I gas siriani e l’intricato puzzle coreano
Sembra che l’information warfare – una volta chiamata propaganda, ma gli anglicismi sono più trendy – abbia sostituito, nella disseminazione delle informazioni e dei commenti da parte dei media, la ricerca della verità (per il presente), e l’analisi degli “what if”(per un plausibile futuro). Questo mutamento ha trovato la sua massima espressione nel modo con il quale sono stati presentati, nelle ultime settimane, gli avvenimenti topici del panorama strategico internazionale, che più conflittuale non potrebbe essere Si parla naturalmente dei missili da crociera americani depositati sull’aeroporto di Shayrat in Siria (non con grandi risultati operativi, parrebbe, anche se solo i russi lo hanno sottolineato), e della crisi nordcoreana in atto.
Sulla prima vicenda sono stati scritti fiumi di bit per descrivere la conversione a Damasco (appunto) del presidente americano più erratico dei tempi moderni, o forse solo impotente e condizionato, a dispetto del suo apparente decisionismo macho. Si tratta dello stesso Donald Trump che da privato cittadino aveva criticato il presidente Obama per non essere intervenuto militarmente, nella prima “gassazione siriana” (operata da parte di chi, non è ancora chiaro, e forse non lo sarà mai), ha poi affermato in campagna elettorale che Assad non era l’unico “figlio di …” dello scenario siriano e neanche il peggiore.
Dopodichè, qualche mese dopo, ha fatto un’ulteriore conversione a U, apparentemente alla vista di un bel bambino siriano vittima dei gas nervini lanciati anche questa volta non si sa da chi – ma per decisione yankee, immediatamente approvata dai vassalli Atlantici (eppoi si dice che la Nato è morta!), attribuiti a un Sukhoi dell’aviazione di Assad – e ha ordinato un massiccio bombardamento di Tomahawk.
Invece di mettere in luce le incredibili piroette dell’inquietante inquilino della Casa Bianca e l’apparente superficialità di una mossa comunque grave e foriera di conseguenze – un’aggressione armata ad uno stato sovrano senza autorizzazione ONU lo è certamente – la stampa internazionale ha generalmente assunto toni gravi e perentori nello sposare e sostenere una tesi che fa acqua da tutte le parti e che comunque non ha ricevuto alcuna conferma da una posizione indipendente (ammesso che ciò sia possibile, data la quantità di attori invischiati nel pasticcio siriano e la loro variegata composizione).
Sulla crisi siriana mi fermo qui, perché è dell’altra questione – peraltro collegata ad essa dai recenti muscolarismi donaldeschi – che voglio parlare più a lungo. Si tratta dell’inasprimento, apparentemente senza una specifica e immediata catalisi, che ha subito la vicenda della Corea del Nord, sempre più nucleare e missilista vis a vis i suoi vicini, ma anche gli Stati Uniti – e qui sta la vera novità (e forse la famosa catalisi). Come noto, infatti, questi ultimi stanno passando dal semplice ruolo di protettori dei più importanti bersagli potenziali delle armi strategiche di Pyongyang al più rilevante obiettivo delle stesse armi, appena entreranno in linea i missili intercontinentali nordcoreani in via di messa a punto, corredati di teste miniaturizzate.
Nel passato enfatizzare il pericolo nordcoreano è servito al complesso militare-industriale americano per ottenere finanziamenti e potenziamenti dal Pentagono, nonché al governo di Washington per giustificare il poderoso sistema di basi in Giappone e nella Corea del Sud. Come noto, queste basi sono state utilizzate– riprendendo il famoso assioma sulla Nato, valido per la Germania – per tenere” fuori” la Russia e la Cina e “sotto” il Giappone.
Anche le citate Cina e Russia hanno sempre avuto un certo interesse che gli USA continuassero a focalizzarsi su una minaccia che li riguardava solo indirettamente e fino ad un certo punto. Come si dice, i nemici dei miei nemici eccetera….
