La svolta moderata di Hamas: cambio di rotta o doppio gioco?

Dal nostro corrispondente in Israele

In vista dell’estate Hamas cambia veste: nuovo statuto, nuovo leader; tutto nel giro di pochi giorni, probabilmente nella speranza di trovare un modo di arginare il malcontento che serpeggia nella striscia di Gaza e che la stagione calda rischia di estenuare e trasformare in rivolta.

Il primo maggio, lo storico e ormai ex leader del Movimento Islamico di resistenza, Khaled Meshaal, ha presentato la nuova Carta Fondamentale: un documento più morbido, rispetto a quello del 1988, dal quale emergono cambiamenti di rotta difficilmente interpretabili perché esposti in maniera ambigua. Per la prima volta, Hamas si dichiara disposta ad accettare l’idea di uno Stato Palestinese che rispetti i confini precedenti alla Guerra dei Sei Giorni del 1967, senza però rinunciare all’obiettivo finale della “completa e piena liberazione della Palestina, dal fiume al mare”, e senza compromettere il diritto al ritorno di tutti i profughi palestinesi e dei loro discendenti. Altro elemento di novità, sono i toni più moderati nei confronti degli ebrei, individuati come nemici non per la religione che professano, ma per il disegno sionista che perseguono.

Non ci sono però spiragli che lascino sperare nel riconoscimento della legittimità dello Stato di Israele: l’esistenza dell’“entità sionista” è rifiutata a prescindere, senza compromessi, e la lotta armata per la liberazione della Palestina rimane un dovere e un diritto, non solo per i Palestinesi, ma per la tutta comunità islamica (Ummah).

Il cambiamento forse più rilevante sta nel fatto che nel nuovo statuto non c’è più alcun riferimento all’affiliazione ai Fratelli Musulmani: Hamas si dichiara un “movimento islamico indipendente di liberazione nazionale e di resistenza”.

Secondo molti esperti, questa novità servirebbe a compiacere l’Egitto che nel 2013 ha designato la Fratellanza Mussulmana e Hamas come organizzazioni terroristiche, e che in questi anni ha più volte accusato il movimento islamico di resistenza palestinese di collaborare con i Fratelli Musulmani alla pianificazione di attacchi sul suolo egiziano.

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Inoltre l’Egitto, con Israele, da anni impone un severo blocco sulla striscia di Gaza, impedendo il traffico aereo, terrestre e marittimo. Il valico di Rafah, in precedenza utilizzato dal Cairo per alleviare la crisi umanitaria, è sigillato dal 2008. La popolazione di Gaza risente fortemente di questo isolamento: la disoccupazione è alle stelle, il sistema elettrico e quello fognario sono vicini al collasso, ma soprattutto l’acqua è sempre più scarsa. La situazione è così grave che, secondo le Nazioni Unite, la Striscia entro il 2020 diventerà inabitabile.

E alle porte dell’estate, Hamas teme la rivolta di una popolazione i cui 1,8 milioni di abitanti vivono con uno scarsissimo accesso all’acqua: la rete idrica municipale non è in grado di fornire acqua potabile, il 95% della gente dipende dall’acqua marina desalinizzata fornita dalle autocisterne private, e oltre 40mila persone non sono allacciate ad alcuna rete idrica. La gravità della situazione ha spinto Hamas negli ultimi mesi a cercare di allentare le tensioni con l’Egitto. Per questo a Gennaio Ismail Haniyeh (nella foto sotto), che dal 6 maggio è il nuovo presidente dell’ufficio politico di Hamas, ha visitato il Cairo, incontrando diversi capi d’intelligence per negoziare un alleviamento del blocco imposto sulla Striscia.

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Durante l’incontro, il generale d’intelligence egiziano Khaled Fawzy ha promesso a Haniyeh che il valico di Rafah sarà aperto diverse ore al giorno e che il numero di visti di transito per i Palestinesi verso l’Egitto sarà notevolmente incrementato; ma il generale chiede molto in cambio al nuovo leader di Hamas: “dovrete consegnarci qualunque persona vi chiederemo, non solo gli individui direttamente coinvolti in attacchi terroristici nella penisola del Sinai, ma anche coloro che hanno semplicemente assistito i militanti”.  Questo vorrebbe dire rinunciare all’ormai consolidata collaborazione tra Hamas e la provincia Isis del Sinai.

