La Tunisia affronta il ritorno dei foreign fighters
AGI – Culla della rivoluzione dei gelsomini, esempio di democrazia per il mondo arabo e non solo, quindi potenziale epicentro di una nuova ondata di terrorismo. Un paradosso, quello della Tunisia, che da pochi giorni ha ricordato l’anniversario della fine del regime di Ben Ali, ma lo ha fatto tra le proteste di piazza per la disoccupazione. Non è un caso, scrive anche questa settimana l’Economist, che fino allo scoppio della guerra in Siria, Ben Guardane, cittadina nella Tunisia meridionale, era nota soprattutto per il festival dei dromedari. Oggi lo è per altri motivi, vale a dire per l’essere uno dei principali centri di esportazione di foreign fighters di tutto il Medioriente e il Nordafrica.
In altre parole: da una parte il faticoso percorso verso una democrazia rappresentativa e condivisa, iniziato dopo la deposizione di Ben Ali, ha portato il piccolo Paese affacciato sul mediterraneo a costituire un esempio per quelli circostanti, toccati a diversi livelli dalle primavere arabe. E’ qui che la convivenza al potere tra le anime laiche (rappresentate soprattutto dal partito Nida Tounis) e quelle religiose (rappresentate da Ennahda, il partito islamista, nato come costola dei Fratelli Musulmani e guidato da Rachid Ghannouchi) sta diventando una realta’ consolidata.
Dall’altra, però, un allarmante primato: la Tunisia e’ il paese dal quale proviene il maggior numero di foreign fighters in assoluto. Le stime sono discordi: secondo il governo tunisino, sono circa 3.000 i jihadisti partiti soprattutto per la Siria dal 2011; secondo un rapporto delle Nazioni Unite redatto a luglio del 2015, questo numero si aggirerebbe invece attorno ai 5.500-6.000. Oggi il principale problema per il Paese risiede nella gestione dei miliziani che tornano a casa, in seguito alle sconfitte dell’Isis sul campo di battaglia in Siria e in Iraq.
Lo scorso dicembre il ministro degli Interni tunisino, Hedi Majdoub, ha dichiarato che sarebbero circa 800 i combattenti tornati finora in Tunisia, molti dei quali sono attualmente sottoposti a processo e posti agli arresti domiciliari. Fino al 2015, la strategia tunisina per la gestione dei foreign fighters si basava sulla possibilità per questi ultimi di pentirsi una volta tornati in patria, proposta dall’ex governo guidato da Moncef Marzouki, e appoggiata dal leader di Ennahda, Rachid Ghannouchi.
I sanguinosi attentati del 2015 cambiano pero’ il quadro e la percezione del pericolo: il 18 marzo, Yassine Labidi e Jabeur Kachnaoui – membri di una cellula affiliata ad al Qaeda – uccidono ventiquattro persone in un attentato al Museo del Bardo di Tunisi. Il 26 giugno dello stesso anno Saifeddine Razqui Yacoubi irrompe sulla spiaggia privata dell’Hotel Imperial Marhaba di Susa e armato di kalashnikov uccide 39 persone. Il governo tunisino, già a partire dall’attentato del Bardo, prende alcune contromisure.
Vengono chiuse alcune moschee dirette da predicatori “radicali”; ai cittadini sotto ai 35 anni viene impedito di viaggiare in Libia, in Serbia e in Turchia (le principali vie di transito per Siria e Iraq), vengono aumentate le truppe nei pressi dei porosi confini con l’Algeria e la Libia.
Infine, ad agosto 2015, il Parlamento approva una controversa legge anti terrorismo, che permette alle autorità di detenere dei sospettati e – all’articolo 33 – di punire col carcere chiunque abbia “viaggiato all’estero per commettere atti terroristici”, e che viene criticata da alcune organizzazioni per i diritti umani.
Viene avanzata anche la proposta di revocare la cittadinanza a quanti sono andati volontari a combattere per l’Isis, ma molti osservatori, come il docente ed esperto di terrorismo Abdul Latif Hanachi , dell’Università di Manouba, ricordano come ciò sarebbe in contrasto con l’articolo 25 della Costituzione, il quale afferma che “nessuno può essere privato della cittadinanza e a nessuno può essere impedito di far ritorno nel paese dall’estero”.
