La Turchia paga il prezzo del “tradimento” dei jihadisti in Siria

Non c’erano mai stati veri dubbi sulla matrice della strage di Capodanno a Istanbul, confermata dalla rivendicazione dello Stato Islamico che ha attribuito a un “suo soldato” il massacro nel “più famoso nightclub dove i cristiani stavano celebrando la loro festa apostatica”.
Nel suo comunicato, diffuso per la prima volta anche in lingua turca, l’Isis definisce la Turchia “serva dei crociati” motivando l’attentato come una ritorsione nei confronti dei bombardamenti di Ankara in Siria dove le truppe turche proseguono l’Operazione “Scudo dell’Eufrate” tesa a scacciare i miliziani Isis (e curdi) dai suoi confini meridionali.

La polizia turca sembra brancolare nel buio: ha arrestato a Istanbul diverse persone per presunto coinvolgimento nella strage ma prosegue la caccia a un killer dio cui pare non si sappia ancora nulla se non che dovrebbe trattarsi di un asiatico.
Probabilmente originario di Uzbekistan, Kirghizistan o del Xinjiang, turbolenta regione cinese a maggioranza musulmana: tutte aree che hanno generosamente alimentato con molti foreign fighters l’armate del Califfato. “Determinato, dal sangue freddo ed esperto” ha commentato dopo aver visto il video della strage Abdullah Agar, ex militare e uno dei più noti esperti di scurezza turchi.

“Probabilmente ha già sparato in zone di guerra; non ha avuto esitazione ad aprire il fuoco su persone innocenti”.
La dinamica dell’attacco ricorda quella del Bataclan di Parigi nel novembre 2015 o la strage alla discoteca gay Pulse di Orlando, in Florida del giugno scorso con la differenza che a Istanbul l’attentatore è riuscito a dileguarsi.

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Il 30 dicembre le autorità turche avevano ricevuto informazioni dagli Stati Uniti, che avvertivano del rischio di un attacco da parte dello Stato islamico durante la notte di Capodanno a Istanbul o Ankara.

Il terrorista è arrivato al Reina Club in taxi all’una e un quarto, ha preso una borsa dal bagagliaio e ha estratto il fucile d’assalto. Ha iniziato a sparare già fuori dal locale, colpendo prima un poliziotto e un civile; dentro alla discoteca, poi, ha sparato alla cieca sulle circa 600 persone presenti.
Le vittime sono 39, la maggior parte stranieri, e 70 i feriti. Secondo le ricostruzioni, nel luogo della strage sono stati esplosi tra i 120 e i 180 colpi in sette minuti, cioè 4/6 caricatori di kalashnikov da 30 colpi ognuno.

Oltre alla rivendicazione, lo Stato islamico ha diffuso anche messaggi in cui si esorta a colpire la Turchia e gli interessi turchi nel mondo. Un Paese colpito da almeno una dozzina di attentati nel 2016, l’ultimo ad Ankara dove un poliziotto di 22 anni ha ucciso per vendicare i “morti di Aleppo” l’ambasciatore russo Andrey Karlov.
Nello stesso quartiere di Besiktas dove si è verificata la strage al Reina Club, lo scorso 10 dicembre era avvenuto l’attacco allo stadio dell’omonima squadra di calcio in cui morirono 38 persone e altre 166 rimasero ferite.

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L’escalation di azioni jihadiste contro Ankara si presta a diverse valutazioni. Innanzitutto l’Isis sta subendo l’offensiva turca nel nord della Siria pur combattendo con la consueta tenacia (almeno due dozzine i solfati turchi uccisi e almeno 4 i carri armati distrutti o catturati) ma sul piano strategico il riallineamento turco al fianco di Mosca e indirettamente di Bashar Assad ha compromesso le capacità belliche dello Stato Islamico e di tutti i gruppi ribelli siriani che avevano in Turchia le loro retrovie.
Meno di un anno or sono l’Isis vendeva in Turchia il suo petrolio e faceva curare in ospedali turchi i suoi feriti; indimenticabili le immagini dei soldati di Ankara che fraternizzavano con i miliziani jihadisti che assediavano i curdi a Kobane.

Del resto la politica di islamizzazione della società turca, perseguita con determinazione dal presidente Recep Tayyp Erdogan, ha incrementato le simpatie per i jihadisti che accusano oggi Ankara di aver tradito la causa.
Una minaccia che non riguarda solo l’Isis ma in generale tutti i gruppi che combattono il regime di Bashar Assad, la cui caduta era dal 2011 una priorità per il governo di Ankara che oggi ha ridimensionato le sue ambizioni “accontentandosi” di garantirsi confini sicuri a sud e scongiurare la nascita di un’entità curdo-siriana.

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L’accordo turco-russo-iraniano che ha portato alla (già traballante) tregua in Siria nasce dalla disfatta dei ribelli ad Aleppo, a sua volta determinata proprio dal blocco degli aiuti ai gruppi armati imposto da Ankara che ha chiuso il flusso dei rifornimenti provenienti dalle monarchie sunnite del Golfo e dagli Stati Uniti.
Un voltafaccia maturato negli ultimi mesi dopo il fallimento del golpe di luglio ad Ankara, che ha dimostrato a Erdogan quanto fossero poco affidabili le alleanze con Occidente e arabi favorendo l’avvicinamento di Ankara a Mosca.

Per questa ragione non è solo l’Isis ad avere validi motivi per colpire e destabilizzare la Turchia, divenuta ostile anche per i qaedisti dell’ex Fronte al-Nusra e i diversi movimenti salafiti sconfitti ad Aleppo, così come per Arabia Saudita e Qatar che tanti sforzi e denaro avevano investito in Turchia per rovesciare il regime di Damasco.

@GianandreaGaian

Foto: AP, EPA  e Anadolu

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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