Mar Cinese Meridionale: Hanoi e Pechino ai ferri corti

di Thanh Thuy – AsiaNews

Si è conclusa in maniera brusca e imprevista la visita in Vietnam del generale Fan Changlong, vice presidente della Commissione militare centrale della Repubblica popolare cinese (Prc). L’alto ufficiale avrebbe dovuto lavorare a stretto contatto con le autorità vietnamite dal 18 al 22 giugno scorso. Nei primi due giorni, il viaggio prevedeva incontri di alto profilo con i vertici del governo di Hanoi: Nguyễn Phú Trọng, segretario generale; il presidente Trần Đại Quang; il Primo ministro Nguyễn Xuân Phúc; Ngô Xuân Lịch, ministro della Difesa.

Viet Nam Media riporta che, nei restanti due giorni, il gen. Fan Changlong avrebbe dovuto condurre assieme al gen. Ngô Xuân Lịch la quarta edizione dello Scambio di amicizia per la difesa del confine sino-vietnamita, cui erano tenute a partecipare le truppe di entrambi i Paesi.

Un quotidiano indipendente locale riferisce che lo scopo della visita del gen. Fan era quello di discutere con i leader del Vietnam di “alcune questioni legate alle dispute tra le due nazioni nel Mar Cinese meridionale”. A tal proposito il generale ha affermato che “tutte le isole (comprese le barriere coralline) nel mare Orientale appartengono alla Cina sin dai tempi antichi”.

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Tuttavia, il governo del Vietnam non concorda con i punti di vista ed i suggerimenti del generale, il quale in risposta ha annullato tutti gli impegni bilaterali. La sera del 18 giugno, Fan Changlong è ripartito per la Cina senza fornire alcuna spiegazione.

In passato, il Vietnam ha sempre dichiarato il suo impegno per costruire “buone relazioni” con la Cina. Secondo gli analisti, la repentina decisione di Fan Changlong dimostra il malcontento di Pechino verso i piani vietnamiti di sfruttamento di gas e petrolio nel Mar Cinese meridionale. Da tempo Hanoi sta inoltre cercando di instaurare rapporti, economici e militari, più stretti con il Giappone e gli Stati Uniti d’America.

Nel gennaio 2017, il gruppo statunitense ExxonMobil ha siglato un accordo per la lavorazione e la vendita di gas dal “Blue Whale Oilfield”, nel Vietnam continentale. Il 13 giugno scorso, i marinai della Echigo, nave della Guardia costiera giapponese, hanno visitato la provincia di Đà Nẵng (Vietnam centrale), dove hanno preso parte ad alcune esercitazioni congiunte con i colleghi vietnamiti. Inoltre, Washington e Tokyo hanno fornito ad Hanoi navi e imbarcazioni da pattuglia per aiutare il Vietnam a migliorare le proprie capacità marittime.

Nel frattempo, le autorità cinesi hanno dichiarato che “la trivellatrice Haiyang Shiyou – 981 opererà nel giacimento di petrolio di Lăng Thủy dal 16 giugno scorso fino al 15 settembre 2017”. Al momento la piattaforma petrolifera si trova a 74 miglia marittime da Hainan, isola cinese che si trova nella parte più meridionale del Paese, di fronte alle coste del Vietnam centrale. Questo tratto di mare si trova nel Golfo settentrionale del Mar del Vietnam ed è al centro dei negoziati sino-vietnamiti per la delimitazione delle acque territoriali.

Non è la prima volta che la Cina porta la Haiyang Shiyou – 981 in acque di competenza del Vietnam o al centro delle dispute, come atto di rappresaglia nei confronti di Hanoi, che cerca di sottrarsi all’influenza territoriale cinese. Gli analisti prevedono ora una nuova ondata di tensioni tra i due Paesi, che rischiano di minare la pace e l’economia delle acque orientali del Mar Cinese meridionale.

Sfruttando alcune ambiguità del Diritto internazionale in materia di acque territoriali, Pechino rivendica una fetta consistente di oceano. Essa che comprende le Spratly e le Paracel, isole contese da Vietnam, Taiwan, Filippine, Brunei e Malaysia (quasi l’85% dei territori) nel mar Cinese meridionale e le Senkaku (per il Giappone, Diaoyu in Cina), nel mar Cinese orientale. Per garantirsi il controllo delle importanti rotte marittime che attraversano queste acque, il governo cinese ha avviato la costruzione di una serie di isole artificiali, con impianti militari e fari per la navigazione.

Stime recenti riferiscono che il valore commerciale dei prodotti in transito ogni anno nell’area si aggira attorno ai 5mila miliardi di dollari. A sostenere i Paesi del Sud-Est asiatico vi sono anche gli Stati Uniti, che hanno giudicato “illegale” e “irrazionale” la cosiddetta “lingua di bue” usata da Pechino per marcare il territorio, fino a comprenderne quasi l’80% dei 3,5 milioni di chilometri quadrati.

 

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