Le lezioni (già note) della strage di Manchester
Il Califfato ha infine rivendicato la strage di Manchester teso a “terrorizzare i miscredenti e in risposta alla loro ostilità nei Paesi dei musulmani”.
Obiettivo certo raggiunto soprattutto perché l’attentato che ha fatto strage di ragazzini e genitori al termine di un concerto è quanto di più riprovevole la nostra mente possa immaginare e al tempo stesso ci dimostra chiaramente che né i governi né le misure di sicurezza possono proteggerci dai jihadisti.
La rivendicazione rimarca le differenze tra “noi” e “loro” in questo conflitto. Nel testo si legge che “uno dei soldati del Califfato è riuscito a piazzare ordigni esplosivi nel mezzo di assembramenti di crociati nella città britannica di Manchester, in un edificio destinato a ospitare eventi dissoluti”.
Come è già emerso in passato, per i jihadisti il terrorista (che per gli europei è spesso uno squilibrato affetto da problemi mentali) è un soldato. Per noi si è fatto esplodere in mezzo a ragazzini dopo il concerto del loro idolo pop, per l’Isis in mezzo ad “assembramenti di crociati”.
Differenze non irrilevanti che sottolineano il vantaggio dell’Isis nel combattere senza pietà la sua guerra con ogni mezzo mentre l’Occidente, che pure ha dichiarato guerra all’Isis tre anni or sono, rifiuta lo stesso concetto bellico pure oggi che il nemico lo ha in casa.
Non è improbabile la valutazione che l’attacco di Manchester costituisca una rappresaglia per i bombardamenti aerei della Coalizione che nelle ultime settimane hanno fatto strage, spesso per errore, di bambini nelle città di Mosul e Raqqa controllate dal Califfato: stragi che hanno occupato ben poco spazio sui media occidentali.
In termini tecnici l’Isis continua a combattere la sua “guerra di opportunità” in Europa: due mesi or sono ha impiegato un uomo armato solo di SUV e coltello per attaccare Westminster e lunedì ha fatto strage di innocenti all’esterno della Manchester Arena, “soft target” per definizione, cioè un bersaglio facile praticamente impossibile da proteggere.
Come era già accaduto allo Stade de France di Parigi e all’aeroporto di Bruxelles, i kamikaze non hanno cercato di penetrare aree sorvegliate ma si sono fatti esplodere in mezzo alla folla a ridosso delle infrastrutture protette. Avrebbero potuto effettuare la stessa azione con il medesimo risultato a una fermata d’autobus ma la Manchester Arena, “edificio destinato a ospitare eventi dissoluti” ha un valore simbolico e morale per gli islamisti.
Salman Abedi, il terrorista suicida di cittadinanza britannica, nato nel Regno Unito da genitori libici, era noto alle autorità per essere stato all’estero (forse in Siria o in Libia secondo indiscrezioni di fonte statunitense che hanno irritato gli apparati di sicurezza londuinesui) per addestrarsi al jihad.
Come in Francia, Belgio e Germania, anche in Gran Bretagna i potenziali terroristi sono molte migliaia tra “foreign fighters” rientrati dalla guerra in Siria e Iraq, estremisti con precedenti penali e simpatizzanti della causa jihadista: controllarli tutti a tempo pieno richiederebbe personale e fondi finanziari ben superiori a quelli disponibili. E in più il numero di persone da tenere d’occhio è in costante aumento.
Sempre nell’ottica della guerra che gli europei non sembrano voler combattere, i foreign fighters (2mila solo quelli britannici) che rientrano non vengono quasi mai incarcerati e la stessa Ue prevede il loro reinserimento sociale, come se si trattasse di tossicodipendenti.
Anche se il terrorista suicida ha agito da solo alla Manchester Arena appare poco credibile che fosse un “lupo solitario”, cioè che non avesse alle spalle una cellula per procurare l’ordigno e il supporto logistico necessario a pianificare e condurre un’azione che pare ben studiata.
Colpendo a fine spettacolo il terrorista ha potuto contare su misure di sicurezza areali (cioè il presidio di polizia della zona circostante l’arena) più blande rispetto all’inizio del concerto e soprattutto ha potuto attendere che il pubblico in uscita lo raggiungesse senza dover tentare di penetrare nell’edificio per poter fare una strage.
Non sappiamo ancora se l’ordigno improvvisato, contenente chiodi e bulloni per aumentarne l’effetto devastante, fosse stato confezionato in modo artigianale impiegando esplosivo di tipo industriale o militare o se invece, come in altri attentati in Francia e Belgio, si trattasse del TATP, esplosivo “fatto in casa” impiegando materiale reperibile sul mercato.
In ogni caso è difficile credere che l’attentatore fosse anche l’uomo che ha confezionato l’ordigno: competenze così specialistiche sono preziose per i terroristi e non verrebbero sacrificate in un attacco suicida che può essere affidato anche a un “dilettante del jihad” pur se ideologicamente motivato.
L’attentato di Manchester è il più grave nel Regno Unito dal 7 luglio del 2005, quando a Londra una serie di esplosioni causate da attentatori suicidi legati ad al-Qaeda provocarono 56 morti su un bus e nella metropolitana. Oggi come allora la Gran Bretagna ha mostrato una peculiarità che dimostra l’attenzione posta agli aspetti mediatici della lotta al terrorismo.
Autorità e media sembrano aver hanno cooperato ancora una volta nell’evitare che venissero diffuse immagini di morti (anche coperti da lenzuoli da obitorio), feriti o anche solo tracce di sangue.
Una strategia ben precisa, messa a punto nel Regno Unito all’epoca dei devastanti attentati dell’IRA, che mira a non offrire “trofei” alla propaganda dei terroristi che gonfia il petto e raccoglie adepti mostrando le immagini dei macabri effetti degli attentati contro gli infedeli.
(con fonte Il Mattino del 24 naggio)
Foto AFP
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.