Corea: un patto USA-Cina per fermare l’escalation
da Il Mattino del 10 agosto 2017
La Corea del Nord può colpire il territorio americano. Kim Jong-un lo afferma ormai da oltre un anno ma dopo i test di luglio del missile intercontinentale Hwasong-14 ora anche l’intelligence militare americana lo conferma.
Citando la Defense intelligence agency (DIA), il Washington Post ha reso noto che Pyongyang è riuscito a sviluppare una testata atomica imbarcabile sui missili balistici. Lo stesso giorno un allarme simile lo ha lanciato il Libro bianco della Difesa giapponese, a quanto pare allineato con Washington nel minacciare rappresaglie contro la Corea del Nord in una crisi che a Tokyo ha sollevato già da tempo il dibattito sulla necessità di dotarsi di armi atoniche per bilanciare gli arsenali cinesi e nordcoreani.
Sul piano strategico stupisce che una notizia di questa portata sia stata affidata a un quotidiano invece di farla ufficializzare al Pentagono, soprattutto tenendo conto della rabbiosa minaccia di rappresaglia formulata da Donald Trump: ”fuoco e furia, come il mondo non ha mai visto”.
Finora non erano emerse certezze che Pyongyang avesse sviluppato la capacità di imbarcare armi atomiche sui missili e molti analisti ritenevano fosse necessario ancora almeno un anno per raggiungere questo traguardo. Inoltre la DIA triplica il numero di atomiche di Kim portando le stime a 60 ordigni contro le 15-20 finora attribuite agli arsenali nordcoreani.
Ieri il Segretario di Stato americano, Rex Tillerson, ha gettato acqua sul fuoco. “Non credo vi sia alcuna minaccia imminente, nulla di ciò che ho visto o di quel che so lascia pensare che la situazione sia peggiorata in modo drammatico”. Tillerson ha parlato dall’isola di Guam, grande base militare nel Pacifico nel mirino dei missili nordcoreani ma e i suoi toni sono pacati è difficile non cogliere la volontà di Trump, e forse dei suoi alleati giapponesi, di cavalcare l’onda della crisi determinando un’escalation militare.
Sembrano dimostrarlo anche le notizie d’intelligence filtrate ai media circa l’imbarco di missili antinave a lungo raggio SS-N 25 su una nave da guerra nordcoreana fotografata dai satelliti americani, proprio il giorno che la portaerei Ronald Reagan, mobilitata per la crisi coreana, è giunta nella base nipponica di Yokosuka.
Trump ha poi rilanciato con il consueto linguaggio preso a prestito dai film con Chuck Norris. “Il mio primo ordine come Presidente è stato quello di rinnovare e modernizzare il nostro arsenale nucleare, che ora è molto più forte e potente che mai. Speriamo di non dover mai usare questo potere, ma non ci sarà mai un momento in cui non saremo la nazione più potente nel mondo!” ha scritto Trump in un tweet.
Il presidente potrebbe avere almeno due ragioni per cercare l’escalation con Pyongyang, anche gonfiandone le capacità strategiche, come fece l’Amministrazione Bush con l’Iraq di Saddam Hussein per sollecitare il via libera all’operazione Iraqi Freedom.
La prima è legata alla necessità di distogliere l’attenzione dai suoi guai interni con un blitz militare ad elevata visibilità, come fece nell’aprile scorso in Siria con un attacco missilistico teso a punire Bashar Assad per un attacco chimico in cui la responsabilità dei governativi è quanto meno e improbabile e non è mai stata dimostrata.
La seconda ragione potrebbe invece essere legata al tentativo di minacciare azioni militari per forzare la Cina a disarmare Kim: ipotesi da non escludere considerato che Pechino per la prima volta ha votato a favore delle sanzioni economiche dell’Onu a Pyongyang mostrando segni di insofferenza verso un alleato difficile da controllare.
Al di là dei toni di facciata Pechino potrebbe però continuare a sostenere il regime di Kim il cui armamento sta mettendo in luce l’impossibilità di Washington di impiegare il suo enorme potenziale militare.
La Cina non può permettersi il tracollo de regime di Pyongyang poiché una riunificazione della Penisola coreana “alla tedesca” porterebbe i 28 mila militari americani oggi basati a sud di Seul a schierarsi lungo il confine cinese sulla sponda orientale del fiume Yalu.
Opzione strategica inaccettabile a Pechino e vale la pena ricordare che fu proprio l’avvicinarsi delle forze americane allo Yalu a indurre Mao Tse Tung a ordinare alle sue truppe, nel Natale del 1950, di entrare prepotentemente nel conflitto coreano al fianco del Nord comunista.
Al tempo stesso la minaccia portata dalla Corea del Nord rappresenta una potenziale arma di scambio che la Cina potrebbe utilizzare in un ampio negoziato con Washington che investa tutta la regione del Pacifico Occidentale. La crisi atomica non è infatti l’unico punto di frizione tra Usa e Cina: basti ricordare le polemiche per le forniture di moderni armamenti a Taiwan, approvate da Barack Obama e potenziate da Donald Trump, o le pretese cinesi di annettersi gli arcipelaghi Spratly, Paracel e SenkaKu del Mar Cinese Meridionale e Orientale rivendicate anche dagli altri Stati rivieraschi sostenuti da Washington.
Nonostante le roboanti dichiarazioni bellicose, le opzioni militari americane, inclusa quella ventilata nei giorni scorsi dal consigliere per la sicurezza nazionale H.R. McMaster di un attacco preventivo alla Corea del Nord, non sono percorribili se non mettendo a rischio forse milioni di vite tra Seul e Tokyo, a tiro delle armi nordcoreane a carica nucleare e chimica.
Per questo, a meno di colpi di testa e “incidenti” che potrebbero accendere le polveri del conflitto, il braccio di ferro potrà essere risolto solo da un’intesa tra cinesi e statunitensi in cui in cambio del disarmo atomico e missilistico Pyongyang ottenga ampi aiuti economici e la garanzia della protezione dell’ombrello atomico cinese.
Washington incasserebbe un successo diplomatico da spendere con gli alleati sudcoreani e giapponesi ma in cambio dovrebbe allentare gli aiuti militari a Taiwan oppure accettare la sovranità cinese sugli arcipelaghi contesi o su gran parte di essi: ipotesi non gradita a molti alleati regionali degli Usa.
Ovviamente si tratta solo di ipotesi ma i cinesi hanno tutto l’interesse a temporeggiare per evidenziare come gli USA abbiano le mani legate contro Pyongyang e possano risolvere la crisi solo accettando di trattare con loro una ridefinizione degli assetti strategici regionali.
Foto: Sickchirpse, Lettera 43 e KCNA
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.