Tutti quindi hanno consentito al pazzo di pazziare anche se da qualche tempo la piece non segue più il copione. Pyongyang ha preso il suo ruolo sempre più seriamente e il burattinaio nordamericano rischia di diventare anch’esso un pupo, potenziale bersaglio della scimitarra del Saracino, tutt’altro che metaforica. La stessa nuova Cina capitalista, se non la Russia, ormai lontana e ininfluente, ha più da perdere che da guadagnare dal contenzioso NK-USA.
“Huston , we have a problem”, potrebbe aver celiato Obama col suo successore quando, come si è letto, gli ha confidato che la vera “hot potato” che gli lasciava in eredità era la questione della Corea del Nord. E dopo tanto teatro e firme, sotto le telecamere, di improbabili diktat alla realtà, “The Donald” si è trovato a gestire quella che potrebbe essere la questione cruciale della sua presidenza e una della crisi più pericolose e foriere di possibili fall out (non solo mediatici) dai tempi di Hiroshima e Nagasaki. Agendo con una certa fretta, peraltro, motivata forse da notizie d’intelligence,
Perché se è ragionevole aspettarsi che le stesse cose che stiamo dicendo le sappiano ancor meglio i pianificatori del Pentagono e del Pacific Command, i quali dovrebbero avere in testa e nei loro powerpoint una strategia perseguibile – mi rifiuto di pensare che corrano a testa bassa verso un milione di sudcoreani morti. Anche se non sono loro compatrioti (e la cosa ha la sua importanza) è altresì vero che gli ordigni nucleari e i missili esistono, come esistono i 7.000 pezzi di artiglieria pesante nordcoreani schierati in caverna a 30 km da Seul, con pile di proiettili HE e chimici a portata.
Se è ipotizzabile che in qualche modo il deterrente nucleare di Pyongyang possa essere annientato o inutilizzato dalla panoplia di velivoli stealth, F 15, 16 e 18, missili cruise e antiradiazione, EW e cyber war che il Pentagono può mettere in campo – i numeri delle armi sono davvero modesti, come anche la tecnologia connessa, anche se naturalmente il rischio non è zero – è assolutamente irrealistico pensare di poter neutralizzare il dispositivo di artiglieria che tiene sotto tiro Seul.
E’ stato calcolato che se i nordcoreani aprissero il fuoco senza preavviso, nel primo quarto d’ora morirebbero 100.000 abitanti della capitale sudcoreana. Un paio d’ore di questo trattamento porterebbe ad un’Armageddon che farebbe vacillare il mondo intero. Si pensi solo alle conseguenze economiche.
E comunque se si ricorda che per debellare il dispositivo militare di Saddam Hussein (che pure non aveva l’atomica), gli americani ammassarono nel 1991, nel Golfo Persico e vicinanze, quattro portaerei, due corazzate, una cinquantina di unità navali, oltre che, nelle basi saudite, praticamente tutta l’aviazione tattica, che avevano in Europa, migliaia di aerei con la 7a Armata al seguito, senza contare gli alleati, si comprende come la sceneggiata della solitaria USS Vinson in rotta verso il mar del Giappone pur con l’accompagno di unità di scorta giapponesi e coreane sia – appunto – solo una sceneggiata e appartenga a quel genere di infowar ad usum delphini teledipendenti che formano le codette “opinioni pubbliche”, votano e mandano al potere i Donald Trump della situazione. I veri giochi sono altrove.
Dove? Forse – sostengono i più informati – tutto ciò serve solo per dare alla Cina una via d’uscita perseguibile per scaricare Kim.
Ovvero il busillis risiederebbe nelle pressioni che la Cina può esercitare sulla dirigenza nordcoreana per indurla a più miti consigli. Non sul dittatore Kim, un caso psichiatrico irrecuperabile, ma su qualcuno dei suoi gerarchi e generali (esisterà pure un “Gran Consiglio” da quelle parti…Dormirà, la notte, il prode Leader Supremo?)
In questo caso Pechino dovrebbe comunque vendere alla sua opinione pubblica e sopratutto alla sua nomenclatura cleptocratica la necessità di un intervento doverosamente fraterno e comunista per salvare la rivoluzione dei lavoratori nordcoreani minacciata dal revanscismo giapponese e dall’imperialismo americano. O qualcosa del genere.
