Spese per la Difesa al 2% del PIL: il solito pasticcio all’italiana

Una delle caratteristiche principali del (poco lucido) dibattito sulle questioni legate alla Difesa del nostro Paese è, da sempre rappresentato dall’andamento a “strappi”.

Accanto a lunghi periodi di silenzio (quale diretta conseguenza di un disinteresse generalizzato) capita di trovare momenti di dibattito anche intenso ma, al tempo stesso, raramente costruttivo.

A questa sorta di regola non scritta, non fa certo eccezione quanto sta succedendo in questi giorni, contraddistinti dalla riaccensione delle discussioni (e delle polemiche) sulla spinosa questione delle spese per la Difesa del Paese.

A dare il “la” a questa nuova tornata di articoli di stampa e riflessioni varie hanno provveduto le ultime dichiarazioni del Presidente americano Trump; in un’intervista all’Associated Press, caratterizzata dai soliti toni non propriamente “ortodossi”, ha infatti fornito la sua personale interpretazione rispetto agli esiti dei colloqui intercorsi con il Presidente del Consiglio italiano Gentiloni.

Colloqui avvenuti nel corso della recente visita a Washington da parte del nostro Capo dell’Esecutivo.

In questa intervista, lo stesso Trump sostiene, in estrema sintesi, di aver riaffermato il principio in base al quale tutti i Paesi della NATO devono contribuire in termini finanziari nella misura più uguale possibile alle esigenze/necessità di questa Organizzazione. E, al tempo stesso, di aver praticamente “obbligato” lo stesso Presidente del Consiglio italiano ad assumere impegni in tal senso.

Il tema sul tavolo è quello ben noto della cosiddetta “2% guideline”, riferimento stabilito nell’ambito della stessa Alleanza Atlantica e da intendersi come (almeno) 2% del PIL da destinare alle spese per la Difesa.

Le origini di questa oramai famosa percentuale vanno fatte risalire al 2006; è in quell’anno che la NATO decide di affrontare il tema delle spese per la Difesa dei Paesi membri in maniera più incisiva. La caduta del Muro di Berlino e la conseguente scia di sconvolgimenti politici (in particolare, la scomparsa dell’Unione Sovietica e la fine del Patto di Varsavia) avevano da tempo innescato la lunga stagione dei “dividendi della pace”; occorreva dunque dare un freno a un fenomeno di continua erosione dei bilanci della Difesa che aveva raggiunto proporzioni allarmanti, con l’obiettivo poi di invertire la rotta in seconda battuta.

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La grande crisi economica globale però era alle porte e gli anni successivi saranno così caratterizzati dalla scelta di molti (se non tutti) i Paesi europei di ignorare l’impegno preso e di continuare quindi sulla strada dei tagli di bilancio; fenomeno questo che, peraltro, finisce con l’ingigantire il problema rappresentato dalla sempre più alta percentuale del contributo USA sul totale della spesa per la Difesa di tutti i membri della NATO, ancora oggi intorno al 70%.

Una nuova svolta si ha nel settembre del 2014; in occasione del vertice dei Capi di Stato e di Governo dell’Alleanza Atlantica, il tema non solo viene dibattuto a lungo ma trova anche una sua forte e precisa collocazione all’interno del comunicato finale:

«Taking current commitments into account, we are guided by the following considerations:

  • Allies currently meeting the NATO guideline to spend a minimum of 2% of their Gross Domestic Product (GDP) on defence will aim to continue to do so…
  • Allies whose current proportion of GDP spent on defence is below this level will:
  • halt any decline in defence expenditure;
  • aim to increase defence expenditure in real terms as GDP grows;
  • aim to move towards the 2% guideline within a decade with a view to meeting their NATO Capability Targets and filling NATO’s capability shortfalls.»

In pratica, viene chiesto di interrompere ogni ulteriore declino delle spese per la Difesa come primo passo, come secondo si chiede di incrementarle in termini reali per tendere, infine, a questo “famoso” 2% sul PIL nell’arco di un decennio.

