La complessa evoluzione del conflitto in Sinai

da Tel Aviv

L’attacco terroristico del 7 luglio a Rafah che ha ucciso almeno 26 soldati dell’esercito del Cairo e ne ha feriti altri 33 non è certo un buon segno per la nuova strategia del governo del presidente Abdel Fatah al-Sisi nella guerra allo Stato Islamico. L’attacco è iniziato di mattina presto, quando di fronte a un posto di blocco militare al confine con la Sstriscia di Gaza un uomo si è fatto esplodere in un’auto.

Dopo pochi secondi, sono apparsi dozzine di miliziani mascherati che hanno aperto il fuoco; ci sono voluti trenta minuti di sparatoria prima che i jihadisti finissero le munizioni e si ritirassero. L’esercito egiziano ha parlato di “attacco sventato” e di 40 miliziani del Califfato uccisi nello scontro.

La sera dello stesso giorno, l’IS ha rivendicato l’attacco che sarebbe stato sferrato per impedire un assalto delle forze del Cairo contro le posizioni del califfato. Il messaggio è chiaro: lo Stato Islamico in Sinai è forte e non è disposto a rinunciare al suo satellite più importante.

Si apre quindi con una sconfitta la nuova fase della difficile e lunga guerra del governo egiziano contro gli affiliati del califfo. Una guerra che dal 2013 a oggi ha inflitto all’esercito del Cairo più di 2000 perdite e che ha visto solo peggiorare la situazione sul terreno, perché l’IS ha guadagnato posizioni sempre più importanti nella penisola del Sinai. Eppure negli ultimi mesi, qualcosa stava cambiando e la svolta sembrava finalmente apparire dietro l’angolo.

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Tra aprile e maggio, infatti, le tribù beduine del Sinai, che per lungo tempo avevano concesso agli jihadisti di usare il proprio territorio, sono passate dalla parte del governo.

L’IS aveva cominciato a interferire con i loro affari, impedendo il contrabbando di sigarette al confine con Gaza; e dopo che i miliziani del Califfato avevano fatto esplodere un camion carico di tabacchi perché il fumo è vietato dalla legge islamica, la tribù dei Tarabin ha voltato le spalle ai suoi protetti.

È cominciata così un’escalation di violenze culminata il 22 maggio, quando i milizianii dell’IS hanno rapito e decapitato 4 beduini. Questo episodio ha segnato l’inizio della cooperazione tra il governo egiziano e la Tribù dei Tarabin che è riuscita a coinvolgere i capi beduini delle famiglie più importanti della penisola, creando l’Unione Tribale del Sinai, la cui ala militare, la brigata Shahid Salem Lafi, conduce operazioni coordinate con l’esercito del Cairo contro l’Isis.

L’inizio di questa insolita alleanza ha portato progressi anche sul fronte palestinese. Alla fine di maggio, infatti, l’Unione Tribale ha pubblicamente confermato che Hamas per anni ha collaborato con gli affiliati dell’IS nel Sinai, mettendo a loro disposizione uomini, armi e assistenza medica. “Non permetteremo a nessuno di supportare l’IS e useremo il pugno di ferro con chiunque osi sfidarci”, si legge nel comunicato dell’Unione. Anche questa minaccia ha giocato il suo ruolo nel calcolo strategico di Hamas che, dopo mesi di trattative con il Cairo, ha finalmente deciso di schierarsi dalla parte del governo.

Del resto, negli ultimi tempi i rapporti tra il movimento di resistenza palestinese e gli affiliati al Califfato si stavano deteriorando: i primi stavano perdendo decine di uomini che lasciavano la Striscia per abbracciare la causa jihadista andando a combattere nel Sinai, i secondi affermavano che i palestinesi non sono veri musulmani.

