Lo “strappo” delle Filippine

Il 2016 è stato l’anno della rottura filippino – americana e del riavvicinamento sino-(russo)- filippino.
Da mesi ormai si profila un cambiamento di rotta radicale per le Filippine. Il Presidente Rodrigo Duterte, in carica dal 30 giugno, ha infatti dichiarato di non voler più essere lo «zerbino» della comunità internazionale. Le Filippine, ha aggiunto, devono adottare «una politica estera indipendente».
In un discorso davanti ad un forum economico presso la Grande Sala del Popolo a Pechino il 20 ottobre, il leader filippino ha accettato di riavviare le discussioni riguardo le dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale. E in tale sede ha annunciato la separazione dagli Stati Uniti sia dal punto di vista militare che da quello economico, trasformando così il rapporto di lunga data in modo brusco alla luce dell’interesse nazionale.

Le Filippine sono l’alleato più antico degli Stati Uniti nella regione Asia – Pacifico, una ex colonia accompagnata per mano verso l’indipendenza dopo la seconda guerra mondiale e fino all’altro ieri anche uno dei partner strategici più fidati benché all’inizio degli anni ’90 Manila avesse “cacciato” gli USA dalle basi di Subic Bay (navale) e Clark Fields (aerea) che ebbero un ruolo logistico e di retrovia fondamentale durante il conflitto vietnamita e successivamente per la presenza statunitense nel Mar Cinese Meridionale.

Il presidente filippino sembra ora intenzionato a costituire una triade con Russia e Cina, anche a costo di andare incontro a compromessi circa la disputa sul Mar Cinese Meridionale. L’America “ha perso”, ha affermato Duterte, dichiarando appunto che sarebbe emersa una nuova alleanza tra Filippine, Cina e Russia.
L’obiettivo dichiarato di Duterte è quello di liberare nel giro dei prossimi due anni il paese dalla presenza di truppe straniere. Washington mantiene infatti una piccola presenza di forze speciali sull’isola di Mindanao come supporto per operazioni di antiterrorismo. Ma Duterte ha dichiarato di voler solamente soldati filippini e, in caso contrario, è pronto a stracciare gli accordi.

La notizia stupisce ma fino ad un certo punto. I segnali erano ben presenti fin dall’estate, e Duterte ha più volte affermato pubblicamente di voler rimettere in discussione la special relationship che lega Stati Uniti e Filippine.

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A fine giugno, Duterte aveva incontrato Zang Jianhua a Davao. Poco dopo, Jianhua aveva parlato di “sole splendente su un nuovo capitolo” delle relazioni bilaterali.
In agosto, Duterte ha affermato che le Filippine sarebbero state pronte a valutare l’uscita dalle Nazioni Unite (e magari a creare un’asse con Cina e paesi africani) dopo che due agenzie dell’Onu avevano posto la questione del rispetto dei diritti umani nell’ambito della guerra al narcotraffico.

In settembre, dopo aver usato parole spregiative nei confronti di Obama e dell’ambasciatore americano a Manila, il Presidente filippino ha chiesto a Washington di ritirare i propri consiglieri militari di stanza a Mindanao, affermando che la loro presenza minava gli sforzi del suo governo di trovare un’intesa con i gruppi armati islamisti. Inoltre, Duterte aveva specificato di avere l’intenzione di ridurre, fino ad annullare completamente, i pattugliamenti che la Marina filippina effettua nelle acque del Mare Cinese Meridionale.
Nel mese di settembre, Pechino aveva inviato nel Mar Cinese un numero record di imbarcazioni e marinai, ufficialmente per alcune “esercitazioni”.

Prima dell’entrata in scena di Duterte, le Filippine avevano registrato il tasso di crescita economica più elevato della regione dell’ASEAN.

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E’ verosimile che lo scopo principale di Duterte sia quello di mantenere questo primato economico. Ciò può avvenire attraverso una riconfigurazione delle alleanze diplomatiche ed anche il perseguimento di obiettivi militari non è da sottovalutare: prova ne è che Duterte ha recentemente presentato al Kongreso la legge di bilancio che prevede l’aumento delle voci di spesa del comparto della difesa pari al 25% all’anno per il prossimo quinquennio.

