Una guerra per finta

di Giulio Meotti da Il Foglio de 25 marz0 2017

E’ stato una sorta d’addio alle armi. Durante una breve visita alla portaerei Charles de Gaulle, a fine dicembre, Francois Hollande ha reso omaggio ai soldati coinvolti nell’operazione “Chammal” contro l’Isis. Dopo due anni, 238 morti francesi per mano del terrorismo islamico e aver ripetuto dieci volte “Nous sommes en guerre”, come è andata in Francia? Una pacchia per i terroristi e i loro amici.

Come ha scritto il generale Vincent Desportes nel suo nuovo libro per Gallimard “La dernière bataille de France”, “il presidente Hollande il 15 novembre ha detto che sarebbe stato spietato, che eravamo in guerra… ma noi non abbiamo fatto la guerra!

Avevamo bombardato Raqqa a sufficienza da causare la strage del Bataclan, ma non abbastanza per evitarla. La storia dimostra che nell’eterna lotta tra l’armatura e la spada, è ancora la spada un passo avanti ed è quella che vince”. Hadrien Desuin, esperto di relazioni internazionali, sul Figaro l’ha paragonata alla “drole de guerre” che la Francia non combattè nel 1939-40. Parigi, pur dichiarando guerra al nazismo, così come oggi la dichiara a parole al terrorismo, di fatto non la combatté; per un anno intero non tirò un colpo di fucile contro i nazisti che si espandevano in Europa, accucciata dietro la linea Maginot che credeva invincibile.

La strana guerra è iniziata con la strage al numero dieci di rue Nicolas-Appert, undicesimo arrondissement di Parigi. E’ la redazione di Charlie Hebdo, dove dodici fra vignettisti e poliziotti vengono massacrati da due fratelli che per strada urlano “abbiamo vendicato Maometto, abbiamo ucciso Charlie Hebdo”. Dopo una breve sbornia collettiva fatta di marce, veglie per strada, candele e slogan come “Je suis Charlie”, mezza intellighenzia francese era già pronta a entrare in clandestinità, protetta dalla gendarmerie. Sono accademici, intellettuali, romanzieri, giornalisti. Il più famoso è Michel Houellebecq, l’autore di “Sottomissione”.

E poi Eric Zemmour, l’autore di “Le Suicide francais”; la redazione di Charlie Hebdo, soprattutto il direttore Riss; Moham-med Sifaoui, giornalista francoalgerino, l’autore di “Combattre le terrorisme islamiste”; Frédéric Haziza, giornalista radiofonico e di Canard enchainé; Philippe Val, l’ex direttore di Charlie e di France Inter; e la giornalista franco-algerina Zineb Rhazaoui, oggi circondata da sei poliziotti e che ha appena abbandonato Charlie Hebdo dopo aver detto che il suo giornale ha capitolato al terrore, rifiutandosi di riprodurre altre vignette su Maometto. I taglialingue, gli islamisti che non mettono bombe ma terrorizzano la penna e la lingua, stanno chiaramente avendo la meglio in Francia.

Per il primo anniversario della strage del 7 gennaio, il settimanale diretto da Riss è uscito con una copertina non su Maometto, ma su un “Dio-assassino” dai tratti giudeo-cristiani, come se i colleghi di Sourisseau non fossero stati uccisi dagli islamisti, ma dai neocatecumenali. Riss aveva annunciato che il settimanale “non avrebbe disegnato più Maometto”.

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“Dobbiamo continuare a ritrarre Maometto e Charlie non lo sta facendo, significa che non c’è più Charlie”, ha detto Patrick Pelloux, un altro vignettista che ha lasciato il settimanale. Fra omicidi, abbandoni e autocensura, la storia di Charlie si è quasi conclusa. Nell’editoria, intanto, si consumavano alcuni clamorosi casi di censura e autocensura. Michel Onfray, filosofo blasonato, si rifiuta di far uscire in francese il libro “Penser l’Islam”, mentre il tedesco Hamed Abdel Samad si vede censurare “Der islamische Faschismus”, bestseller in Germania, dalla casa editrice francese Piranha. Nei tribunali, intanto, si consuma un nuovo tradimento dei chierici e viene rinverdito il “délit d’opinion”, il reato intellettuale.