Sia Nida Tounis che Ennahda, dopo gli attacchi di Sousse, sostengono la bontà della legge anti terrorismo, e chiedono che i jihadisti di ritorno vengano arrestati non appena mettano piede nel paese, nonostante il noto sovraffollamento delle 28 carceri presenti sul territorio nazionale. Carceri che però secondo molti potrebbero fungere da ulteriori centri di radicalizzazione. Lo scorso 2 dicembre, durante una visita in Francia, il Presidente della Repubblica Beji Caid Essebsi è intervenuto sul tema, attirando alcune critiche: “I jihadisti non sono più una minaccia, e molti vogliono tornare a casa. Non possiamo impedirglielo.
Non li metteremo tutti in carcere perché non abbiamo spazio a sufficienza. Ma li terremo sotto sorveglianza”. Un rapporto dell’Onu pubblicato a maggio 2016 ha confermato che in seguito alle disfatte sul campo di battaglia in Siria e Iraq, i comandi dell’Is hanno invitato i foreign fighters di ritorno a commettere attentati in patria e in Europa: non è forse un caso che sia l’attentatore di Nizza di luglio 2016 Mohammad Lahouaiej Bouhlel – che quello di Berlino dello scorso 19 dicembre – Anis Amri – siano di nazionalità tunisina.
La partenza (e il ritorno) di migliaia di tunisini per la Siria, la Libia e l’Iraq – contestuale alla complessa transizione democratica, che ha spinto il partito islamista Ennahda a coinvolgere nel processo fasce della popolazione potenzialmente sensibili ad un certo tipo di messaggi – ha attivato un circolo vizioso: gli attentati perpetrati da jihadisti a partire dal 2015 hanno provocato una graduale diminuzione dei flussi turistici.
Questo ha inciso fortemente sul tasso di disoccupazione (soprattutto tra coloro che lavoravano nel settore del turismo), aumentato del 15% rispetto al periodo anteriore alla rivoluzione tunisina, con quello giovanile che si attesta attorno al 30%; disoccupazione che ha a sua volta prodotto un aumento degli emarginati soprattutto nelle aree rurali, in cittadine come ben Guardane o in “banlieue” come quella di Douar Hicher, vicino alla capitale. Emarginati che sono così diventati delle facili prede per i reclutatori di Al Qaeda e dell’Is, che li attraggono con promesse e garanzie economiche.
Secondo Hadi Yahmed, un ricercatore tunisino indipendente intervistato da Al Monitor, la soluzione carceraria non e’ abbastanza per risolvere il problema dei jihadisti di ritorno. “Dobbiamo pensare a soluzioni ragionevoli e allo stesso tempo radicali per questo fenomeno. Le prigioni sono una soluzione temporanea, così come le espulsioni e gli esili (spesso i jihadisti riescono a passare in punti di confine non sorvegliati, ndr).
Nessuna di esse sradicherà il terrorismo, che in realtà richiede un lavoro sulle generazioni future. A questo punto, non abbiamo molte soluzioni in mano. Forse la più ragionevole è quella di convincere alcuni giovani detenuti in carcere a rivedere le proprie idee e a rendersi conto che possono assecondare e mettere in pratica le loro convinzioni religiose, a patto che rinuncino a ogni forma di violenza.Altrimenti, continueremo a correre in circolo finchè non giungerà la nostra fine”, conclude Yahmed.
Secondo l’analista politico Camille Tawil un problema sta anche nel fatto che le autorità non possono sapere se i jihadisti di ritorno sono sinceri quando dichiarano di aver rinunciato alle loro convinzioni estremiste, e per questo sostiene la linea dura, anche a costo di restringere le libertà individuali. Rispetto alla possibilità di privare i jihadisti della nazionalità tunisina, Tawil è chiaro: “solo se hanno dichiarato di preferire la nazionalità dello Stato Islamico rispetto alla propria”. Il ricercatore residente a Londra suggerisce poi di costringere i jihadisti detenuti a fornire informazioni su altri terroristi, insistendo soprattutto su quelli che hanno mostrato pentimento.
Un piano chiaro e condiviso di contrasto dei foreign fighters di ritorno, in ogni caso, sembra oggi mancare in Tunisia, e si teme una “somalizzazione del paese”: nel frattempo, in luoghi come Ben Guardane – dove lo scorso marzo si è consumata una battaglia tra le forze dell’ordine e militanti dell’IS e di Ansar al Sharia, con una ventina tra civili e membri delle forze di sicurezza uccisi, oltre ad una cinquantina di jihadisti – o le periferie delle principali città tunisine, la disoccupazione e la sensazione di abbandono da parte delle istituzioni rischiano di produrre ulteriore emarginazione, anticamera della possibile affiliazione jihadista.
Foto: Legatum Institute, AFP e Reuters
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