Ci si può peraltro chiedere quale sia la sostanza di questa pronunciata separazione dagli USA. La retorica di Duterte ha reso le sue intenzioni ben evidenti, nel momento in cui ha affermato che per avere le armi di cui ha bisogno si rivolgerà alla Russia e “ad altri stati simili”; ossia a chiunque sia disposto a vendergliele per raggiungere i suoi obiettivi politici interni e per accrescere le sue capacità militari al fine di soddisfare i suoi scopi di politica estera.

Dicendo “addio” a Waghington, Duterte si è aperto la strada per costruire una nuova relazione con la Cina, dopo decenni di stallo e di sospetto reciproco tra Manila e Pechino. È significativo che lo strappo con la Casa Bianca arrivi nel momento in cui le Filippine sperano di essere incluse nell’iniziativa OBOR (one belt, one road) della Cina. Inoltre, proprio ora il paese si appresta a soddisfare tutti i requisiti richiesti per diventare membro dell’AIIB (Asia Investment and Infrastructure Bank) e poter quindi accedere ai finanziamenti per le infrastrutture.

Le avventure di Duterte in Cina danno quindi la fondata impressione che sia dedito principalmente allo sviluppo economico del paese, che rimane una priorità nelle sue politiche regionali. Il suo malcelato fastidio nei confronti l’assistenza straniera è ben condiviso dal Ministro della Difesa, Delfin Lorenzana.

Messo a dura prova dai problemi interni, tra cui un prodotto interno lordo pro capite allarmante e dai numerosi conflitti civili (insurgency e operazioni di contro terrorismo nei confronti del MILF, Abu Sayyaf, BIFF, Khalifa Islamiyah Mindanao e il Gruppo Maute) Duterte ha ora deciso di focalizzarsi sulla cooperazione regionale.

Nonostante gli sforzi dell’attuale governo profusi nella modernizzazione delle forze, l’esercito filippino ha ancora molta strada da fare, e deve fare i conti con il deficit degli anni precedenti. Decenni di scarse risorse hanno lasciato le forze armate filippine alle prese con difficoltà tattiche e logistiche.

Probabilmente Manila non è preparata per combattere per i suoi interessi nella disputa sul Mare Cinese meridionale, date le risorse limitate e l’incerta capacità di spesa militare. La Cina continua a rivendicare la propria sovranità in tali acque in violazione dei diritti reclamati dalle Filippine e confermati dalla sentenza arbitrale della Corte dell’Aja lo scorso luglio.

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L’avventurismo militare non è, per lo meno a breve termine, nelle opzioni di Manila. Ma se è impensabile sfidare apertamente gli interessi cinesi nella regione, tanto vale unirsi al potenziale rivale numero uno. Ed infatti Manila ha cercato una soluzione amichevole all’intricata questione, limitandosi per il momento ad organizzare un pattugliamento congiunto con Pechino al largo delle coste degli isolotti interessati.
Un cambiamento strategico totale e durevole appare però improbabile, specialmente dopo l’elezione di Trump. In primo luogo, tecnicamente l’Enhanced Defense Cooperation Agreement firmato nel 2014 dal predecessore di Duterte durante l’unica visita di stato di Obama nel paese asiatico ai fini di rafforzare la partnership militare tra Filippine e Stati Uniti è ancora valido.

L’accordo permette in sostanza alle forze statunitensi un accesso regolare alle c.d. agreed locations (ossia basi militari concesse temporaneamente alle forze armate e/o defence contractors statunitensi su autorizzazione di Manila) in virtù della collaborazione congiunta delle forze armate filippine e statunitensi in tre specifici settori di intervento: sicurezza marittima, assistenza umanitaria e prevenzione dei rischi derivanti dai disastri naturali. In caso estremo è prevista la possibilità di ritiro delle unità da parte del governo filippino, ma finora tale ipotesi non sembra realistica.

Anche il trattato di difesa reciproca 1951 che lega Washington e Manila è tuttora in vigore. Il futuro della cooperazione strettamente militare rimane comunque incerto e lo stesso Duterte si è contraddetto più volte. Di certo egli intende interrompere sia le Freedom of Navigation Operations condotte dagli americani nel Mar Cinese Meridionale, sia le esercitazioni militari congiunte (Balikatan) che si tengono annualmente in territorio filippino e che quest’anno hanno visto impegnati 5.000 Marines.

