Da Londra le solite lezioni che l’Europa non vuole apprendere
Spiace dirlo ma l’attacco jihadista al London Bridge non aggiunge nulla di nuovo a quanto già sappiamo sulle diverse forme di minaccia terroristica portata all’Europa dai “soldati” dello Stato Islamico o di altri gruppi islamici.
La Gran Bretagna è da tempo nel mirino dei jihadisti e del resto è uno dei Paesi leader della seppur blanda guerra che la Coalizione a guida statunitense conduce da tre anni contro lo Stato Islamico in Iraq e Siria.
In tre mesi il Regno Unito è stato colpito da tre attacchi terroristici, più altri cinque sventati dai servizi d’intelligence come ha riferito ieri Theresa May, a conferma che dopo la Francia, Il Belgio e la Germania proprio la Gran Bretagna sembra essere entrata nel mirino prioritario dei jihadisti.
I tre attacchi a Westminster, Manchester e al London Bridge ribadiscono come i terroristi colpiscano in base alle opportunità e alla tipologia di soldati” disponibili.
Westminster e London Bridge sono bersagli paganti in termini simbolici poiché ben rappresentano il cuore politico e quello sociale di Londra e sono stati attaccati da terroristi non professionisti, forse incapaci di confezionare esplosivi o usare kalashnikov ma comunque in grado di guidare veicoli e impugnare coltelli.
Del resto tre anni or sono Mohammed al-Adnani, il capo della propaganda del Califfato ucciso l’anno scorso da un drone statunitense in Siria, con un noto proclama aveva esortato gli adepti anche non addestrati all’uso delle armi a colpire gli infedeli in Europa con le armi a disposizione indicando esplicitamente veicoli e coltelli da cucina.
A Manchester invece è stato impiegato un “veterano” del conflitto libico (e forse anche siriano) già avvezzo a combattere, a produrre esplosivi e al tempo stesso pronto a immolarsi con un’azione suicida. Un caso non certo frequente nel mondo jihadista dove solitamente i tecnici esperti in grado di produrre e confezionare il famigerato esplosivo fatto in casa TATP sono preziosi e non vengono sacrificati in attacchi suicidi affidati invece a fanatici privi di esperienza e capacità specifiche.
Una conferma ulteriore che per i terroristi islamici colpire la Gran Bretagna a ridosso delle elezioni politiche ha un valore strategico teso forse a influenzare l’esito del voto, di certo a dimostrare che il governo non può proteggere i suoi cittadini né i luoghi più rappresentativi del Paese.
Un elemento certo non nuovo se pensiamo che già a fine marzo 2004 gli attentati di al-Qaeda alle stazioni ferroviarie di Madrid provocarono circa 200 morti alla vigilia delle elezioni politiche determinando l’inaspettata vittoria socialista che determinò il ritiro delle truppe iberiche dall’Iraq, come volevano i qaedisti.
A quanto pare anche in questo caso gli attentatori erano già noti all’intelligence ma è evidente che il numero di sospettati o potenziali terroristi è così elevato che non ci sono abbastanza poliziotti o agenti dell’intelligence per tenerli tutti sotto controllo a tempo pieno.
La stessa May lo ha riconosciuto dopo l’attentato di Manchester riferendo di oltre 3mila potenziali terroristi islamici presenti in Gran Bretagna. Numeri che potrebbero essere in realtà molto più alti se si tiene conto che circa la metà dei 2 mila foreign fighters partiti dalle Isole Britanniche per combattere in Siria e Iraq sotto le bandiere di Isis e al-Qaeda sarebbero rientrati in patria, Inoltre solo i simpatizzanti salafiti nel Regno Unito sono molte migliaia, certo non addestrati a compiere azioni armate ma perfettamente in grado di guidare un veicolo e impugnare un coltello.
Un problema che non riguarda certo solo la Gran Bretagna ma comune a molti altri Paesi europei a elevata presenza musulmana come Belgio, Francia e Germania.
“Non possiamo e non dobbiamo far finta che le cose possano continuare come sono, le cose devono cambiare” ha detto il Primo Ministro proponendo un piano in 4 punti che prevede di sconfiggere l’ideologia islamista, mettere fine allo “spazio sicuro” offerto ai terroristi della rete internet, continuare l’azione militare contro l’Isis in Iraq e in Siria e garantire pene detentive più lunghe a chi viene condannato per terrorismo.
Obiettivi che la May potrà attuare solo se dovesse vincere le elezioni di giovedì e che in ogni caso sono realizzabili ottimisticamente solo a medio lungo termine.
In un articolo pubblicato il 31 maggio il quotidiano britannico, The Guardian ha rivelato come un’inchiesta sui finanziamenti agli ambienti jihadisti commissionata dall’allora premier David Cameron all’unità di analisi sull’estremismo del Ministero degli Interni viene tenuta segreta per ragioni di opportunità politica poiché evidenzierebbe il ruolo dell’Arabia Saudita.
