Caso Stano: la situazione a Nassirya nel novembre 2003

Pubblichiamo un brano dal libro “Iraq Afghanistan guerre di pace italiane” di Gianandrea Gaiani pubblicato nel dicembre 2007 da Studio LT2, che fa il punto sulla situazione della sicurezza del contingente italiano dell’Operazione Antica Babilonia all’epoca dell’attentato contro la Base Maestrale.

Le condizioni ambientali misero a dura prova armi e materiali facendo emergere carenze negli equipaggiamenti. Gli scarponi da combattimento non isolavano dal forte calore come i modelli britannici e statunitensi, tra le armi portatili pesava la mancanza di un lanciagranate applicato al fucile SCP-70 (in dotazione solo ai fanti di Marina del reggimento San Marco) mentre nelle operazioni notturne i bersaglieri disponevano di ottimi visori ma erano privi di puntatori laser. Evidenti poi le limitazioni nel settore elicotteri, fondamentali per sorvegliare il territorio, colpire eventuali avversari e trasportare truppe e materiali.

L’assenza di dispositivi di difesa contro i missili antiaerei a ricerca di calore impedì all’Aviazione dell’Esercito di inviare gli elicotteri da combattimento A-129 Mangusta, i multiruolo AB-412 e i cargo CH-47 che dieci anni prima avevano operato con successo in Somalia e poi in Albania e Kosovo. La forza elicotteristica di Antica Babilonia fino a dicembre 2003 fu limitata a 3 HH-3F dell’Aeronautica e 3 SH-3D della Marina provenienti dalla nave San Giusto i quali, mezzi dotati di sistemi di autodifesa, pur garantendo 120/150 ore di volo mensili, non erano in grado di compensare l’assenza di un gruppo multiruolo dell’Aviazione dell’Esercito.

Basti pensare che nel settore dove operavano gli italiani volavano CH-47 da trasporto britannici, olandesi e americani, AH-64 Apache da combattimento olandesi e americani, mentre i britannici disponevano di Lynx, Sea King e dei nuovissimi EH-101 Merlin. Tutti i mezzi aerei erano basati a Tallil o a Bassora ed erano equipaggiati con sistemi d’inganno per i missili antiaerei.

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Solo nel novembre 2003 venne rischierato a Tallil un reparto di volo dell’AVES appartenente al 26° Gruppo Squadroni REOS (Reparto Elicotteri per Operazioni Speciali) che sostituì la componente della Marina, rientrata in Italia con la San Giusto, con 3 CH 47 e 4 AB 412. Assenti i Mangusta da combattimento ritenuti, come i carri armati, troppo “aggressivi” per una missione di pace e umanitaria nonostante di fianco ai velivoli italiani nelle piazzole dell’aeroporto di Tallil fossero parcheggiati gli elicotteri d’attacco Apache del contingente dell’Olanda. Il governo dell’Aja, come quello italiano, aveva aderito alla missione di stabilizzazione dell’Iraq richiesta dall’ONU e non aveva partecipato al conflitto contro il regime di Saddam Hussein, ma nonostante questo non rinunciò a garantire la massima deterrenza e potenza di fuoco ai suoi militari.

Gli elicotteri italiani, che operavano sotto il comando del 6° Reparto Operativo Autonomo dell’Aeronautica, vennero dotati di sistemi di protezione dalle minacce del fuoco nemico: sistema di allarme, “chaff” per ingannare i missili a guida radar, “flares” come esca per i missili a ricerca di calore e blindature applicate a stiva, abitacolo e motori. I sistemi di autoprotezione erano però di tipo manuale e non automatizzati come quelli imbarcati sugli elicotteri di Aeronautica e Marina, un aspetto che provocò qualche problema emerso anche sui media dopo che alcuni piloti rifiutarono di alzarsi in volo e vennero rimpatriati.