In secondo luogo, se di cambiamento radicale si tratta, non si può tuttavia parlare di un nuovo allineamento. Le Filippine e la Cina hanno annunciato accordi commerciali per 13 miliardi di dollari in segno della nuova amicizia. Tuttavia, la visita a Pechino, a fine ottobre, è ruotata esclusivamente intorno ad accordi commerciali e non a questioni militari o di sicurezza, e Duterte ha tenuto a ribadirlo.

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Inoltre, una timida alleanza con la Cina è necessaria per la ricerca di una pacifica soluzione sulla questione delle isole contese nel Mar Cinese Meridionale. Ma alla causa può contribuire anche un sodalizio con il Giappone, e infatti Duterte ha dichiarato che le Filippine sono pronte a lavorare con Tokyo anche “per risolvere i tanti dossier aperti”. Durante una visita nella capitale giapponese a fine ottobre, Duterte ha d’altra parte nuovamente ribadito la volontà di liberarsi dalla presenza di forze militari straniere nel giro di due anni. Nel marzo di quest’anno Tokyo e Manila hanno dato avvio alla cooperazione in ambito militare concludendo un accordo di difesa che prevede il trasferimento di equipaggiamento, mezzi e tecnologia militare giapponesi alle Forze Armate filippine.

Il governo di Tokyo ha già donato 10 navi da ricognizione che sono state abilmente dispiegate dalla Guardia costiera filippina nel Mar Cinese Meridionale e durante la visita Duterte ha tenuto a sottolineare la necessità di un pattugliamento congiunto delle coste delle isole contese nel Mar Cinese Meridionale. Il fatto è che il Giappone è il primo partner commerciale delle Filippine, nonché alleato americano e nemico dell’espansionismo cinese.

Gli Stati Uniti di Obama da parte loro non sono sembrati particolarmente preoccupati del cambio di rotta filippino, e ancora a fine ottobre affermavano di non aver ricevuto alcun documento ufficiale in proposito.

La portata dello strappo Washington- Manila potrebbe essere quindi molto meno lacerante. È da escludere, per il momento, un distacco totale dagli USA, per lo meno nel breve termine. Le Filippine hanno rapporti molto stretti con Washington sul fronte della Difesa e dal ministero degli Esteri si sono levate voci critiche. Secondo quanto riportato dal Ministro Jasai, gli USA rimangono per le Filippine un “caro amico”, ma il Paese ha bisogno di allontanarsi dall’ “abitudine di considerarsi dipendente”.

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Lo stesso Duterte è poi passato a toni più morbidi, affermando che il suo Paese non può rompere i rapporti con gli USA e che le Filippine “non hanno bisogno di mettere fine alla relazione”.

I toni si sono ulteriormente ammorbiditi dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca: in una conferenza stampa Duterte ha affermato che le Filippine “possono essere amiche di chiunque”.

Il presidente filippino si è congratulato vivamente con Trump, inviando inoltre un comunicato nel quale “auspica di lavorare con la nuova amministrazione per migliorare le relazioni tra le Filippine e gli Stati Uniti, sulla base del rispetto reciproco, del reciproco vantaggio e dell’impegno condiviso”.

L’entusiasmo di Duterte per la vittoria di Trump sembrerebbe suggerire un probabile passo indietro a favore di un proseguimento dell’alleanza con gli USA.

Qualche settimana fa, Duterte si è detto fiducioso che con il nuovo presidente Donald Trump le relazioni con gli Stati Uniti miglioreranno. Allo stesso tempo però, il leader filippino ha parlato delle aspettative dell’incontro con il presidente russo Vladimir Putin in Perù. “Se la Russia e la Cina intendono creare un nuovo ordine mondiale”, le Filippine vi si uniranno, ha affermato.

Il nuovo corso della politica estera filippina dipenderà con tutta probabilità da chi sarà in grado di offrire più incentivi. Nel 2015 Manila ha ricevuto 40 milioni di dollari da Washington solamente per la difesa (oltre ai 175 milioni in assistenza per lo sviluppo) e quasi 50 milioni nel 2014. Se Pechino riuscirà a superare questi numeri, ciò su cui scommette del resto Duterte, le Filippine manterranno in linea di principio il “nuovo corso”.

