A Madrid un seminario su difesa e sicurezza Ue

da Madrid

Tra il 27 e il 29 giugno scorsi, Madrid è stata la sede del seminario intitolato “Sicurezza e Difesa nell’Europa Meridionale”. L’evento, organizzato dalla sede madrilena del Parlamento europeo, ha visto la partecipazione di oltre 30 giornalisti di settore provenienti da Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia e Cipro, nonché quella di numerosi europarlamentari iberici in veste di relatori.

In virtù dei recenti sviluppi e del livello di coinvolgimento dell’opinione pubblica, l’intervento forse più interessante per quanto riguarda il nostro Paese è stato quello di Ewa Moncure, portavoce di Frontex, che ha illustrato ai presenti come, in seguito all’accordo tra UE e Turchia sull’immigrazion, la rotta Libia-Sicilia sia diventata quella preferita da chi gestisce i flussi i nel Mediterraneo. Nel maggio di quest’anno, ad esempio, il numero di arrivi nel nostro Paese è aumentato del 77% rispetto al mese precedente, il che ha portato il dato complessivo dei primi cinque mesi a superare le 60.000 unità (+26% rispetto al 2016).

Ciò significa, in altre parole, che ogni 4 immigrati che raggiungono l’Europa, 3 lo fanno attraverso l’Italia e, sempre secondo l’Agenzia Europea, la maggior parte proviene da Nigeria, Bangladesh e Costa d’Avorio, Paesi decisamente non in guerra o, comunque, che difficilmente possono far scattare gli obblighi di protezione internazionale.

A conferma di ciò, sono arrivate anche le parole del Presidente francese Emmanuel Macron il quale, dichiarando la disponibilità di Parigi a venire incontro a Roma nella gestione dell’emergenza sbarchi, ha però messo in guardia Gentiloni e Minniti sul fatto che “l’80% dei migranti che arrivano in Italia sono migranti economici”, aggiungendo perentoriamente che questi non vanno confusi con chi ha legittimi motivi per richiedere di essere accolto. Un problema aggiuntivo per il nostro Paese è rappresentato dal fatto che molto spesso gli immigrati scelgono di non portare con sé alcun documento d’identità, cosa che costringe l’intelligence di Frontex a cercare di stabilire la loro provenienza intervistandoli o controllando i dispositivi elettronici (smartphone, tablet, etc.) che questi portano con sé alla ricerca di foto o altre informazioni che possano aiutare l’identificazione.

Intervistata da AnalisiDifesa, inoltre, Ewa Morcure ha chiarito nuovamente un aspetto spesso dibattuto nel nostro Paese e cioè che, in virtù del mandato europeo e degli accordi con Roma, qualsiasi persona salvata da Frontex nel Mediterraneo Centrale viene portata in Italia. La portavoce, infine, ha messo l’accento sul fatto che la sostanziale differenza fra la nostra situazione e quella della Spagna è che Madrid per limitare l’immigrazione può contare sulla collaborazione di uno Stato forte (il Marocco) e su quello di altre realtà africane, mentre noi facciamo fatica anche solo ad individuare un interlocutore nel complicato scenario libico.

Nel corso dell’evento, comunque, ampio spazio è stato anche riservato ad un altro tema particolarmente caldo, quello delle politiche di Sicurezza e Difesa europee. Secondo le informazioni fornite il 68% dei cittadini della UE vorrebbe che Bruxelles facesse di più in tema di sicurezza, motivo per cui l’Unione ha deciso di accelerare le discussioni sul tema. I primi risultati tangibili di ciò si sono visti soprattutto nella discussa normativa sulle armi da fuoco promossa da Vicky Ford, nella regolamentazione delle attività delle società di sicurezza private (i contractors), nonché nei più stretti controlli imposti alle frontiere per bloccare il ritorno dei foreign fighters.

Riassumendo, invece, le diverse risoluzioni approvate in merito al settore Difesa nel corso del 2016 e del 2017, gli Europarlamentari presenti hanno messo l’accento sul fatto che, se il processo dovesse andare a buon fine, l’Unione Europea diventerebbe non solo una potenza in ambito militare, ma riuscirebbe anche a risparmiare una cifra compresa tra i 25 e i 100 miliardi di Euro.

