La guerra a Kim la faranno i cinesi ?

Sale la tensione attorno alla Corea del Nord per un nuovo test nucleare e la possibilità di un attacco chimico del regime di Kim Jong-Un. Le ultime immagini diffuse on line dal sito di analisti 38 North indicherebbero che tutto sarebbe pronto per un nuovo test nucleare di Pyongyang, il sesto dal 2006, al sito di Punggye-ri, dove la Corea del Nord conduce i suoi test atomici.

Oltre alle immagini satellitari, la mattinata di oggi è stata segnata dalle parole del primo ministro giapponese, Shinzo Abe, che al parlamento di Tokyo ha ventilato l’ipotesi che il regime di Kim Jong-Un sia pronto a utilizzare in un attacco missilistico il letale gas sarin. Pechino, ha ribadito la propria contrarietà all’opzione militare nella penisola e la posizione di Pechino di tornare ai colloqui per il disarmo nucleare di Pyongyang.

“Chiunque continui a provocare guai nell’area, dovrà assumersene la responsabilità storica”, ha infine aggiunto Wang. Il monito a non procedere in azioni militari campeggia anche sulle pagine della stampa cinese. “Intraprendere azioni militari contro la Corea del Nord è molto più rischioso che lanciare un attacco missilistico contro la Siria” scrive oggi il tabloid Global Times, uno dei più influenti giornali cinesi.

“Pyongyang è in grado di dare un duro colpo alla Corea del Sud”, continua il giornale cinese, che cita anche la possibilità di impiego di una “bomba sporca” da parte del regime di Kim Jong-Un nei confronti di Seul. Soprattutto, il Global Times manifesta ampia sfiducia nella capacità dell’amministrazione statunitense di affrontare un rapido deterioramento della situazione. “La situazione andrebbe fuori controllo nel caso di un errore di calcolo strategico e Washington non sembra sia preparata per lo scenario peggiore”.

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Nei giorni scorsi il presidente Donald Trump aveva sottolineato su twitter che gli Stati Uniti sono pronti a risolvere il “problema” Corea del Nord, se necessario anche senza Pechino.

Oltre ai rischi connessi con un’avventura militare contro Pyongyang, a due passi dal territorio cinese, il prezzo da pagare potrebbe risultare spaventoso.

Certo gli Stati Uniti schierano nell’area un potenziale offensivo aereo e missilistico formidabile. Centinaia di missili da crociera Tomahawk imbarcati sulle navi che scortano la portaerei Vinson, che imbarca 60 cacciabombardieri F/A-18 più un centinaio di F-16 e A-10 basati in Corea del Sud, dove gli Usa dislocano 29 mila militari incluse forze terrestri e unità dei Marines con 140 carri armati, 170 veicoli corazzati e 60 pezzi d’artiglieria.

A queste forze potrebbero aggiungersi rinforzi provenienti dagli Stati Uniti, caccia e bombardieri invisibili ai radar F-22 e B-2, bombardieri B-52 schierati nell’isola di Guam e un altro centinaio di velivoli basati in Giappone.

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Un’invasione terrestre del Nord sembra esclusa dai piani americani dal momento che Washington ha fatto sapere di non puntare a rovesciare il regime di Kim Jong-un ma “solo” a impedirgli di disporre di armi atomiche che peraltro già possiede.

Al momento non si può dare per scontato che Seul sostenga un blitz statunitense o consenta l’uso delle sue basi all’alleato che sembra voler innalzare la tensione con Pyongyang incurante del fatto che sarebbero proprio i sudcoreani, e potenzialmente anche i giapponesi, a pagare il prezzo di una rappresaglia nordcoreana affidata inevitabilmente alle armi di distruzione di massa.

Afflitta da una cronica crisi economica, la Corea del Nord punta da anni sullo sviluppo da ami atomiche e chimiche rinunciando ad aggiornare in modo significativo il suo ingente arsenale convenzionale composto sulla carta da un milione di soldati, 4 mila carri armati, 5 mila cannoni e lanciarazzi campali, 500 aerei da combattimento di cui i più moderni sono 40 Mig 29 più una flotta composta da una trentina di sottomarini, 40 minisub, una decina di navi d’altura e 200 motovedette lanciamissili e motosiluranti.

Armi decrepite di dubbia efficienza e di cui si sospetta non vi sia neppure la disponibilità di carburante e ricambi per muoverli tutti insieme.