Nonostante il movimento islamico di resistenza abbia sempre negato di collaborare con i militanti Isis nel Sinai, l’intelligence del Cairo e quella israeliana sono a conoscenza del continuo traffico di armi, soldi e uomini che avviene attraverso miriadi di tunnel sotterranei che consentono comunque di valicare il confine.

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Negli ultimi anni Hamas è stata di supporto ai militanti Isis nel Sinai fornendo loro armi, rifugio, addestramento, cure mediche e anche uomini. In risposta, l’esercito del Cairo ha creato una zona cuscinetto al confine con la Striscia e ha reso inservibili centinaia di tunnel, inondandoli o distruggendoli. Ma i passaggi sotterranei risorgono continuamente sugli scheletri di quelli vecchi e il traffico continua, rafforzando il pugno dell’Isis sulla penisola del Sinai e vanificando la lotta al terrorismo dell’esercito del Cairo. Per questo l’Egitto cambia strategia, cercando di portare dalla sua parte Hamas e di farne un alleato nella guerra al terrorismo.

La posizione del movimento islamico di resistenza non è chiara, il suo calcolo strategico deve tenere in considerazione molti fattori, primo tra tutti il denaro cui dovrebbe rinunciare schierandosi dalla parte dell’Egitto. Infatti, quei tunnel che servono ad aggirare il blocco costituiscono la linfa vitale del governo di Hamas sotto assedio: le armi vendute ai militanti dell’Isis, come l’assistenza sanitaria e logistica fornita, consentono ai vertici del movimento di pagare gli stipendi dei propri impiegati, di procurarsi nuove munizioni, di fare propaganda e di portare avanti le attività di governo a Gaza.

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Sull’altro lato della medaglia invece, non c’è solo il peso dell’isolamento internazionale e del rischio di rivolta della popolazione, ma anche le continue defezioni che l’ala militare di Hamas sta subendo negli ultimi mesi.

Dozzine di militanti palestinesi hanno abbracciato la causa dell’Isis, trasferendosi nel Sinai con armi e famiglie; tra loro, molti sono combattenti ben addestrati, capaci di costruire esplosivi e di usare missili anti carro.

Negli ultimi venti, giorni quattro Palestinesi hanno perso la vita nel Sinai combattendo a fianco degli affiliati del califfo. Questa perdita di capitale umano costa molto all’ala armata di Hamas che, dopo la fine della guerra di Gaza del 2014, ha investito ingenti risorse per ricostruire la sua infrastruttura di combattimento e per addestrare i suoi militanti.

Il nuovo statuto e la nuova leadership fanno pensare all’inizio di un cambio di rotta nella politica di Hamas, e la stampa internazionale ha festeggiato questa svolta moderata nei confronti di Israele. Al contrario, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha gettato simbolicamente una copia del nuovo documento nel cestino, affermando che “le agenzie di stampa internazionali sono intasate da notizie false” perché “Hamas sta mentendo al mondo”.

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A Gaza, il nuovo leader del movimento, Ismail Haniyeh  ha varie sfide di fronte a sé: tra queste l’ammorbidimento delle relazioni con il Cairo è una priorità, ma il nuovo statuto non è sufficiente ad alleviare il blocco imposto sulla Striscia. Per questo, Haniyeh ha inviato domenica in Egitto una nuova delegazione, questa volta guidata dal suo secondo e capo del governo della Striscia, Yahya Sinwar. Secondo Salah Bardaweel, un portavoce di Hamas, la delegazione discuterà della crisi umanitaria che affligge Gaza e della necessità di riaprire il confine di Rafah. Ma l’Egitto pretende dal movimento una posizione chiara, e il fatto che la tribù beduina Tarabin abbia recentemente confermato al Cairo il proseguimento della cooperazione di Hamas con l’Isis, non sembra giocare a favore di una riconciliazione.

Foto Reuters e AP

Valentina CominettiVedi tutti gli articoli

Nata a Roma nel 1989, si laurea con Lode in Scienze Politiche e della Comunicazione alla Luiss Guido Carli. Ha frequentato diversi master di giornalismo e collaborato con diverse testate e con Radio Vaticana. Si occupa di sicurezza e geopolitica, ha seguito sul campo il conflitto ucraino e ha realizzato reportage nell'area balcanica. Attualmente vive in Israele dove è ricercatrice presso l'International Institute for Counterterrorism.

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