Lo ha spiegato sul Figaro Véronique Grousset: “Insidiosamente, la giurisprudenza si evolve rispetto alla distinzione sempre meno netta tra il dibattito sulle idee e l’attacco personale. Molte associazioni lottano per assicurare alla giustizia i loro avversari, intimorirli, rovinarli, screditarli, farli tacere. Senza contare che l’etichetta di Islamofobo’ equivale a rilasciare una licenza di uccidere”.

In due anni sono stati trascinati a giudizio grandi storici, come Georges Bensoussan, saggisti come Pascal Bruckner, scrittori e polemisti come Renaud Camus. Persino nei cinema la libertà di espressione ha vigorosamente vacillato. Sono state “deprogrammate” numerose pellicole che parlavano di islam: “L’apostolo” sui musulmani convertiti al cristianesimo; “Timbuktu” sugli islamisti in Mali, e “Made in France” su una cellula di jihadisti che attacca la capitale. Il poster delle pellicola di Nicolas Boukhrief “Made in France”, con un kalashnikov sovrapposto alla Torre Eiffel, era già nei corridoi della metropolitana quando l’Isis è entrato in azione la notte del 13 novembre.

L’uscita del film venne sospesa, con la promessa che la pellicola sarebbe tornata nelle sale a gennaio. Va da sé che “Made in France” sarebbe stato disponibile soltanto sulle piattaforme on demand. Ricacciato nell’etere anche il film “Salafistes” di Francis Francis Margolin e del giornalista mauritano Lemine Ould Salem, proiettato con il divieto, voluto dal governo di Manuel Valls, per i minorenni (il ministero dell’Interno ne aveva chiesto la totale deprogrammazione).

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Poco prima della proiezione, il Centro nazionale di cinematografia, che giudica i film, ha contattato il festival per dire che il documentario “degrada la dignità umana” perché mostra le immagini di un poliziotto ucciso negli attacchi al giornale satirico Charlie Hebdo. Per ammansire il nemico si devono celare le prove dei suoi crimini. Anche gli Eagles of death metal, la banda californiana che suonava al Bataclan la sera della strage, si vede deprogrammare da due festival della musica, Rock en Seine e Cabaret Vert, che ne cancellano le esibizioni. Il cardinale di Lione negli stessi giorni intanto disponeva la rimozione delle sette statue di pietra dei monaci uccisi in Algeria negli anni Novanta.

Il console algerino a Lione si era lamentato del fatto che non era stato informato che le statue sarebbero state collocate in una pubblica piazza nei pressi della chiesa di San Luigi, in prossimità di una moschea salafita. Il cardinale Barbarin rimosse le statue in modo da “non infastidire nessuno”. E aggiunse: “Potete immaginare se una persona squilibrata (jihadista) decapitasse queste statue?”.

Dopo Charlie Hebdo, il paese è sembrato tornare per un po’ alla normalità. Ma intanto, migliaia di ebrei (quarantamila in dieci anni) stavano facendo le valigie per lasciare la Francia, terrorizzati dagli islamisti nelle grandi periferie di Parigi, come Sarcelles, e nelle grandi città, come Tolosa. La kippah, il simbolo ebraico per eccellenza, scompariva dalle strade di Marsiglia, su richiesta del leader della comunità ebraica locale.

La prima volta che il presidente Hollande ha dichiarato “guerra” allo Stato islamico è stato dopo gli attentati del 13 novembre (130 morti e 683 feriti). Gli islamisti hanno subito capito che nessuno politico francese sarebbe riuscito a superare quella che sempre più sembra essere una tempesta perfetta. Pensavano che l’occidente fosse già sconfitto e che non avesse quello che serviva per trionfare. Sbagliavano? Il 15 novembre 2015, i giornali francesi annunciano “bombardamenti su Raqqa”.

