UNA CORTINA DI GAS PER CELARE LA CAPRIOLA DI TRUMP IN SIRIA? (aggiornato)

(aggiornato alle ore 20,00 del 6 aprile)

Il gas nervino torna protagonista in Siria e ancora una volta più dei danni provocati sul campo di battaglia o tra i civili pesano gli effetti mediatici e politico-strategici. Da anni le armi chimiche sono diventate uno strumento più utile alle battaglie della propaganda che a quelle campali. Il presidente Barack Obama incautamente ne definì l’impiego da parte del regime di Bashar Assad il “filo rosso”, superato il quale gli Stati Uniti sarebbero intervenuti militarmente contro Damasco.

Dichiarazione che venne messa alla prova nell’agosto 2013 dalla strage di Ghouta, quartiere di Damasco in mano ai ribelli dove un attacco chimico compiuto con razzi provocò un numero di vittime variabile tra qualche centinaio e oltre 1.700, a seconda delle fonti. Basterebbe l’incertezza di questi numeri a evidenziare le difficoltà riscontrate da osservatori indipendenti non solo ad attribuire la paternità di quell’attacco ma anche a verificare il numero di vittime.

La crisi, che vide Usa, Francia e Gran Bretagna pronti a bombardare Damasco, venne risolta dall’intervento di Mosca che si fece garante dello smantellamento dell’arsenale chimico di Bashar Assad poi trasferito nel porto italiano di Gioia Tauro e distrutto a bordo di una nave speciale statunitense sotto l’egida dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac).

Come per la strage di martedì a Khan Sheikhun, nella provincia di Idlib, anche a Ghouta i ribelli mostrarono foto di bambini cadaveri o agonizzanti con l’evidente intento di indignare l’opinione pubblica occidentale favorendo un intervento militare che avrebbe portato alla vittoria le milizie ribelli sostenute dalle monarchie del Golfo Persico e soprattutto da Qatar e Arabia Saudita.

Già quattro anni or sono fonti vicine all’intelligence britannico espressero perplessità circa il fatto che il gas impiegato a Ghouta provenisse dagli arsenali delle forze governative. Circostanza che non venne denunciata esplicitamente neppure dall’Opac e nei mesi successivi apparve chiaro che armi chimiche di vario tipo, soprattutto cloro, yprite e gas nervini come il Sarin erano in possesso anche dello Stato Islamico e di altre milizie ribelli.

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L’Isis le avrebbe recuperate da alcuni depositi dell’esercito di Saddam Hussein, altre milizie potrebbero averle ricevute dai loro alleati arabi per provocare stragi di civili da attribuire al regime siriano: in un’intervista risalente proprio al 2013 il comandante di una milizia salafita filo saudita ammise di confezionare ordigni chimici con gas nervino ricevuto dai servizi segreti di Ryadh.

Il rischio non è però solo che le armi chimiche vengano utilizzate dalle milizie jihadste ma che i depositi o centri di produzione (in genere ricavati nei centri urbani senza alcun tipo di misure di sicurezza) vengano colpiti dai raid aerei o di artiglieria disperdendosi nell’ambiente.

Cui prodest?

Nella ridda di accuse e smentite filtrate attraverso le ambiguità della propaganda che accompagna tutte le guerre, occorre chiedersi cui prodest? Chi si avvantaggia all’uso di armi chimiche nel conflitto civile siriano?

Non il regime di Assad, che si è dotato in passato di un poderoso arsenale chimico per bilanciare le testate nucleari israeliane contro le quali l’unico deterrente praticabile per Damasco era riposto nella capacità di colpire lo Stato Ebraico con un gran numero di missili e razzi dotati di testata chimica.

Nelle operazioni a bassa intensità che caratterizzano la guerra civile siriana l’uso di queste armi non ha alcun senso tattico poichè miliziani e civili vengono agevolmente soppressi con ordigni convenzionali che, a quanto pare, inorridiscono meno degli aggressivi chimici l’opinione pubblica occidentale. Come se la vita di un bambino dilaniato dalle schegge di una granata ad alto esplosivo valesse meno di quella di un bambino ucciso dal Sarin.

A fine marzo i raid aerei statunitensi su Mosul hanno ucciso almeno 150 civili (secondo alcune fonti “centinaia”), inclusi donne e bambini, senza che nessuno chiedesse la convocazione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Semmai, nel caso del raid aereo a Khan Sheikhun, un impiego dell’arma chimica teso a terrorizzare la popolazione avrebbe richiesto un attacco ben più massiccio. Gli aggressivi chimici sono armi di distruzione di massa e un attacco aereo con queste armi avrebbe senso solo se condotto su vasta scala, saturando l’intera cittadina di Khan Sheikhoun e uccidendo migliaia di persone. Basti ricordare la strage compiuta nel marzo 1988 dai i jet Mig e Mirage di Saddam Hussein contro la cittadina curda di Halabja in cui yprite e gas nervini uccisero tra i 3.500 e i 5mila civili.

