Che brutta la NATO del “pistolero” Trump e del “sultano” Erdogan

Erdogan ha vinto (chi aveva dubbi?) il suo referendum avviando la Turchia ad un periodo buio che si rifletterà sensibilmente anche sull’Europa. Le flotte statunitensi sono attivissime nel Pacifico e nel Mediterraneo, mentre Trump sperimenta nuove armi in Afghanistan. Il tutto sembra lasciarci perplessi e forse, nell’euforia delle feste pasquali, molti sembrano non rendersene conto. Intanto Siria, Iraq, Libia continuano ad essere nel caos.

Se ti svaligiano la casa, o se tuo figlio lascia i rubinetti della vasca aperti per 24 ore e allaga l’appartamento della vecchia zitella bisbetica del piano di sotto, la prima cosa che fai, probabilmente, è cercare la vecchia polizza che avevi sottoscritto una ventina d’anni fa (e che hai continuato a pagare quasi come opera di beneficienza) per vedere se per caso per una volta che sia una ti possa essere utile.

Allora, nel turbinio di input che ci bombardano quotidianamente e che ci fanno percepire la crescente insicurezza e crescente instabilità internazionale che ci circondano, potrebbe essere opportuno tentare un attimo di capire quali sono le “polizze assicurative” che abbiamo sottoscritto nel passato (magari senza crederci troppo o pensando a potenziali rischi che oggi ci paiono più sfocati). Una volta che le troviamo nei cassetti di vecchie scartoffie, dobbiamo vedere quanto ci costano e riflettere su quanto possano in realtà esserci utili oggi.

In primis, forse, dovremmo guardare con occhio critico alla NATO, club una volta esclusivo, dove ora ci accorgiamo di trovarci in compagnia troppo numerosa, in alcuni casi eccessivamente rumorosa, talvolta un po’ attaccabrighe e in alcuni casi poco presentabile (rispetto ai 12 membri iniziali siamo ormai a livello 28 e tra poco saremo 29 con il prossimo ingresso del Montenegro).

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Ma, innanzitutto, che cos’è la NATO?
Ufficialmente è “An Inter-governmental organisation in which member countries will retain their full sovereignty & independence. The organisation provides the forum in which they consult together …and take consensus decisions on political and military matters affecting their security”.
Il fatto che ogni stato membro mantenga la propria piena indipendenza e sovranità e che la NATO si proponga di essere soltanto un “foro di consultazione” indica chiaramente che la NATO, che resta l’unica organizzazione sovranazionale in grado oggi di esprimere uno sforzo militare credibile, sia però di fatto priva della concreta possibilità di esprimere una reale politica estera che non sia supinamente appiattita su quella dell’azionista di maggioranza come in un certo senso è avvenuto per l’intervento in Afghanistan.

Oppure si riduca ad essere un comune denominatore (non necessariamente il “massimo comun denominatore” che studiavamo alle medie) della politica estera della composita “Armata Brancaleone” che l’Alleanza è divenuta nell’ultimo quarto di secolo (soprattutto quale effetto della spinta “espansionistica” verso Est fomentata, in primis, dagli USA).

Inoltre, il fatto che le decisioni avvengano per “consenso” significa che, mentre il Consiglio di Sicurezza dell’ONU (spesso citato quale esempio di immobilismo decisionale) possa essere bloccato dal veto di uno dei cinque membri permanenti, la NATO è potenzialmente ostaggio di ciascuno dei i suoi 28 membri.

Membri che spesso usano tale potere di veto soltanto come arma di ricatto per ottenere situazioni di favore su altri tavoli di trattativa. Classico, al riguardo, l’esempio della Turchia che da più di un decennio boicotta qualsiasi forma di collaborazione tra la NATO e l’UE, al fine di ottenere l’accesso all’UE e che da dopo il fallito golpe (o, forse, il riuscitissimo “finto golpe”) di luglio scorso, sta’ ostacolando se non impedendo anche le cooperazioni tra NATO con tutti i suoi partner esterni (come noto, i tre partenariati di cui si avvale l’Alleanza per tentare di “proiettare stabilità” oltre i propri confini sono “Partnership for Peace”, verso est, “Mediterranean Dialogue”, nell’area mediterranea, e “Istanbul Co-operation Initiative”, nel Golfo Persico).