Oltre agli equipaggiamenti e ai mezzi lasciati in Italia o non disponibili vi erano anche armamenti assegnati al contingente ma non impiegati. Nell’estate 2003 l’intelligence anglo-americano aveva raccolto molte informazioni circa l’infiltrazione di miliziani sciiti dall’Iran e di elementi sunniti della setta wahabita dall’Arabia Saudita incaricati di destabilizzare l’Iraq.

In agosto i primi attentati avevano indotto tutti i presidi alleati a irrobustire le misure di sicurezza a protezione delle basi delle forze alleate e delle organizzazioni internazionali, in particolare contro il rischio di azioni suicide e autobomba. Una minaccia alla quale gli italiani erano teoricamente molto esposti fin dall’inizio dell’Operazione Antica Babilonia a causa della localizzazione urbana di gran parte delle dieci basi impiegate dal contingente.

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La grande base di White Horse, situata presso una ex-caserma per l’addestramento delle reclute pochi chilometri a sud di Nassiryah, ospitava il comando italiano, la task force da combattimento e il Reparto Comando e Supporto Tattici. Si trovava però in un’area isolata su un terreno pianeggiante dove era facile individuare e neutralizzare veicoli in avvicinamento. Anche le basi del 6° ROA e della task force logistica, situate nel grande complesso della base americana di Tallil, erano ben protette da attentati ma esposte al lancio di razzi e ai colpi di mortaio.

Più vulnerabili alla minaccia terroristica erano invece le cinque basi italiane situate nel centro abitato di Nassiryah. Un sito industriale a Nassiryah Nord era presidiato da una compagnia del 18° Bersaglieri, l’ex Camera di Commercio (ribattezzata Base Maestrale) era la sede del Comando MSU dei carabinieri sulla sponda nord dell’Eufrate, anche un’ex installazione industriale (Base Libeccio) ospitava i carabinieri sul lato sud del fiume. La sede della Coalition Provisional Authority e del City Council ospitava anche l’Italian CIMIC Group e infine l’ex Palazzo dell’Agricoltura era divenuto una postazione presidiata da una compagnia di fanti.

Altre due basi fuori città erano altrettanto esposte al rischio terroristico trovandosi all’interno degli abitati di As Satrah e Qal At Sukkar, rispettivamente 35 e 80 chilometri a nord di Nassiryah lungo la strada per Baghdad che gli alleati chiamavano Route Bismarck.

Contro le autobomba le armi più idonee sono i lanciarazzi anticarro, in grado di essere armati in pochi secondi e di fermare ogni tipo di veicolo. Da quanto ebbi modo di notare nell’agosto 2003 tutti i check-point alleati nel sud Iraq erano dotati di lanciarazzi anticarro. Gli americani nei punti di accesso a Tallil avevano schierato molti sistemi AT-4 mentre i check-point italiani erano armati solo con mitragliatrici di calibro 5.56 e 7.62 che avevano ben poche possibilità di fermare grossi veicoli bomba lanciati a tutti velocità.

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Il contingente Antica Babilonia disponeva di lanciarazzi anticarro Panzerfaust 3, efficaci contro mezzi corazzati e quindi in grado di fermare e distruggere ogni tipo di veicolo, ma fino ad agosto non erano stati distribuiti ai check-point e agli ingressi delle basi italiani. Da quanto è emerso, queste armi non sembra fossero state distribuite neppure ai carabinieri di guardia alla base Maestrale. Con un Panzerfaust, il 12 novembre 2003, avrebbero probabilmente potuto fermare il camion bomba prima che raggiungesse il perimetro dell’installazione italiana devastandola. In seguito all’attentato ogni check-point o postazione fissa italiana venne dotato di almeno due lanciarazzi anticarro pronti all’uso.

A rendere vulnerabile la base dei carabinieri a Nassiryah contribuirono anche altri fattori. Entro settembre le due basi fuori Nassiryah erano state abbandonate rinunciando a presidiare la Route Bismarck che veniva solo attraversata da pattuglie e colonne di mezzi. Anche i presidi del sito industriale a Nassiryah Nord e l’ex Palazzo dell’Agricoltura vennero evacuati concentrando le forze tattiche a White Horse ma lasciando isolato il presidio della CPA e del City Council e togliendo una robusta cornice di sicurezza alle due basi dei carabinieri che, per i compiti loro assegnati di polizia e sostegno agli agenti iracheni, dovevano mantenere la presenza in città.