In un conflitto che ha già mietuto oltre 310 mila vittime (per oltre un terzo combattenti governativi) se le forze di Assad avessero voluto uccidere qualche decina di civili avrebbero potuto impiegare armi convenzionali senza rischiare condanne internazionali.

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Quattro anni or sono ci si doveva chiedere che interesse avesse Assad a bombardare con i gas Ghouta, ad appena 2 chilometri dall’hotel che ospitava gli osservatori dell’Opac giunti in Siria proprio per verificarne l’eventuale impiego.

Allo stesso modo occorre chiedersi oggi quali vantaggi avrebbe tratto Assad dall’utilizzarli su scala limitata nella sacca di Idlib, ultima ridotta dei ribelli jihadisti, le milizie non appartenenti allo Stato Islamico che hanno rifiutato di aderire ai colloqui di pace, sostenute da sauditi, qatarini e fino a pochi mesi or sono anche dai turchi.

Milizie in parte fuggite da Aleppo Est dopo la sua caduta che a Idlib combattono una battaglia senza speranze a meno che il mutevole gioco delle alleanze che ha caratterizzato sei anni di guerra civile siriana non venga nuovamente modificato sull’onda dello sconcerto internazionale determinato dall’uso di armi chimiche da parte di Damasco.

 La macchina della propaganda

Un’ipotesi credibile a giudicare dalla genesi della notizia del raid aereo con i gas. La notizia l’ha diffusa (come quasi tutte le news dalla Siria in fiamme) l’Osservatorio siriano per i diritti umani, nome altisonante per una ong che ha sede a Londra ed è schierata con i cosiddetti “ribelli moderati”.

L’Ondus ha reso noto martedì  che raid aerei siriani o russi con l’impiego di armi chimiche hanno provocato 58 i morti, fra cui 11 bambini, e decine i feriti. Medici e attivisti hanno riportato che più tardi alcuni aerei hanno lanciato razzi sulle cliniche locali che stavano curando i sopravvissuti.

Hussein Kayal, un fotografo dell’agenzia pro-opposizione Idlib media center – Emc (erede dell’Aleppo media center che diffondeva le notizie dei qaedisti del Fronte al-Nusra), ha detto all’AP di aver trovato persone a terra paralizzate e con le pupille ristrette. Secondo Mohammed Rasoul, capo di un servizio d’ambulanza ad Idlib, i morti sarebbero 67 mentre l’agenzia Step news, anch’essa vicina ai ribelli, afferma che le vittime sono cento, tutte colpite da gas nervino Sarin.

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La risposta di Damasco e Mosca non si è fatta attendere: i russi hanno smentito loro attività aerea su Idlib mentre il comando siriano ha precisato che le forze armate “non hanno e non useranno mai questi materiali in nessun luogo o momento” e aggiungendo che “ritiene responsabili per l’uso di sostanze chimiche e tossiche i gruppi terroristi e quelli che sono dietro a loro”.

Nell serata di martedì il Ministero della Difesa russo ha reso noto che i jet siriani hanno colpito nella zona di Khan Sheikhoun una fabbrica-deposito di armi chimiche dei ribelli: gas (ma non ne viene precisato il tipo) che si sarebbero dispersi nella zona in seguito ai raid e che avrebbero quindi colpito i civili.

Si tratterebbe di munizioni e installazioni produttive già impiegate dai ribelli ad Aleppo e trasferiti nella provincia di Idlib dopo la caduta della città poiché, dicono ancora le fonti militari russe. I sintomi sui civili colpiti ieri sono uguali a quelli registrati in un caso analogo ad Aleppo.

I ribelli hanno già impiegato yprite e altri gas e le informazioni sono state definite complete e verificate dal portavoce del ministero russo, il generale di divisione Igor Konashenkov le cui dichiarazioni non sembra abbiano avuto molto spazio sui media occidentali così come non lo ebbero le rivelazioni del comando russo che a metà marzo denunciò l’uso di armi chimiche da parte dello Stato Islamico a Mosul.

La diffusione localizzata e relativamente poco estesa del gas a Khan Sheikhoun sembrerebbe rafforzare la valutazione russa che sia stato colpito un deposito a terra di aggressivi chimici dei ribelli. Un attacco aereo con armi chimiche avrebbe visto colpita un’area molto più vasta con l’impiego di molti ordigni e un numero di vittime molto più elevato.

Inoltre le foto diffuse dagli organismi vicini ai ribelli mostrano soccorritori privi di di protezioni o limitate a mascherine e guanti di gomma che sarebbero del tutto inadeguati in presenza di gas nervino.