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Come già accennavo, tra poco i soci di questo Club, non più esclusivo, saranno 29 con l’ingresso del Montenegro, ingresso anch’esso fortemente sponsorizzato dagli USA, nonostante pregressi poco limpidi del presidente Filip Vujanović, forse più per far dispetto alla Russia, che per gli effetti che ciò potrebbe avere sulla stabilizzazione dei Balcani.
Inoltre già con l’amministrazione Obama vi era una forte pressione USA, soprattutto da parte del Segretario di Stato Hillary Clinton, per l’accesso di Ucraina e Georgia. Cosa che inevitabilmente porterebbe ad un confronto non solo diplomatico ma anche militare con la Russia di Putin.
Senza dilungarmi sulla storia dell’Alleanza dal 1949 ad oggi, sui suoi indubbi meriti nei 40 anni di guerra fredda e nel successivo quarto di secolo di “crisis management” o (come viene chiamato oggi) di “stability projection” (terminologia quest’ultima forse leggermente ironica se si pensa all’Afghanistan), vorrei concentrarmi sull’oggi (possibilmente con un occhio al domani).

Vediamo un po’ chi sono i nostri partner in questa Alleanza e se sia saggio continuare questo viaggio insieme.

Gli Stati Uniti di oggi appaiono particolarmente poco affidabili e pericolosamente inclini ad attaccar briga. Non entrerò nel merito delle più recenti mosse del Presidente Trump in relazione alla crisi siriana e a quella coreana (in merito alle quali vi sono fior di articoli di analisi).

Mi limiterò a dire che mi sembrano il gesto istrionico di un capo di Stato che, dopo aver perso credibilità in materia di politica interna, avendo assunto con eccessiva enfasi mediatica decisioni avventate che non è riuscito a portare a termine (il bando nei confronti dei 6 paesi a maggioranza islamica, lo smantellamento dell’Obama Care, ecc.), si è gettato sul campo dell’interventismo militare in cerca di un successo.

1052625469 Peccato che dietro missili e le portaerei non si intravveda un disegno strategico. Infatti lo strumento militare è essenziale per la risoluzione delle crisi, ma deve essere al servizio di un disegno strategico sensato che possa portare a soluzioni che non siano basate solo sulla forza. Come il bisturi che può essere indifferentemente strumento indispensabile per un abile chirurgo o di emuli del famoso “Jack lo Squartatore”.

Peraltro, il problema degli USA non è contingente alla folkloristica presidenza Trump.
Bill Clinton, che sicuramente è stato un campione del multilateralismo e del coinvolgimento degli alleati nei processi decisionali della NATO, è stato anche il promotore (cosciente o meno che fosse) dell’islamizzazione dei Balcani occidentali (processo portato avanti sì per stabilizzare la regione, ma anche per colpire gli interessi della comunità Serba, percepita dagli USA come propaggine della Russia).

George W. Bush, nemico giurato del multilateralismo e fautore di varie “Coalition of the Willing” che (a differenza della NATO) gli lasciassero le mani libere di gestire operazioni multinazionali come se fossero puramente a stelle e strisce, è stato il responsabile della distruzione dell’unità statuale dell’Iraq (di cui noi europei continuiamo a pagare le conseguenze) e del tentativo di imporre una soluzione al problema afghano che evidentemente non poteva e funzionare. I tentennamenti di Obama hanno portato alla cancrena le situazioni in Afghanistan, in Libia e in Siria.

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La domanda quindi è: fino a che punto gli interessi strategici e geopolitici degli USA e quelli dell’Italia (e dell’Europa Occidentale e Mediterranea) coincidono ancora?

Certo abbiamo dei nemici in comune (il ché è sempre stato il collante delle alleanze), ma si tratta davvero dei nostri nemici principali e, appiattendoci sugli USA, di quali potenziali alleati ci priviamo?
Probabilmente, molti italiani considerano l’instabilità della Regione Mediterranea (intesa in termini ampi, estesa alla “Mezzaluna Fertile” e al Maghreb), il terrorismo di matrice fondamentalista sunnita e l’immigrazione incontrollata quali principali minacce alla propria sicurezza.