Tutto torna rapidamente alla normalità. Forse ci siamo, forse stanno dando loro davvero la caccia. Ma gli attentati scatenano solo un dibattito nazionale circa la minoranza musulmana della Francia. “Ci sono fratture, enormi, spalancate, nella nostra società, che devono essere risolte”, dice Bruno Le Roux, leader del Partito socialista francese.

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Diversi organi di informazione decidono che non si devono più pubblicare le fotografie di persone responsabili di omicidi terroristici al fine di evitare di conferire loro “glorificazione postuma”. La stampa capitola in fretta. Le Monde pubblica un editoriale del direttore Jerome Fenoglio intitolato “Resistere alla strategia dell’odio” in cui giustificava la scelta. Intanto, metà del corpo militare francese da combattimento prendeva posto nelle strade francesi con l’Operazione Sentinelle” (molti candidati alle presidenziali di maggio sono contrari a estendere lo stato d’emergenza, compreso Emmanuel Macron).

Dopo gli attacchi del 13 novembre, Hollande ha aggiunto tremila uomini, portandoli da sette a diecimila, ma questo non ha impedito gli attentati a Nizza, in Normandia e altrove. Ora, pochi ricordano o sanno che metà dei soldati impegnati serviva a proteggere le scuole ebraiche del paese, oltre a qualche monumento, il Louvre e alcuni edifici pubblici. Questo uso dei militari nel paese era soprattutto, infatti, una “misura ansiolitica” nei confronti della popolazione, come ha detto Michel Rocard. La sensazione di pericolo era già svanita.

E’ sempre il generale Desportes a spiegare nel suo libro che l’Operazione Sentinelle è stata uno “show” e che “la difesa è condannata a prendere colpi senza ferire. A un certo punto, cambi strategia. E per noi vuol dire terrorizzare l’Isis invece di essere terrorizzati. Spendiamo un budget significativo, ma certamente molto insufficiente in termini militari per la lotta contro un avversario. Lo Stato islamico non ha paura dei nostri aerei. Ha visto che bombardiamo il suo territorio una volta al giorno, in media. Devi attaccare via terra, terrorizzare. Abbiamo i mezzi per farlo, ma ci vuole coraggio politico”.

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Lo ha scritto anche Michel Goya, ex colonnello e forse il maggiore storico militare, nei giorni scorsi in un articolo su La Croix: “Il contributo francese, relativamente limitato, non è determinante”. Arriva Euro 2016 e ci si stordisce un po’ con il campionato europeo di calcio. La squadra francese crea un falso senso di unità. Ci si stordisce un po’ anche con la caccia ai Pokémon.

Ma dura poco. Il terrorista islamico Mohamed Lahouaiej Bouhle guida un camion sulla folla nella località balneare di Nizza, uccidendo 84 persone. Diversi funzionari francesi, oltre a Hollande, dichiarano che la Francia è “in guerra” con il terrorismo islamico. Il presidente lo ripete anche dopo che due terroristi musulmani sgozzano un prete cattolico, padre Jacques Hamel, durante la messa mattutina.

Monsignor Georges Pontier, presidente della Conferenza episcopale francese, invita i cattolici a osservare una giornata di digiuno e preghiera e chiede ai musulmani che vivono in Francia di recarsi in chiesa per “condividere il dolore dei cristiani”. Se ne presentano alcune centinaia su una popolazione di sei milioni. Intanto il capo dell’islam francese istituzionale, Dalil Boubakeur, aveva fatto l’impensabile: chiedere di convertire in moschee le chiese vuote. Da dove nasceva questa tracotanza? Dalla sensazione di poter “sfondare”.

Un altro massacro orribile e Hollande chiama il paese a combattere la guerra “con tutti i mezzi”. Durante l’estate ci si torna a distrarre un po’ con la messa al bando del burqini nelle spiagge della Costa Azzurra, che non resiste alla sentenza del Consiglio di stato. La guerra al terrore si affloscia intanto attorno a tre provvedimenti chiave: togliere la nazionalità francese ai jihadisti, deradicalizzarli e chiudere le moschee radicali. Si è da poco scoperto che i tanto famosi “programmi di deradicalizzazione” del governo sono stati un grottesco fiasco, secondo le conclusioni di una commissione parlamentare.