La classica, e già citata, inversione di rotta che è immediatamente colta da molti Paesi europei; del resto, a cambiare erano stati nel frattempo anche gli stessi scenari internazionali, con il tema della sicurezza a tutto tondo che torna ad affacciarsi in maniera prepotente.

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Occorreva cioè dare una risposta ai cambiamenti e questa risposta non poteva che essere un ripensamento di quanto fatto negli ultimi anni; ivi compreso, naturalmente, i tagli alle risorse.

L’ultima accelerazione arriva infine, e come noto, dall’arrivo del nuovo Presidente degli Stati Uniti il quale, fin dalla campagna elettorale, era stato (come suo solito…) molto diretto: l’Europa deve pagare di più per la propria Difesa.

Un monito ribadito spesso e che, come detto, sta trovando una sua concreta applicazione visto che non sono poche le capitali europee ad aver già annunciato passi concreti nella direzione auspicata; e anche laddove si fa presente (per varie ragioni) che il livello del 2% non sarà per loro raggiungibile, non è comunque mancata la solenne assunzione di impegni verso un aumento (anche importante) dello sforzo finanziario.

In questo quadro di carattere generale s’inserisce l’Italia; da sempre “cenerentola” in fatto di spese per la Difesa, in un simile contesto caratterizzato da una crescente pressione per cambiare i propri comportamenti sta dimostrando una volta di più tutti i propri limiti.

Anzi, proprio le vicende di queste ultime settimane e giorni, danno la netta sensazione che il clima di confusione attestato su livelli già pericolosamente alti, stia addirittura degenerando. Con il rischio di sconfinare nella farsa.

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L’Italia non ha mai interrotto davvero la stagione dei tagli alla difesa, laddove anche le (presunte) stabilizzazioni del bilancio in termini monetari non lo sono poi in termini reali e, comunque, ottenute solo per effetto di ulteriori aumenti delle risorse destinate al Personale;

Anzi, a oggi il nostro Paese è praticamente l’unico a non aver assunto degli impegni precisi nella direzione di un vero aumento delle spese militari e tutte le informazioni a oggi disponibili, al contrario, ci restituiscono un quadro all’interno del quale vi saranno nuovi tagli di bilancio.

Del resto, cosa meglio dei numeri può rappresentare correttamente la realtà?

Solo sul bilancio previsionale della Difesa per il 2017 (già in calo di quasi 150 milioni di euro rispetto a quello del 2016), si preannunciano tagli per un altro centinaio di milioni; oltre 72 per effetto del cosiddetto provvedimento di “riordino delle carriere” (l’ennesima mancia elettorale per il cui finanziamento si fa ricorso anche a risorse già stanziate per il Ministero della Difesa) e un’altra ventina di milioni per effetto del DL 50/2017, altrimenti nota come “manovrina correttiva”.

Come se non bastasse, l’attuale Legge di Bilancio prevede stanziamenti in calo per il 2018 e per l’anno successivo; tutto questo mentre il DEF 2018 appena presentato, anticipa già una nuova (e consistente) tornata di “spending review” a carico di tutti i Ministeri.

E se è pur vero che nel conto vanno aggiunti i fondi provenienti da altri Dicasteri, cioè il MEF per le missioni all’estero e il MiSE per il sostegno d’importanti programmi di investimento, di questo passo il saldo finale è destinato comunque a registrare il segno meno; anno dopo anno, anche per il prossimo futuro.

Se non in termini monetari, come detto, sicuramente in termini di rapporto percentuale con il PIL; il tutto con una qualità della spesa stessa che precipita su livelli sempre più allarmanti, dato che quello stesso provvedimento di “riordino delle carriere”, a regime comporterà maggiori spese per oltre 370 milioni di euro che andranno a gonfiare la voce dedicata al Personale. Laddove, al contrario, tutto il resto e l’Esercizio in particolare continuerà a essere compresso oltre ogni limite.

Ecco perché appaiono incomprensibili le dichiarazioni governative in cui si riferisce di spese per la difesa pari a 24 miliardi di euro equivalenti all’1.18% del PIL.