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D’altronde, numerose risorse sono pervenute a Manila da uno dei più stretti alleati di Washington, la Corea del Sud, che lo scorso anno aveva cospicuamente rifornito la forza aerea filippina di caccia leggeri Golden Eagle FA-50 (nella foto qui sopra).

Uno stacco definitivo da Washington vedrebbe probabilmente diminuire drasticamente il supporto sud coreano, senza contare altre forme di aiuto militare più o meno informale già ricevute. Se Pechino sia disposta a inviare equipaggiamenti militari a Manila rimane altrettanto questionabile.

Le decisioni di Duterte potrebbero basarsi su un puro calcolo delle probabilità, nella speranza che si possa instaurare una gara tra Stati Uniti e Cina per far pendere l’ago della bilancia dall’una o dall’altra parte, naturalmente prendendo per buono l’assunto che siano interessati a farlo.

Pechino è sicuramente interessata alla nuova amicizia sul fronte politico ma resta esitante nel prendere impegni più vincolanti e in particolare a trasferire armamenti sofisticati. Duterte nel frattempo sembra cogliere la sfida di una transizione militare particolarmente difficile, in termini di modernizzazione delle forze, di preparazione ad un potenziale conflitto interstatale della regione del Mare Cinese meridionale ed operazioni di counter insurgency più efficaci.

Se la partnership (per il momento ancora più politica che strategica) con la Cina offre grandi potenzialità per le mire di Duterte, allo stesso tempo rimane volatile e lo sviluppo della relazione ancora poco prevedibile.

Un altro problema per Duterte è quello del fronte interno. La popolazione filippina rimane in gran parte filo-americana e anche le forze armate (organizzate a immagine di quelle degli Stati Uniti) sono largamente contrarie allo strappo.

È quindi probabile che Manila sia costretta a mantenere il filo del discorso con Washington, anche se non più in via esclusiva, come afferma un rappresentante filippino al Human Rights Forum tenutosi recentemente a Bruxelles.

Il ruolo delle Filippine nella strategia di contenimento della Cina resta fondamentale per gli USA. La difesa della prima catena insulare nel Pacifico Occidentale – che comprende l’arcipelago giapponese, le isole Ryukyu, Taiwan e l’arcipelago delle Filippine stesso – rimane uno dei perni della strategia americana dalla guerra fredda in poi e il cambio di rotta nella politica estera di Duterte rende sicuramente il perseguimento del Pivot to Asia (“il futuro della politica sarà deciso in Asia e gli USA saranno al centro dell’azione”, scriveva Hillary Clinton – allora sottosegretario di stato – nel 2011) molto più arduo. Ormai la fedeltà strategica delle Filippine non può più esser data per scontata.

A fine novembre, Duterte ha incontrato per la prima volta Putin, a margine del summit APEC tenutosi a Lima. In tal frangente, egli avrebbe nuovamente enfatizzato i toni della sua retorica anti-occidentale, affermando che la guerra fredda ormai non ha più senso di esistere tra il Cremlino e Manila. Mentre sui rapporti con Washington confessa apertamente: “è stato bello finché è durata”. Nella stessa occasione, il Presidente Xi Jinping ha invitato le Filippine ad unirsi al summit BRICS che si terrà il prossimo anno a Xiamen.
Un gioco su più tavoli dagli esiti politici e militari incerti.

Foto: AP, AFP, Philippines Defence Review, Xinhua e US DoD

Classe 1983, Master in Relazioni Internazionali e Dottorato di Ricerca in Transborder Policies IUIES, ha maturato una rilevante esperienza presso varie organizzazioni occupandosi di protezione internazionale delle minoranze, politica estera della UE e sicurezza internazionale. Assistente alla cattedra di Storia delle Relazioni Internazionali e Politica Internazionale presso l'Università di Trieste, ricercatrice post-dottorato presso il Centro di Studi Europei presso l'Università Svizzera di Friburgo, e junior member presso la Divisione Politica Europea di Vicinato al Servizio Europeo per l'Azione Esterna. Lavora attualmente presso Small Arms Survey a Ginevra come Ricercatrice Associata.

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