Guardando agli USA, se consideriamo l’utilizzazione della Siria come campo di confronto con la Russia, i molti, troppi distinguo statunitensi in relazione a gruppi fondamentalisti islamici, lo storico legame con le petro-monarchie sunnite (che con finanziano la diffusione di wahabismo e salafismo) e la vecchia ruggine nei confronti di Iran e praticamente di tutti i paesi sciiti della regione (si pensi al supporto USA alle operazioni saudite in Yemen), ritengo che possa ragionevolmente insorgerci il dubbio che nel combattere i fattori di rischio che noi percepiamo come più perniciosi gli USA ci privino di possibilità più che fornircene.

Altro ingombrante paese con cui occorre fare i conti in ambito NATO è la Turchia del “Sultano” Erdogan. Paese con ambizione di potenza regionale ed interessi nella Mezzaluna Fertile, nel Caucaso e persino nei confronti delle comunità islamiche dei Balcani.
Ma soprattutto nazione che dopo il recente referendum si avvia alla trasformazione in stato confessionale sunnita, che avrà sempre più bisogno (per esigenze di stabilità interna) di demonizzare il modello sociale laico europeo (avendo anche abbandonato ogni reale desiderio di entrare nell’UE).

L’apparato statale (sia militare sia diplomatico), che aveva nel passato garantito il legame con l’Occidente e i suoi valori di riferimento, è stato progressivamente smontato durante la presidenza Erdogan e totalmente annichilito in seguito al “golpe” del luglio scorso. Gli elementi più integrati nelle strutture dell’Alleanza sono stati radiati dalle F.A. e dal servizio diplomatico per sostituirli con fedelissimi.

NATO-vs-Russia-Headline-Top-News-NATO-Russia-battle-for-supremacy  Occorrerà anche pensare a come reagirà l’elevatissima percentuale di turchi (che comunque rasenta quasi il 50%) che sono contrari alla recente svolta autoritaria e confessionale del paese e che rappresenta la componente più colta del paese, quella delle città più importanti (Ankara, Istanbul, Smirne, l’intera costa sull’Egeo). Non è da escludere neanche un lungo periodo di instabilità interna e di eventuale coalizione tra le comunità curde di Turchia e la borghesia più occidentalizzata del paese.
Nei confronti dei rischi che abbiamo individuato, possiamo ritenere di avere interessi comuni a quelli di Erdogan?

Alcuni certamente (una Siria stabile ad esempio può convenire sia a noi che a lui), ma forse non molti.
Se USA e Turchia sembrano essere i membri dell’Alleanza con visioni della sicurezza più diverse dalle nostre, non è che il resto del “Club” sia poi così coeso.

Est Europa. Vi sono i paesi “russofobi”, ovvero tutti quegli Stati caratterizzati una viva percezione della minaccia russa alla loro integrità territoriale. Ciò per le innegabili esperienze pregresse e, forse, anche per compiacere gli USA e richiedere ingenti investimenti alleati in infrastrutture strategiche sul proprio territorio (la Polonia è stata particolarmente abile al riguardo). Si tratta in primis delle tre Repubbliche Baltiche e della Polonia, che sono particolarmente suscettibili alla minaccia Russa. Ma è evidente che anche Slovacchia, Ungheria e Romania in quanto paesi confinanti con l’Ucraina percepiscano la crisi tra quest’ultima e la Russia in modo ben diverso da noi.

Balcani. Occorre anche ricordare che per molti paesi (soprattutto l’Albania e gli Stati generati dalla dissoluzione della Jugoslavia), l’accesso alla NATO più che essere una scelta di politica militare era ed è dettata dalla percezione che si trattasse di un passo che poteva facilitare l’accesso all’UE. Accesso che era e rimane il loro obiettivo principale.

Francia. Tra pochi giorni ci sarà il primo turno delle presidenziali francesi. Credo che Marine Le Pen andrà al ballottaggio. Le sue chances di vincere al secondo turno sono forse limitate, ma saranno legate anche a chi sarà il suo contendente (come nel caso Trump-Clinton e come praticamente sempre in Italia, l’elettore vota non per il migliore, ma “turandosi il naso” per il “meno peggio”).

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In tema di appartenenza della Francia ad organizzazioni sovranazionali, la rampante Marine ha dichiarato che, se vincerà, indirà un referendum per l’uscita dalla Ue e la trancia si ritirerà dal comando integrato della Nato.