Secondo l’Europarlamento, infatti, a tanto ammonta il costo annuo delle spese in eccesso causate da doppioni, overcapacity, barriere all’acquisto e mancate economie di scala. Per esemplificare questi ultimi aspetti e sostenere la validità del progetto, i relatori hanno puntato il dito sul fatto che, allo stato attuale delle cose, i 28 Stati membri spendono per la Difesa 227 miliardi di Euro (contro i 545 degli USA) e dispongono di 178 diversi tipi sistemi d’arma (USA: 30), 17 carri da battaglia (USA: 1), 29 cacciatorpediniere/fregate (USA: 4) e 20 caccia (USA: 6).

Al di là di questi dati, comunque, sembra emergere con chiarezza che l’obiettivo dell’Europa è ridurre il gap ormai sempre più evidente con l’America e, contestualmente, rincorrere la Cina, dato che, al momento attuale, solamente 4 Paesi (Grecia, Regno Unito, Estonia, Polonia) spendono almeno il 2% del proprio PIL per la Difesa e numerosi, fra cui Olanda e Italia, superano di poco appena l’1%.

L’iniziativa, per quanto interessante, ha anche degli aspetti non chiari, in primis quelli relativi alle modalità di collaborazione fra le Forze Armate comunitarie e la NATO, che è in gran parte composta proprio da europei. Oltre a ciò, non è ancora dato sapere quale dovrebbe essere il futuro delle Forze Armate dei singoli Stati, dato che queste, affinché l’integrazione vada a buon fine, andrebbero poste sotto comando congiunto, cosa che però rischierebbe di privare le capitali della capacità di decidere sull’impiego delle proprie truppe.

Quel che desta più perplessità è che questa rivoluzione sembra poggiare anche sulla pressione di due forti gruppi di interesse. Da una parte vi sono le Nazioni dell’Europa orientale (Polonia e Baltici in primis) che vedono nella Russia il nemico numero 1 e che desiderano pertanto un ulteriore ombrello a loro protezione, anche se di base continuano a guardare a Washington per la loro sicurezza.

Dall’altra, invece, si pone il forte blocco composto da Francia e Germania, le due nazioni europee non solo più attive in politica estera, ma anche più potenti dal punto di vista dell’industria bellica e già avviate verso un progressivo piano di integrazione. Alla luce di ciò, a pagare il prezzo più alto potrebbero essere i Paesi amici o neutrali nei confronti della Russia (su tutti, Grecia, Cipro, Ungheria e Bulgaria), nonché quelli che cercano di salvaguardare una propria politica estera indipendente (si pensi a Italia e Spagna).

Ecco perché Roma dovrebbe cercare di assicurarsi che il progetto venga realizzato in modo confacente ai suoi interessi, evitando quindi di ripetere le esperienze fatte con Frontex o con gli ostacoli posti da Parigi alla creazione di un polo cantieristico europeo.

L’ultima giornata del seminario è stata incentrata sul Centro Satellitare europeo, una realtà in cui il nostro Paese, grazie all’esperienza degli operatori e a un’eccellente industria di settore, riveste un ruolo di primo piano. Sebbene poco conosciuto, infatti, il SATCEN è uno strumento d’avanguardia in dotazione alla UE per avere accesso ad informazioni dettagliate, utili a prendere decisioni di alto livello.

Nel corso del 2016, infatti, le analisi da esso prodotte sono state utilizzate nell’ambito delle crisi in Ucraina, Medio Oriente, Africa e Mar Cinese meridionale, nonché in occasione di operazioni di anti-terrorismo, di difesa dei confini comunitari (operazioni Triton, Poseidon e Sophia) e di lotta alla proliferazione delle armi di distruzioni di massa. Si tratta di una realtà particolarmente interessante poiché, a richiesta, può fornire i propri servizi anche ai singoli Stati Membri, a Paesi Terzi, nonché ad Organizzazioni internazionali fra cui ONU e OSCE.

 

Triestino, analista indipendente e opinionista per diverse testate giornalistiche sulle tematiche balcaniche e dell'Europa Orientale, si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università di Trieste - Polo di Gorizia. Ha recentemente pubblicato per Aracne il volume “Aleksandar Rankovic e la Jugoslavia socialista”.

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