Come si è espresso il Direttore di questa gloriosa testata, tuttavia:”Pechino non può consentire che Kim provochi l’ intervento USA, ma se cade Kim e la Corea si riunifica sotto Seul i soldati Usa arrivano ai confini cinesi…Inaccettabile! Allora, sotto la pressione USA, la Cina deve fare il cambio regime in NK….e rischia un Vietnam, anzi un Afghanistan come quello che Reagan organizzò per i sovietici”.
Questo nella migliore (per gli USA) delle ipotesi, ovvero nel caso che Pechino decida di intervenire con decisione per tagliare una volta per tutte il nodo di Gordio coreano. Si potrebbe anche aggiungere, all’elenco delle potenziali conseguenze di una Corea riunificata, che l’intervento cinese concretizzerebbe una ennesima potenza nucleare asiatica (una volta acquisito, il know-how di qualsiasi cosa non si dimentica) con 75 milioni di abitanti con un PIL alto e in crescita, in grado di superare strategicamente lo stesso Giappone, che per ora la Bomba non ce l’ha anche se è pieno di plutonio e probabilmente se la può fare in pochi mesi. Un Giappone col quale la Corea ha sempre acuto, nei secoli, una forte animosità.
Un fatto del genere determinerebbe con tutta probabilità anche l’allontanamento di Seul dal vassallaggio verso lo Zio Sam (basi comprese) di quel tanto che basterebbe per non rendere quest’ultimo “too happy”.
L’insieme di queste possibilità potrebbe convincere la Cina ad assecondare un’alea – quella della riunificazione coreana – che un tempo per i comunisti duri e puri della Lunga Marcia sarebbe stato anatema.
Ma oggi le cose sono molto cambiate, l’unica marcia nella quale sono impegnati i comunisti cinesi è quella verso l’arricchimento ed è del tutto verosimile prevedere che la Corea unita si collocherebbe in una posizione di entente cordiale con Pechino, posizione che peraltro corrisponde ai tradizionali legami storici fra le due entità e agli strettissimi rapporti degli ultimi sessanta anni fra la Cina e Pyongyang, “sacralizzati”, se si può osare il termine, dal sangue versato dai volontari cinesi nella guerra del ’50-’53, un milione di caduti.
La geopolitica dell’intera Asia nordorientale subirebbe in tal caso un netto rovesciamento a favore di Pechino ma a conferma dell’immanenza di una tale prospettiva vale la pena notare che , se i sudcoreani nei decenni successivi alla guerra citata hanno lasciato la loro capitale dov’è, al baricentro della Penisola, nonostante i rischi di esposizione alle artiglierie nordiste, è perché evidentemente pensavano da sempre alla possibilità di una riunificazione e la prospettiva rendeva accettabili i rischi.
Tuttavia le cose potrebbero andare storte, anche perchè esistono forze importanti e attori di prima grandezza che non hanno alcun interesse che la vicenda prenda la piega descritta. In tal caso si potrebbe anche assistere, nell’ipotesi peggiore, alla più devastante conflagrazione dalla fine della seconda guerra mondiale, una vera guerra fino all’ultimo coreano.
Difficile prevedere oggi, in mezzo alla cacofonia dei segnali mediatici che provengono da ogni dove, la piega che prenderanno gli avvenimenti. Quello che sembra assodato è che gli Stati Uniti non consentiranno mai che Pyongyang raggiunga una effettiva capacita strategica nucleare in grado di raggiungere il loro territorio. Il “come” ciò avverrà è materia opinabile e tutte le opzioni sono aperte.
Siamo apparentemente tornati alla più classica politica del rischio calcolato dei tempi della Guerra Fredda. Sono cambiati solo i protagonisti e le dinamiche. Speriamo solo che chi deve farlo fermi in tempo, prima che vengano fuori guai veramente seri, il meccanismo infernale che potrebbe scattare.
Foto AP, AFP e KCNA
Vignetta di Alberto Scafella
Andrea TaniVedi tutti gli articoli
Ufficiale di Marina in spirito ma in congedo, ha fatto il funzionario Nato e il dirigente presso aziende attive nel settore difesa. Scrive da quasi un quarantennio su argomenti navali, militari, strategici e geopolitici per pubblicazioni specializzate e non. Vive a Roma.