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Gran parte delle critiche mosse si concentrano su un piano da 40 milioni di euro per costruire tredici centri per la deradicalizzazione di sedicenti jihadisti, uno in ogni area metropolitana della Francia. Anche se in Francia si stima che risiedano 8.250 irriducibili radicali islamici, solamente diciassette hanno presentato richiesta. Il premier Manuel Valls aveva anche pensato bene di spronare la Francia a diventare “un polo di eccellenza nell’insegnamento della teologia islamica”.

E le famose moschee radicali da chiudere? Venti in tutto, su 2.500. Quando è noto, come da informazioni del Centro informazioni territoriale (Scrt), che sono 124 le moschee salafite che la Francia dovrebbe serrare, e bene, per evitare che il veleno islamista fuoriesca all’esterno. Carta straccia pure la promessa di bloccare i fondi stranieri alle moschee, nonostante un rapporto del Senato avesse individuato in 301 il numero di imam pagati da paesi stranieri.

Il fallimento della deradicalizzazione fa il paio anche con l’abortito progetto sulla decadenza della nazionalità francese per chi viene condannato per reati di terrorismo. Tre giorni dopo le stragi di Parigi, a Versailles, davanti a deputati e senatori riuniti in Congresso, Hollande aveva annunciato una riforma costituzionale che prevedeva appunto la perdita della nazionalità francese per i terroristi islamici.

Di fronte all’impossibilità di trovare un testo condiviso dalle due Camere, oltre che alle dimissioni del ministro della Giustizia Christiane Taubira, Hollande è costretto a gettare la spugna. Il presidente rassicura l’opinione pubblica però che si impegnerà “fino in fondo e con la forza necessaria in questa guerra”. Ah, la guerra!

Questo dopo che Valls aveva affermato che i francesi dovrebbero imparare a “convivere” con il terrorismo. Il filosofo Shmuel Trigano è quello che più ha colto questi due anni in un articolo sul Figaro: “Si sacrificano le vittime per non dover combattere i carnefici”. Forse i francesi hanno accettato collettivamente il sacrificio delle vittime perché pensano che il loro paese non avrà la forza e la fermezza di combattere questa guerra, quella vera. Intanto proliferavano i libri delle famiglie delle vittime tutti all’insegna dell’amore, della misericordia laica, del perdono.

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Come quello scritto da Antoine Leiris, marito di una delle vittime degli attentati del 13 novembre 2015, un best-seller dal titolo “Non avrete il mio odio” (“Vous n’aurez pas ma haine”). L’autore descrive ciò che è accaduto al teatro Bataclan come uno scherzo del destino e dice di provare “compassione” per chi ha ucciso sua moglie. Guai nel frattempo a mettere il naso nelle 572 “no-go zones”, definite ufficialmente “zone urbane sensibili”, che continuano a crescere e gli agenti di polizia che si avvicinano ad esse spesso ne pagano le conseguenze.

Il teatro Bataclan intanto riapriva con un concerto di Sting. L’ultima canzone è stata “Inshallah” – “ad Allah piacendo”. Akbar” scandito un anno prima dal commando dell’Isis all’invocazione ad Allah di Sting. “Inshallah, che parola magnifica”, ha detto dal palco il cantante. “Rinascita al Bataclan”, titolava il giorno dopo il quotidiano Libération, lo stesso che un anno prima aveva celebrato la “generazione Bataclan”. L’eroismo di sorseggiare un moji-to alla faccia di chi vuole cambiare il “nostro stile di vita”. La direzione del Bataclan intanto impediva ai membri degli Eagles of Death Metal – la band che si stava esibendo sul palco al momento della strage – di assistere al concerto, colpevoli di aver scritto cose irriverenti sui francesi.

Il direttore del Bataclan ha detto al capo della band, Jesse Hughes: “Ci sono cose che non si possono perdonare”. Esatto. La Francia aveva perdonato tutto il resto, come il Maometto piangente nell’ultima vignetta di Charlie. Fu l’inizio della capitolazione sentimentale al terrore. Com’era quella? “Nous sommes en guerre”?

Fot0 EMA, EPA e AFP

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