L’Home Office (il ministero degli Interni) ha confermato che la relazione non è ancora stata completata e che non verrà necessariamente pubblicata a causa dei contenuti “molto sensibili” lasciando ogni decisione al governo che uscirà dalle urne giovedì.
Un aspetto non nuovo non solo per la Gran Bretagna ma per tutta l’Europa, ambiguamente impegnata a combattere un terrorismo islamico che trae la sua forza e la sua manovalanza dagli ambienti estremisti nutriti dai petrodollari delle monarchie del Golfo, importanti investitori nelle economie e nei mercati finanziari del vecchio continente.
Nonostante le condanne degli organismi che rappresentano il mondo islamico l’attacco al London Bridge conferma infatti tutte le criticità dei Paesi europei alle prese con un terrorismo che inevitabilmente gode di ampi appoggi nell’estremismo islamico sostenuto dalle monarchie sunnite del Golfo, ormai diffuso in modo capillare in Europa e quasi mai contrastato con efficacia dagli Stati che hanno persino rinunciato a incarcerare i foreign fighters di ritorno da Iraq e Siria e a perseguire i tanti predicatori e imam che inneggiano a violenza e sharia.
Il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha detto che i terroristi non sono veri islamici come dimostrerebbe il fatto che hanno colpito sul London Bridge durante il Ramadan ma lui per primo (è islamico) dovrebbe sapere che il mese del digiuno è stato sempre insanguinato da azioni terroristiche e negli ultimi giorni terroristi “non veri islamici” (?) hanno massacrato innocenti a Kabul, Baghdad, Mindanao.
Negare che il terrorismo sia “profondamente islamico” è ridicolo ma soprattutto fuorviante, specie dopo i dati emersi nell’aprile 2016 da un sondaggio condotto nella comunità musulmana dalla società demoscopica ICM presentato all’interno di un documentario di Channel 4 dal titolo “Che cosa i musulmani veramente pensano”, presentato da Trevor Phillips, ex presidente della commissione per l’eguaglianza razziale ed i diritti umani.
Il dato più eclatante è che solo il 34% degli intervistati sarebbe disposto a denunciare alla polizia un sospetto ‘foreign fighter’ coinvolto in azioni terroristiche jihadiste. In soldoni questo significa che per convinzione o convenienza i due terzi del campione di popolazione islamica residente in Gran Bretagna sostiene o comunque non contrasta la causa dello Stato Islamico.
Dal sondaggio emerge inoltre che il 52% dei musulmani intervistati ritiene che l’omosessualità dovrebbe essere illegale e per il 47% è inaccettabile che gay o lesbiche insegnino in una scuola.
Il 23% si dichiarò a favore dell’introduzione della sharia in Gran Bretagna e il 4 per cento simpatizzava apertamente con i terroristi suicidi, il 32% non condannava le violenze contro chi viene accusato di avere “offeso Maometto” e il 31% si disse a favore della poligamia.
”L’integrazione dei musulmani nel Regno Unito sarà probabilmente il compito più difficile che abbiamo davanti richiederà l’abbandono del multiculturalismo all’acqua di rose e l’adozione di un approccio all’integrazione molto più deciso” aveva detto Phillips un anno or sono. Parole simili a quelle pronunciate ieri da Theresa May.
Un anno prima, nel febbraio 2015, il sondaggio commissionato dalla BBC all’istituto ComRes per sondare il parere della comunità islamica del Regno Unito, stimata in 2,8 milioni di persone (pari al 4,4% della popolazione totale), due mesi dopo la strage jihadista nella redazione parigina di Charlie Hebdo, diede risultati simili.
Oltre un quarto (il 27%) del campione di mille musulmani britannici intervistati disse di “comprendere i motivi dietro all’attacco a Charlie Hebdo a Parigi” condotto dai fratelli Kouachi il 7 gennaio 2015 mentre l’11% si disse convinto che coloro che pubblicano le immagini di Maometto meritano di essere attaccati.
In termini numerici significa che due anni or sono 280 mila musulmani britannici sostenevano i terroristi e circa 750 mila ne condividevano le motivazioni.
Nel complesso un milione di islamici britannici che ben difficilmente potremmo definire “moderati”. Da non dimenticare poi quel 32% degli intervistati che disse di “capire le ragioni di chi lancia attacchi in nome dell’Islam se la religione è stata insultata”.
“Sono dati che mi preoccupano” commentò Sayeeda Warsi, primo ministro donna di religione musulmana in Gran Bretagna.
Eppure per comprendere l’abisso che separa l’Occidente dall’Islam è sufficiente ricordare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo promulgata nel 1948 dalle Nazioni Unite che i Paesi islamici non hanno mai sottoscritto perché contraria ai precetti coranici e alla sharia. Il motivo è facilmente comprensibile fin dalla prima riga dell’articolo 1 della Dichiarazione che recita: “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.
Foto Reuters, AP, CNN e Getty Images
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.