Nel 2016 il totale dei fondi stanziati dal nostro Paese è stato di 19.980 milioni di euro, pari all’1,11% del PIL.

Non caso, proprio a proposito di documenti ufficiali, si ricorda che questi ultimi restituiscono cifre completamente diverse; sempre con riferimento al 2016 (e a i suoi dati definitivi contenuti nel Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa o DPP), la somma degli stanziamenti per la Funzione Difesa propriamente detta con gli stanziamenti resi disponibili dal Ministero dello Sviluppo Economico per il sostegno di alcuni (essenziali) programmi di investimento, e l’aggiunta delle risorse stanziate dal Ministero delle Finanze per la copertura delle missioni all’estero, restituiscono una totale di poco più di 16,9 miliardi di euro.

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Cifra ben diversa da quella fornita, anche in termini di rapporto percentuale con il PIL che, nel caso specifico, supera appena l’1%.

Le cifre reali risultano ugualmente ben lontane da quelle fornite anche dai rapporti dell’’Osservatorio Mil€x (23,3 mld di euro spesi nel 2017) e del SIPRI (addirittura 27,9 mld di dollari di spese militari nel 2016).

Inoltre nessuno chiede in realtà un raddoppio del bilancio ma solo di tendere al livello del 2% ma non esiste un solo dato, un solo fatto, una sola circostanza o un singolo indizio che possano rendere credibile la volontà di far fronte agli impegni sottoscritti.

Ancora una volta: le prime, per quanto non definitive, indicazioni per il 2017 restituiscono una quadro che nella migliore delle ipotesi prevede una sostanziale stabilità delle risorse stanziate per il comparto Difesa.

E se anche si riuscisse (grazie a una qualche “acrobazia” contabile…?) a dimostrare un aumento, esso sarebbe comunque limitato a qualche centesimo di punto sul PIL. Un percorso, quello dunque verso il 2% ma anche solo verso un più logico allineamento alla media espressa dai Paesi europei in ambito NATO (circa l’1,5%), che diventerebbe praticamente interminabile!

L’esigenza di aumentare le risorse per il comparto (e di riqualificare la spesa, anche attraverso riforme strutturali che però non partono mai…) dovrebbe essere un qualcosa che va al di là di “target” imposti dall’esterno.

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Al contrario, essa dovrebbe nascere dalla consapevolezza che uno strumento militare adeguato nei numeri e nelle capacità risponde esattamente agli interessi del Paese; anche al di là di qualsiasi considerazione sulle condizioni economico-finanziarie del Paese o di eventuali vincoli di bilanci che, nel frattempo, si sono trasformati in paraventi sempre più comodi, dietro i quali nascondere pesanti) responsabilità rispetto alle scelte compiute.

Perché alla fine, e con tutto il dovuto rispetto, a dirci queste cose non dovrebbe essere né un Presidente degli Stati Uniti né nessun altro.

Il punto però è che se, ancora una volta, di fronte a simili prese di posizione non si riesce a rispondere se non in maniera così confusa, con balbettii privi di senso, ripetendo per l’ennesima volta vaghe promesse senza significato alcuno, è evidente che a mancare è, prima di ogni altra cosa, la comprensione.

Il livello del dibattito su questi temi non può restare così basso, occorre un “colpo di reni” tanto in termini intellettuali quanto di comunicazione. E questo è un compito che spetta in primo luogo ai vertici (politici e militari) della Difesa; e, in seconda ma non meno importante battuta, alla politica nel suo complesso.

Foto: Getty Images, Reuters e Difesa.it

Giovanni MartinelliVedi tutti gli articoli

Giovanni Martinelli è nato a Milano nel 1968 ma risiede a Viareggio dove si diplomato presso l’Istituto Tecnico Nautico per poi lavorare in un cantiere navale. Collabora con Analisi Difesa dal 2002 occupandosi di temi navali in generale e delle politiche di Difesa del nostro Paese in particolare. Fino al 2009 ha collaborato con la webzine Pagine di Difesa.

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