Lo scontro era diventato ufficiale all’inizio di maggio, dopo che Hamas aveva pubblicato il suo nuovo statuto con cui apre alla possibilità di una soluzione a due stati con Israele. Abu Abdullah Almuhajer, uno dei generali dell’Isis Sinai attivo anche nella Striscia di Gaza, aveva affermato che Hamas fa parte di un complotto organizzato a danno dell’Islam e dei musulmani perché la Terra Santa non può essere oggetto di compromessi, specialmente con gli ebrei. “Il fatto che Hamas si dica in lotta contro l’occupazione sionista e non contro gli ebrei è la prova del fatto che il movimento non comprende le ragioni del conflitto e non merita di essere chiamato un movimento islamico”, aveva aggiunto Amuhajer.

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Così, dal 28 giugno, Hamas è ufficialmente passata dall’altra parte, dando inizio alla costruzione di una zona cuscinetto tra il confine egiziano e la striscia di Gaza: il piano prevede di livellare un terreno lungo 12 chilometri, illuminando tutta l’area che sarà controllata da telecamere e torri di controllo.

Abu Naim, uno dei portavoce del movimento, ha parlato di “messaggio rassicurante per il Cairo, e di un’opera che migliora la sicurezza nazionale di entrambi i Paesi”. In cambio, l’Egitto apre qualche ora al giorno il valico di Rafah per far passare merci, acqua e carburante, dando un po’ di respiro agli abitanti della Striscia.

Sembra quindi che i palestinesi abbiano deciso di schierarsi con il Cairo contro  i jihadisti in Sinai, ma in questa nuova collaborazione molti elementi non sono chiari. Innanzitutto non è chiaro se e come questa zona cuscinetto possa porre fine all’attività di traffico sotterraneo attraverso il confine: i tunnel sono uno dei fattori chiave nell’economia della Striscia e un’importante fonte di introito per Hamas. Allo stesso modo, non è ancora chiaro se Hamas consegnerà alle forze di sicurezza egiziane i terroristi che il Cairo intende giudicare.

Insomma, questa nuova collaborazione egiziano-palestinese è ancora tutta da testare. Lo stesso vale per la cooperazione con l’Unione Tribale del Sinai. Non si può escludere che le armi che il Cairo sta dando ai capi beduini, non siano un domani imbracciate dalle tribù contro il regime, con il quale negli ultimi anni i rapporti non sono mai stati amichevoli.

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Infatti, se le tribù sono passate dalla parte dello Stato, è solo per proteggere i propri interessi economici e l’Egitto dovrà lavorare a un piano di sviluppo dell’economia del Sinai se non vuol perdere del tutto il controllo del territorio.

Per ora gli equilibri del gioco sembrerebbero a favore del governo egiziano: i beduini conoscono il Sinai meglio dei militanti dell’Isis, che non dovrebbero più trovare rifugio nel territorio controllato da Hamas e che quindi potrebbero trovarsi finalmente stretti in una morsa. Ma il Sinai è un territorio difficile da interpretare e imprevedibile: gli interessi non sono chiari e le alleanze possono cambiare da un momento a un altro. Intanto c’è da capire perchè l’attacco subito dall’esercito del Cairo il 7 luglio è riuscito a infliggere così tante perdite: segno che i jihadisti sanno che la loro fine è vicina? O che controllano meglio il territorio di quanto si pensi e non hanno più bisogno dei beduini per farlo? Oppure, ancora, qualche alleato dell’Egitto sta facendo il doppio gioco?

Foto  AP, AFP e Reuters

 

Valentina CominettiVedi tutti gli articoli

Nata a Roma nel 1989, si laurea con Lode in Scienze Politiche e della Comunicazione alla Luiss Guido Carli. Ha frequentato diversi master di giornalismo e collaborato con diverse testate e con Radio Vaticana. Si occupa di sicurezza e geopolitica, ha seguito sul campo il conflitto ucraino e ha realizzato reportage nell'area balcanica. Attualmente vive in Israele dove è ricercatrice presso l'International Institute for Counterterrorism.

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