sulla base di quelli istituiti dopo la seconda guerra mondiale (già problematici), non ha permesso di avanzare un serio dibattito sull’opportunità di modificarli tenendo conto delle pressioni provenienti dalle popolazioni locali. Per quanto per noi occidentali possa apparire ormai desueto, infatti, nei Balcani la questione della Patria e delle “terre irredente” viene presa estremamente sul serio e costituisce un tema spinoso anche per quei partiti che, per ideologia o collocazione politica internazionale, sarebbero meno propensi a farlo.

Questo aspetto, in particolare, può aiutare a comprendere le ragioni del fallimento della politica di integrazione in Bosnia, Paese in cui l’asse Bruxelles-Washington ha permesso che la comunità musulmana procedesse nella sua differenziazione (in parte artificiosa) da quella croata e serba adottando il “bosniaco” come lingua ufficiale e una versione di Islam non autoctono come propria religione.

Foto: Presidenza RS, HINA e AFP

Triestino, analista indipendente e opinionista per diverse testate giornalistiche sulle tematiche balcaniche e dell'Europa Orientale, si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università di Trieste - Polo di Gorizia. Ha recentemente pubblicato per Aracne il volume “Aleksandar Rankovic e la Jugoslavia socialista”.

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