ITALIANI NEL MIRINO NEL SEMPRE PIU’ COMPLESSO SCENARIO LIBICO

Le milizie di Tripoli accusano gli uomini del maresciallo Khalifa Haftar per l’autobomba esplosa il 21 gennaio vicino all’ambasciata italiana, appena riaperta, provocando la morte dei due attentatori a bordo, a quanto pare fattisi detonare quando si sono accorti che le milizie libiche li avevano individuati oppure uccisi dall’esplosione accidentale dell’ordigno.

Secondo la milizia islamista Rada, che di fatto gestisce le indagini di polizia nella capitale, un terzo umo avrebbe dovuto recuperare i due attentatori prima dell’esplosione dell’autobomba da parcheggiare a ridosso della sede diplomatica.
Difficile però stabilire quanto siano attendibili le conclusione delle milizie tripoline, interessate a mettere in cattiva luce Haftar le cui forze non risultano aver mai impiegato autobomba nè tanto meno commando suicidi per colpire gli avversari.

Resta quindi probabile che la matrice dell’attentati fallito sia jihadista e in tal caso non è certo se l’obiettivo fosse la sede diplomatica italiana o la vicina ambasciata egiziana, anch’essa pagante sia per lo Stato Islamico che combatte le forze del Cairo con la sua branca in Sinai sia per i qaedisti di Ansar al Sharia che a Bengasi hanno subito duri rovesci militari ad opera delle truppe del maresciallo Khalifa Haftar sostenute dall’Egitto.

Matrici diverse da quella jihadista  risultano improbabili poiché se è vero che gli italiani erano stati recentemente criticati con durezza per la presenza della base militare a Misurata sia da Haftar sia dall’ex premier del precedente governo di Tripoli legato ai Fratelli Musulmani, Khalifa Ghwell, è altrettanto vero che nessuna milizia libica al di fuori di Is e qaedisti ha mai impiegato autobomba e commando suicidi.

Ambasciata italiana Tripoli

Non si può escludere che l’IS volesse colpire, vicino alle ambasciate, uno dei ministeri del governo libico che ha guidato l’offensiva su Sirte, roccaforte jihadista caduta più di un mese or sono dopo sette mesi di assedio.Plausibile soprattutto il tentativo di colpire l’ambasciata italiana per uno Stato Islamico che poche ore prima dell’attentato aveva subito l’ultimo raid aereo dell’Amministrazione Obama: un’incursione combinata che ha visto mobilitati bombardieri “stealth” B-2 arrivati direttamente dal Missouri, e droni armati decollati con ogni probabilità da Sigonella che, guidati da aerei spia e forze speciali sul terreno hanno distrutto due campi d’addestramento del Califfato uccidendo una novantina di miliziani.

Plausibile quindi che questo raid abbia determinato un credibile rischio di rappresaglie contro obiettivi in Europa (non per forza statunitensi) ma sul territorio libico l’ambasciata italiana è oggi l’unico target occidentale abbordabile per i terroristi. Certo vi sono installazioni militari occupate dalle forze speciali di diversi Paesi e la base dell’Operazione italiana Ippocrate all’aeroporto di Misurata, ma si tratta di obiettivi o poco visibili o ben protetti.

Anche la rapidità con cui sarebbe stato messo in atto l’attentato per rappresaglia contro il raid aereo non deve sorprendere poiché gli stessi servizi di sicurezza di Tripoli e Misurata ammettono che cellule dell’Is sono infiltrate in molte città della Tripolitania.
Roma poi ha pubblicizzato fin dall’agosto scorso (quando prese il via l’operazione statunitense “Odissey Lightning” che ha colpito le milizie del Califfato con 435 incursioni) il via libera all’impiego in raid offensivi dei droni Reaper dell’Usaf a Sigonella e in altre basi italiane: un’autorizzazione precedentemente negata ma che ha reso l’Italia belligerante contro lo Stato Islamico anche in Libia.

L’ultimo raid di Obama

L’ultimo raid aereo statunitense merita qualche ulteriore riflessione e va forse legato strettamente più al crescente ruolo russo in Cirenaica e in generale in Libia che all’obiettivo di assestare un nuovo colpo allo Stato Islamico.

B-2 Per quel tipo di obiettivi non c’era nessun bisogno di mobilitare i bombardieri strategici B-2, velivoli da oltre 2 miliardi di dollari, realizzati in soli 21 esemplari, potenzialmente invisibili ai radar e progettati per penetrare in profondità con armi atomiche le difese aeree dell’URSS.

Per uccidere nel deserto miliziani armati di kalashnikov, privi di radar e difese aeree sarebbero stati sufficienti un paio di droni Reaper basati a Sigonella o i caccia F-16 di Aviano.

L’impiego dei B-2 sembra quindi voler ammonire i russi che stanno per “sbarcare” in Libia ricordando loro le capacità strategiche statunitensi con un messaggio trasmesso in “puro stile guerra fredda”.
Il raid USA ha poi coinciso con la rimozione della regione libica di Sirte dalla lista delle aree dove le forze statunitensi sono autorizzate dalla Casa Bianca a colpire i terroristi senza applicare le regole d’ingaggio previste per ridurre al minimo i danni collaterali, cioè le vittime civili.

La decisione di Obama potrebbe puntare a ostacolare l’intensificazione della guerra ai jihadisti preannunciata da Donald Trump oppure rappresentare la conferma dello scarso interesse di Washington, indipendentemente dall’Amministrazione, nel farsi coinvolgere più pesantemente nella crisi libica.

L’Italia esposta

Se il sostegno politico di Roma al governo fallimentare di Fayez al-Sarraj suscita perplessità, qualche chiarimento richiede la permanenza del contingente dell’Operazione Ippocrate 300 militari che nell’ospedale da campo e in quello della città libica curano i feriti registrati dalle milizie libiche nella battaglia di Sirte. Un’emergenza che dovrebbe risultare ormai risolta considerato che la battaglia si è conclusa da oltre un mese.

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Roma ha appena rinnovato per tutto il 2017 l’operazione Ippocrate, al costo di 43,6 milioni di euro, sull’onda della richiesta di Misurata (che ha un peso considerevole nel governo al-Sarraj) e nonostante l’ostilità delle altre più importanti forze politiche e militari libiche. L’ospedale è attualmente pieno di feriti ma la conclusione della battaglia di Sirte potrebbe permettere presto di trasferirli nell’ospedale civile della città dove peraltro operano anche medici militari italiani.

Chiaro quindi che la base italiana assumerà sempre di più un valore politico-strategico che sanitario schierando palesemente Roma al fianco della “Sparta libica” ma irritando i jihadisti, il maresciallo Haftar e i rivali di al-Sarraj a Tripoli.

Una decisione che solo il tempo dirà quanto sarà stata appropriata.
Se da un lato infatti c’è attesa per i colloqui del Cairo tra al-Sarraj e Haftar con la mediazione del presidente egiziano al-Sisi, dall’altro non può essere sottovalutata l’ipotesi che a Tripoli riprenda il sopravvento Khalifa Ghwell con l’appoggio dei Fratelli Musulmani e della Turchia creando i presupposti per un negoziato, già anticipato dallo stesso Ghwell, con il maresciallo Haftar.

Una sorta di conferenza di pace a due con la mediazione russo-turca (come sta avvenendo per la crisi siriana) che condannerebbe il governo al-Sarraj e lascerebbe l’Italia in una posizione marginale e imbarazzante.

@GianandreaGaian

Foto: Askanews, US DoD, La Stampa e Difesa.it

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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