Con ciò ha fornito ai propri elettori due obiettivi precisi. Si tratta, però, di due obiettivi diversi. Uno è estremamente complesso e inevitabilmente doloroso in alcuni passaggi (la FREXIT dall’UE).
Tra l’altro per la Francia, nazione continentale che confina con ben 5 paesi UE , sarebbe ben più doloroso staccarsi di quanto non lo sia per il Regno Unito ( oddio… “unito” almeno sino ad oggi, vedremo scozzesi e nord-irlandesi cosa faranno).

L’altro obiettivo (l’uscita dalla NATO) invece è facilissimo da portare a termine senza alcun intervento chirurgico uscendo solo dall’organizzazione militare ma restando saldamente nell’Alleanza a livello politico (come la Francia aveva già fatto all’epoca di De Gaulle, rientrando poi anche nella struttura militare solo nel 2008).
È evidente che, ove la Le Pen dovesse divenire “madame la présidente”, l’uscita dalla NATO sarebbe un obiettivo facile da raggiungere che si potrebbe offrire subito ai propri elettori, mettendo in secondo piano le inevitabili difficoltà e lentezze di una “FREXIT”.
Però così la NATO perderebbe la nazione che forse più di ogni altra ha portato avanti in seno all’Alleanza una visione della minaccia diversa da quella statunitense.
Potrei continuare ad esaminare altre posizioni divergenti in seno all’Alleanza, ma ciò non aggiungerebbe ulteriore chiarezza al quadro generale.

È evidente che, finché si tratti di “foro di consultazione” la NATO sia ancora l’ideale.
Analogamente, quando si tratti di gestire e condurre militarmente un’operazione multinazionale complessa, non vi siano alternative all’orizzonte.
Però, quale organizzazione sovranazionale in grado di perseguire con unitarietà ed incisività gli obiettivi di sicurezza che per noi italiani (e forse anche per francesi, tedeschi, belgi olandesi, spagnoli e greci) sono più sentiti non appare, oggi, essere lo strumento più idoneo.
Cosa fare allora?

Sicuramente si può tentare e si deve tentare di cambiare l’Alleanza dall’interno. Ma si tratterà di un’opera lenta che potrà dare degli effetti anche molto positivi solamente in tempi molto lunghi.
Assolutamente, però, non bisogna uscirne. Perché solo restando nell’Alleanza a pieno titolo si può tentare di condizionarla ed evitare politiche avventurose che inevitabilmente si ripercuoterebbero anche su di noi.

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Tra l’altro, a differenza della Francia, l’Italia può avvalersi di un consistente “footprint” di comandi e strutture NATO sul proprio territorio (tra cui il Joint Force HQs di Napoli, recentemente nominato “Hub NATO per il Sud”, qualunque cosa significhi, il NATO Defence College di Roma, il NATO Rapid Deployable Corps- Italy di Solbiate Olona, il NATO Centre for Maritime Research and Experimentation di La Spezia, la NATO Communications and Information Systems School di Latina, solo per citarne alcuni) e deve saper sfruttare tale situazione a corollario delle normali attività di pressione politico diplomatiche in seno all’Alleanza.

Occorre però trovare altri formati in cui coordinarsi con chi ha le nostre stesse percezioni in merito alla sicurezza, avendo il coraggio anche di cambiare alleati. D’altronde le alleanze non sono mai stato matrimoni d’amore, ma solo intense relazioni d’interesse.
Investire nell’Europa a più velocità, sperando che la Francia continui a farne parte, ricercando cooperazioni strette, a livello politico-diplomatico, prima che militare, con paesi che possano avere visioni simili alle nostre. Non è facile e sarà costoso.

D’altronde per l’UE, come per la NATO, l’allargamento non ha rappresentato consolidamento e, in entrambi i fori, ci troviamo in seno a assemblee condominiali rissose e poco produttive (ma almeno nel condominio UE mancano alcuni dei condomini più difficili da gestire!)
Ne saremo capaci? A Ventotene l’estate scorsa erano state fatte dichiarazioni che potevano far sperare. L’accettazione di inviare soldati italiani in Lettonia e le dichiarazioni unilaterali del nostro Presidente del Consiglio dopo il recente attacco missilistico USA in Siria, forse un po’ meno.

Foto NATO, AP, CNN. Focus War

Vignetta di Alberto Scafella

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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