Trump va alla guerra in Siria

Non ci eravamo sbagliati: l’impressione di Analisi Difesa evidenziata il 5 aprile che la strana vicenda del gas nervino di Khan Sheikhoun costituisse un pretesto, una “cortina fumogena” per giustificare un rovesciamento della politica mediorientale di Donald Trump si è concretizzato questa notte.

A Donald Trump sono bastate appena 48 ore per cambiare radicalmente la sua politica nei confronti del conflitto siriano. Da quando i media vicini ai ribelli siriani hanno diffuso la notizia del bombardamento chimico a Khan Sheikhoun attribuendolo alle forze aeree di Bashar Assad, Trump ha prima fatto sapere tramite il suo portavoce di “aver cambiato idea sul presidente siriano” per poi annunciare ad alcuni membri del Congresso di valutare azioni militari unilaterali dopo il veto russo alla risoluzione di condanna del regime siriano.

Infine ha scatenato il raid missilistico di questa notte con 59 Tomahawk lanciata dai cacciatorpediniere Porter e Ross (classe Arleigh Burke), basati nel Mediterraneo orientale e hanno colpito aerei, depositi, bunker per le munizioni, sistemi di difesa aerea e radar nella base aerea di Shayrat, vicino ad Homs. da cui erano decollati i jet che colpirono martedì scorso la zona di Idlib.

Il ministro della Difesa siriano, Fahd Yasem al Freich, ha definito “un’aggressione” l’attacco Usa e ha aggiunto che l’uincursione mette gli Stati Uniti sullo stesso piano dei terroristi dell’Isis. L’attacco alla base aerea di Shayrat ha fatto almeno sei morti e decine di feriti, ha confermato il ministro della Difesa di Damasco, Fahd Yasem al Freich, oltre a “grosse perdite materiali”.

Secondo l’Osservatorio siriano per i Diritti umani, ong vicina ai ribelli, “sono morti 4 militari tra i quali un generale di brigata dell’aeronautica, l’aeroporto è andato quasi totalmente distrutto, la pista, il deposito di carburante e la difesa aerea sono stati polverizzati”.

Secondo Al-Freich, l’attacco “fa degli Stati Uniti un alleato dell’Stato Islamico e del Fronte al-Nusra. Quanto alle motivazioni addotte da Donald Trump (che non ha chiesto autorizzazioni al Congresso) per lanciare la rappresaglia, cioè  l’uso di armi chimiche da parte delle forze legate al governo siriano, il ministro della Difesa di Damasco ha ribadito che Washington “non conosce la verità di quello che è successo ne’ di chi è il responsabile”.

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Parlando dalla sua villa a Mar-a-Lago (Florida), Trump ha bollato il presidente siriano Bashar Assad come un “dittatore”, che ha “lanciato un orribile attacco chimico su civili innocenti”.

Trump ha anche chiamato “tutte le nazioni civilizzate a unirsi nel cercare la fine di questo massacro e il sangue versato in Siria, anche per eliminare il terrorismo di ogni tipo”.

Una giravolta sconcertante se si considera che in campagna elettorale e nelle prime settimane dal suo insediamento il presidente aveva sempre sostenuto che in Siria occorreva un’intesa con Mosca e Assad per sconfiggere i terroristi jihadisti e solo pochi giorni or sono la sua amministrazione aveva ufficializzato, proprio all’Onu, la rinuncia degli Usa a considerare prioritaria la destituzione di Assad.

I tempi fulminei di questa inversione di rotta della politica di Trump, che trasforma Assad da “quasi-alleato” contro i jihadisti in “nemico pubblico numero uno” al pari del dittatore nord coreano Kim Jong-un (anche lui nel mirino di possibili iniziative militari Usa), rafforzano il sospetto che il caso dei gas nervini a Khan Sheikhoun sia stato costruito ad arte.

Non ci sono rapporti o verifiche di fonti neutrali sull’accaduto, i dubbi sul resoconto dei ribelli sono tanti, le vittime troppo poche per un attacco aereo con armi di distruzione di massa (Saddam Hussein nel 1988 uccise 5mila curdi bombardando Halabja, non 90 come nella cittadina siriana) e soprattutto non sono stati effettuati ancora riscontri per verificare che il gas utilizzato martedì sia proprio quello degli arsenali (ufficialmente smaltiti) delle forze armate siriane.

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Nonostante l’assenza di prove certe e la consapevolezza statunitense che anche i ribelli utilizzano armi chimiche su bassa scala (proprio quella adatta a uccidere qualche decina di persone) Trump è pronto a minacciare Damasco di quei raid che Barack Obama aveva paventato nel 2013 per poi rinunciarvi quando Mosca si fece garante del disarmo degli arsenali chimici di Assad, costituiti come deterrente contro le armi nucleari israeliane.