Anche i vecchi sistemi missilistici da difesa aerea di origine locale e sovietica, benchè forse in parte aggiornati, non sarebbero in grado di contrastare un attacco aereo e missilistico statunitense che vedrebbe le contromisure elettroniche accecare i radar di Pyongyang fin dall’avvio delle operazioni distruggendo al suolo gli aerei e affondando navi e sottomarini nei porti o in mare.

Il gap dei nordcoreani in termini tecnologici e addestrativi sul fronte convenzionale è abissale ma questa non è una buona notizia.

Proprio l’incapacità di contrastare un attacco al suo territorio lascia a Pyongyang due sole opzioni, entrambe affidate alle armi di distruzione di massa, cioè una ventina di bombe nucleari e forse testate missilistiche e migliaia di tonnellate di armi chimiche che armano testate di missili e razzi a lungo raggio oltre a bombe d’aereo e granate d’artiglieria.

La prima opzione, in fondo quella relativamente “meno devastante” potrebbe vedere i nordcoreani rispondere all’attacco statunitense con le armi sopravvissute al “first strike”. Benchè sia evidente che missili (un migliaio) e armi di distruzione di massa sarebbero i primi obiettivi dei raid Usa è improbabile che possano venire distrutti tutti.

Del resto i nordcoreani impiegano lanciatori missilistici mobili proprio per sottrarre parte del loro arsenale balistico ad attacchi dal cielo.

Molto probabile che qualche missile, almeno a medo raggio come i Taepodong e Nodong possa venire lanciato contro il Giappone o le basi statunitensi nel Pacifico (Okinawa e Guam i bersagli più probabili) ma è certo che una parte delle centinaia di Hwasong, con un raggio d’azione tra i 300 e i 900 chil0metri, derivati dagli Scud sovietici, si abbatterebbero sulla Corea del Sud incluse le numerose basi americane.

North Korean soldiers attend a military training in this picture released by the North Korea's official KCNA news agency in Pyongyang March 6, 2013. REUTERS/KCNA

Missili equipaggiati con testate ad alto esplosivo ma anche chimiche e potenzialmente nucleari che, lanciati a ondate, rischierebbero di saturare i sistemi di difesa antimissile basati in Sud Corea, Giappone e a bordo delle navi americane che scortano la portaerei Vinson potrebbero intercettare tutti se lanciati a ondate.

La zona di confine col 38° Parallelo, lungo la quale si trova anche Seul coi suoi 11 milioni di abitanti, è vulnerabile anche alle artiglierie da 152 millimetri e ai razzi pesanti schierati dai nordcoreani nelle caverne lungo la frontiera, armi equipaggiate con munizioni caricate a gas nervino e yprite e al protette dai raid aerei.

Ancora più preoccupante risulta invece la seconda opzione in mano a Kim Jong-un: se il regime comunista dovesse convincersi che l’attacco statunitense è imminente e inevitabile e che la Cina non potrebbe o vorrebbe contrastarlo, potrebbe decidere di colpire per primo lanciando ondate di missili balistici dotati di armi di distruzione di massa contro il territorio sudcoreano, le isole nipponiche e le basi Usa nel Pacifico ordinando l’attacco alle sue forze aeree e navali.

Probabilmente Pyongyang si riferiva a questa opzione quando ha risposto al tweet di Trump dichiarando che “la Corea del Nord è pronta a reagire ad ogni tipo di guerra desiderato dagli Stati Uniti”.

Non meno pericoloso lo scenario forse “preferito” da Washington, che vedrebbe la Cina neutralizzare il regime nordcoreano per impedirgli ulteriori provocazioni nucleari. L’obiettivo dell’escalation di Trump potrebbe essere infatti proprio quello di indurre i cinesi (che considerano inaccettabile un attacco americano alla Corea del Nord, a pochi chilometri dai loro confini) a deporre Kim Jong-un con un’iniziativa politica ma soprattutto militare che vedrebbe le truppe cinesi puntare su Pyongyang.

Un’opzione che non ridurrebbe il rischio che i nordcoreani ricorrano ad armi di distruzione di massa ma che potrebbe fare della Corea del Nord il “Vietnam di Pechino”. Anzi, il suo Afghanistan.

Foto Reuters e KCNA

 

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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