I reiterati allarmi dell’intelligence per possibili attentati misero in luce tutti i limiti di un contingente che non aveva la consistenza numerica sufficiente per controllare il territorio e la città di Nassiryah. Inoltre il reparto del Genio incaricato di costruire le barriere anti-autobomba (hesco-bastion) intorno alle basi non aveva mezzi sufficienti a lavorare a più di una base alla volta. Venne data la precedenza a White Horse anche se si trovava fuori città. Col senno di poi, avrebbe potuto attendere rispetto alle due basi dei carabinieri, più esposte perché situate nei pressi di strade e ponti molto trafficati.

La base Maestrale non era protetta al meglio, muri in cemento e sbarramenti non erano ancora stati completati e le uniche misure idonee a impedire a un camion bomba di raggiungere il perimetro, cioè la chiusura delle strade circostanti e di uno dei tre ponti, erano state scartate per evitare disagi alla popolazione.

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Quello contro la base italiana a Nassiryah non è stato certo il primo attentato condotto con veicoli-bomba contro caserme di forze occidentali (basti pensare agli attentati del 1983 contro i comandi dei contingenti francese e americano in Libano), né tanto meno il primo attacco terroristico di questo tipo nell’Iraq da pochi mesi liberato dalla dittatura di Saddam Hussein. Il 19 agosto un camion imbottito di esplosivo aveva distrutto, a Baghdad, l’hotel Canal che ospitava il quartier generale dell’ONU uccidendo venti persone incluso il rappresentate del segretario generale in Iraq, Sergio Vieira de Mello.

L’attentato alla Base Maestrale, che uccise 19 italiani e 9 iracheni, puntava probabilmente a indurre gli italiani a ritirare le due basi dell’Arma dal cuore della città dalle quali giorno e notte i carabinieri affiancavano gli inesperti agenti iracheni nel contrasto a criminali e miliziani. Una presenza che dava fiducia alla popolazione. In tal caso i terroristi raggiunsero pienamente l’obiettivo considerato che pochi giorni dopo l’attentato venne annunciato il ritiro dei carabinieri dalle basi in città e la riorganizzazione del contingente italiano su due soli sedi, Tallil e White Horse, rispettivamente a 15 e 5 chilometri dalla città.

Abu Omar al Kurdi, terrorista legato ad al-Qaeda giustiziato a Baghdad nel settembre 2007, ha ammesso di aver organizzato 35 attentati in Iraq incluso quello contro gli italiani dichiarando in un interrogatorio di aver scelto quel bersaglio perchè facile da colpire. Le differenti vedute sulle responsabilità sono state confermate anche da due relazioni realizzate da Carabinieri ed Esercito che differiscono nelle conclusioni: il primo rapporto ha sottolineato l’adeguatezza complessiva del dispositivo di protezione; l’altro ha evidenziato invece alcune carenze nelle misure adottate.

Col senno di poi, si può affermare che se gli italiani avessero mantenuto truppe e basi nel cuore di Nassiryah i terroristi avrebbero avuto maggiori difficoltà a mettere in atto l’attentato contro base Maestrale e i miliziani sciiti non avrebbero potuto prendere i ponti sull’Eufrate, come fecero nella primavera 2004, costringendo il contingente a combattere ben tre battaglie.

Al di là delle eventuali responsabilità dei comandanti, l’attentato del 12 novembre e i suoi sviluppi successivi dimostrarono non solo la vulnerabilità del contingente Antica Babilonia ma soprattutto che le perdite subite inducevano il governo a modificare lo schieramento delle forze per ridurre i rischi e quindi a garantire priorità alla riduzione delle perdite rispetto al conseguimento degli obiettivi militari dell’operazione.

Foto AP

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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