L’impressione è che Trump, tenuto sotto pressione dai democratici con la minaccia di impeachment proprio per i suoi supposti rapporti con Mosca, stia subendo il ricatto dei “falchi” del suo partito guidati dal senatore John Mac Cain, che già negli anni scorsi rimproverò l’amministrazione Obama per non aver attaccato Bashar Assad in seguito a un altro discusso caso di impiego di gas nervino a Ghouta, alla periferia di Damasco.

Trump avrebbe quindi un gran bisogno di dimostrarsi duro con Mosca per sgombrare il campo da ogni possibile accusa di intesa cordiale con Vladimir Putin e la Siria rappresenta l’occasione ideale per dare un segnale in tal senso, specie sull’onda emotiva delle immagini di bambini uccisi dal gas nervino.

Non si può inoltre escludere che il mutato atteggiamento di Trump nei confronti di Damasco sia dettato dall’esigenza di rendere coerente la sua politica mediorientale basata sulla stretta alleanza con Israele e il contrasto all’Iran. Politica difficilmente conciliabile con le aperture promesse sul fronte siriano ad Assad e Putin dal momento che in Siria (a pochi chilometri dai confini con lo Stato Ebraico) combattono migliaia di iraniani e il regime di Assad è il più importante alleato di Teheran.

Difficile capire se si tratti solo di un ”raid punitivo” e dimostrativo (utile a Trump sul fronte interno a dimostrare che non è “amico di Putin” o se davvero Washington intende ci battere le forze siriane e i loro alleati, favorendo quelle milizie jihadiste (incluso l’Isis) che Assad combatte e che Trump aveva detto più volte di voler annientare criticando la politica obamiana in Medio Oriente.

Nel primo caso l’azione di Trump potrebbe essere solo sporadica come dimostrerebbe l’avviso ai russi dell’attacco imminente che hanno avuto il tempo di ritirare i loro militari dalla base Shayrat, vicino ad Homs nel mirino dei missili da crociera americani, e forse anche di avvertire Assad considerando danni limitati in termini di perdite (6 militari) dalla pioggia di missili dell’Us Navy che hanno però devastato le infrastrutture e le dotazioni della base.

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Nel secondo caso Trump incontrerebbe oggi molte più difficoltà di Obama nel muovere guerra a Damasco poiché, a differenza del 2013 quando Mosca schierava in Siria solo alcuni consiglieri militari e contractors, oggi le forze russe dispongono di una trentina di aerei da combattimento, elicotteri, reparti terrestri, circa 5mila militari e soprattutto batterie di missili da difesa aerea a lungo raggio S-300 ed S-400 in grado di intercettare aerei e missili da crociera.

Gli Stati Uniti schierano già nella regione un centinaio di velivoli da combattimento e nel nord della Siria un migliaio di forze speciali e marines impegnati nelle operazione della Coalizione contro lo Stato Islamico, oltre a una dozzina di navi lanciamissili mentre altri mezzi potrebbero giungere in tempi brevi.

La possibilità statunitense di colpire le forze di Assad è quindi fuori discussione ma il rischio è di creare un casus belli con la Russia le cui conseguenze sono imprevedibili e potrebbero ripercuotersi anche lontano dai confini siriani.

La svolta di Trump piacerà a Israele che considera più minaccioso il regime di Assad legato all’Iran rispetto a una Siria in mano a jihadisti sunniti, ma anche a sauditi ed emirati del Golfo che hanno sostenuto finora le milizie islamiste siriane.

Piacerà anche ad Ankara che può finalmente tornare ad accarezzare il sogno di far cadere Assad per allagare la sua area di influenza e assumere il controllo del nord della Siria in chiave anti curda. Al tempo stesso la nuova iniziativa del presidente Usa rischia di cancellare ogni ipotesi di distensione con Mosca e di inasprire il confronto già acceso con Pechino.

Scenari che, uniti all’opzione di una Siria dominata dalla sharia, dovrebbe invece preoccupare l’Europa, che oggi ottiene proprio dall’intelligence di Assad preziose informazioni sui “foreign fighters” che rientrano dal fronte bellico e che subisce direttamente gli effetti di quanto accade sulla sponda est del Mediterraneo e nei rapporti con la Russia.

Anche in questo caso però la posizione degli europei pare ininfluente e comunque appiattita su quelle assunte dalle petro-monarchie arabe e dagli statunitensi.

Foto: Reuters, Idlib Media Center e US Navy

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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