E’ quindi sorprendente che la comunità internazionale non abbia atteso verifiche o gli esiti di inchieste e ispezioni affidate a organizzazioni neutrali o non abbia ascoltato le perplessità di molti esperti circa gli eventi di Khan Sheikhoun prima di mobilitarsi subito contro Damasco con una rapidità e una sequenza che è difficile non valutare come ben pianificate.

Non si può neppure escludere che i ribelli jihadisti abbiano volutamente  atteso un raid aereo governativo per disperdere agenti chimici e provocare vittime civili da attribuire alle forze Assad. Del resto i ribelli e i loro sponsor arabi, turchi e occidentali sono gli unici a trarre vantaggio da un attacco chimico contro la popolazione nella provincia di Idlib.

Non sarebbe certo la prima volta che l’Occidente va alla guerra sull’onda emotiva di una notizia falsa o costruita. Nel 1995 la Nato attaccò e sconfisse i serbi di Bosnia dopo la strage del mercato di Sarajevo provocata non dai serbi ma bensì (come dimostrarono i rilievi dei radar campali del contingente Onu francese) dai mortai dei bosnico-musulmani che sterminarono la loro stessa gente per accusare i serbi, creando il pretesto per l’intervento della Nato. Nel 1999 ancora la Nato attaccò di nuovo i serbvi in Kosovo dopo il rinvnimento di una fosse comune a Racak dove erano stati messi cadaveri raccolti in tutta la regione a cui era stato sparato un colpo alla testa post-mortem per giustiftcare l’indignazione che aprì le porte all’ennesima guerra a Belgrado. Anche in Libia intervenimmo contro Gheddafi sollecitati da notizie di stermini di massa da parte del regime mai esistiti ma abilmente propagandati da attivisti con l’aiuto delle emittenti arabe legate ai Paesi del Golfo Persico che sostenevano la rivolta.

Quanta fretta!

Anche la notizia del gas impiegato da Assad a Idlib ha i suoi fans non certo disinteressati. Il governo turco, che per anni ha addestrato e armato ribelli di ogni fazione per far cadere Assad, ha subito accusato Damasco di crimini contro l’umanità, ha tacciato l’Occidente di ipocrisia e di non fare nulla contro Bashar Assad, le cui forze militari hanno negato decisamente l’impiego di armi chimiche.

Nelle accuse a Damasco, Ankara è stata seguita a ruota dall’Europa e soprattutto dalla Francia, la cui politica in Medio Oriente è dettata a tal punto dai petrodollari del Golfo (Parigi è oggi la capitale europea più prona ad Arabia Saudita e Qatar) che ha chiesto la riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu in cui la condanna a Damasco e la pretesa di istituire una commissione d’inchiesta hanno subito il veto di Mosca.

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Neppure il tempo per effettuare verifiche su quanto accaduto e anche Washington si è allineata alla versione dei ribelli siriani nonostante l’Opac non si sia ancora espressa neppure sulla natura del gas impiegato e molti esperti esprimano dubbi sull’accaduto, come Matteo Guidotti, dell’Istituto di Scienze e Tecnologie molecolari del CNR, che consiglia “una certa cautela nell’affermare che nell’attacco chimico è stato utilizzato il gas Sarin”.

Gli Stati Uniti sembrano pronti a cogliere l’occasione per buttare alle ortiche il riavvicinamento a Mosca e Damasco teso a sconfiggere lo Stato Islamico, che pure è stato un cavallo di battaglia di Donald Trump.

Solo pochi giorni fa l’amministrazione avevano annunciato che la caduta di Assad non era più una priorità per gli USA e che il suo futuro lo avrebbero deciso i siriani.

Ieri invece il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, non ha esitato ad accusare Damasco. “Queste azioni atroci del regime di Bashar Assad sono una conseguenza della debolezza e dell’indecisione della precedente amministrazione” con un riferimento al mancato intervento militare di Obama contro Assad caldeggiato a lungo dai repubblicani.

Lo stesso Spicer ha detto mercoledì che il presidente ha suggerito che è “nel miglior interesse” dei siriani che Assad non guidi più il Paese mentre oggi lo stesso Trump ad alcuni membri del Congresso (riferito dalla CNN) ha detto che sta considerando la possibilità di un’azione militare in Siria come rappresaglia per l’attacco con armi chimiche.

Un rovesciamento delle posizioni di Trump che piacerà al senatore John McCain e ai tanti “falchi” repubblicani anti-russi. Se la strage coi gas di Idlib aprirà la strada al radicale mutamento della politica statunitense sul fronte siriano, riportandola al muso duro con Damasco e Mosca, avremo più chiara la risposta alla domanda “cui prodest?”

Foto: Reuters, Idlib Media Center, Web e Aeronautica Siriana

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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