Il passato che non passa: torna alla ribalta il caso Scieri

E’ notizia di questi giorni che la Commissione Parlamentare costituita per decisione del  Presidente della Camera sul “caso Scieri”, l’allievo paracadutista morto presso il CAPAR di Pisa 17 anni fa in circostanze non chiare, ha finito i suoi lavori con la decisione di riaprire le indagini sul terribile evento.

E’ una decisione maturata a grande distanza dal fatto, quando è facile sollevare altra polvere (o lasciarsi dalla stessa ingannare) e dimostrare l’indifendibilità della Folgore. Un altro processo alla Grande Unità, quindi, per la gioia degli orfani dello “scandalo Somalia” col quale non si era completata l’opera di trasformare in male tutto il bene che i paracadutisti italiani avevano fatto in quella indimenticabile terra.

Vi aleggerà il convincimento di una Brigata nella quale era forse normale “l’esibizione muscolare di prepotenza”, per usare le parole del Ministro della Difesa nel suo indirizzo all’inizio dei lavori, a differenza di quanto avverrebbe oggi, in una Folgore finalmente rieducata e virtuosa, avvilendone ancora una volta il personale ed infangandone l’onore.

I Capi di Stato Maggiore dell’Esercito e della Difesa di allora sono ormai fuori gioco, e quelli attuali sono troppo presi con le inedite difficoltà odierne delle F.A. e troppo all’oscuro dei fatti per entrare nel merito di quello che successe allora, un dramma che colpì anche i componenti della Folgore oltre ai familiari del ragazzo.

Cercherò, quindi, di far sentire la mia modestissima voce di testimone da un osservatorio privilegiato nei due anni che seguirono quei fatti, nella consapevolezza che è comunque inutile contrastare la vulgata circa una Folgore “cattiva”. Ma i paracadutisti non hanno paura di combattere battaglie perse in partenza.

Nell’estate del 1999 ho assunto il comando del CEAPAR, quello che una volta era conosciuto come la SMIPAR o “la Scuola”, in una Caserma Gamerra che si vedeva improvvisamente trasformata in una trincea per gli attacchi furibondi ai quali era sottoposta.

Subentravo infatti al mio predecessore (il generale Cirneco) in un clima pesantissimo di accerchiamento nel quale sembrava che il futuro stesso della Specialità fosse in discussione. Tutti ci davano lezioni: politici, giornalisti, opinionisti, accavallatrici di gambe da talk-show e anche qualche nostro ex, che dal comodo PC di casa propria ci ”cazziava” per l’arrendevolezza di fronte alle critiche, per l’erba alta in caserma, perché non eravamo tosti come ai suoi tempi, per la caserma vuota nei fine settimana, perché eravamo carrieristi e non puri e duri come lui e così via. Ma tantissimi, soprattutto, non ci fecero mancare il loro supporto morale. Se non altro, sappiamo chi ringraziare e chi dimenticare.

Venendo al dunque, c’è innanzitutto da dare uno sguardo al contesto generale dell’epoca nella quale il fatto si inquadrava.

Dal Libano (1981-83) al successivo impiego dell’Esercito e quindi della Brigata fuori area (Nord Iraq, 1992) passò circa un decennio caratterizzato da un crescente interesse dei media nei confronti della realtà militare. Tale interesse venne ulteriormente enfatizzato con le operazioni in Somalia (1992-1994) e nei Balcani (dal 1996), nelle quali la Folgore recitò costantemente un ruolo di primissimo piano. Ciò nonostante, continuava a sussistere uno “zoccolo duro” pregiudizialmente ostile alla militarità in generale ed ai paracadutisti in particolare. Anzi, la maggiore visibilità che questi ottennero come conseguenza dei loro interventi in operazioni parve spingere ad una maggiore ostilità nei loro confronti da parte di questi quattro gatti rumorosissimi, favorita anche dalla comparsa all’onore delle cronache del fenomeno del nonnismo.

Improvvisamente, infatti, quel fenomeno vecchio di secoli – caratteristico in forme diverse di tutte le comunità giovanili – si prestò benissimo a circondare le Forze Armate e l’Esercito in particolare di un’aura torbida che seduceva l’opinione pubblica, indebolendo così le residue resistenze di chi cercava di opporsi ai tantissimi nemici del servizio militare obbligatorio.

Quindi, da fenomeno di devianza marginale e circoscritto alla truppa fu facile estenderlo, nel distratto e drogato immaginario collettivo, a tutta la realtà militare (inclusi i Quadri), quasi fosse caratteristico dell’Istituzione in sè, funzionale alla sua stessa operatività. Divenne, in breve, una vera e propria categoria dell’essere, espressione di un Male Assoluto che non era corretto discutere e, a maggior ragione, negare.

Venne così l’epoca delle “caserme aperte” nel disperato tentativo di far capire che i militari erano – in fin dei conti – esseri umani come gli altri e non brutali prevaricatori. Basta, quindi, con il “facite ‘a faccia feroce” del passato e, al fine di guadagnare i favori di una società che si percepiva lontana e distaccata, alle ortiche la marzialità!, via i pennacchi!, bando agli ottoni! e, soprattutto, nascondete le armi!

Furono gli anni degli Ufficiali processati e condannati per intemperanze verbali, i cosiddetti “cazziatoni”, che continuavano ad essere tranquillamente accettate in moltissimi altri ambienti lavorativi. Fu il periodo della messa alla berlina e della pubblica umiliazione di molti Comandanti, rei soltanto di essere esigenti nei confronti dei propri dipendenti e di pretendere la giusta applicazione e disciplina.

In un reparto del 5°Corpo d’Armata, un Comandante di battaglione si sentì addirittura spinto al suicidio, nel disperato tentativo di sottrarre se stesso, la sua famiglia ed il suo battaglione alla pressione alla quale erano stati sottoposti da parte dei media e dei propri superiori, militari e politici. Lo si accusava, infatti, del grave crimine di aver voluto far effettuare una marcetta di qualche chilometro ai propri soldatini, alcuni dei quali vennero attaccati, come conseguenza, dal terribile “morbo del fante”, la famigerata “bolla” (!!!) sulle delicatissime epidermidi dei piedini.  Ovvio che con i paracadutisti, con queste argomentazioni, era come andare a nozze!

Come non riconoscere, infatti, che soldati così eccentrici rispetto alla norma, per di più rassegnati alle bolle ai piedi, non dovessero per forza essere anche campioni nella pratica del nonnismo, appunto? Il fatto stesso che facessero leva sul coraggio personale e fisico nella selezione ed addestramento individuale suonava stonato e sospetto in una società che a queste caratteristiche voleva rinunciare a priori, negando ogni dignità alle classiche virtù militari che continuano invece ad essere oggetto di ammirazione in tutto il resto del globo (e che i nostri giovani continuano ad ammirare negli altri: potenza del provincialismo!).

Il soldato italiano, insomma, non poteva essere coraggioso e non doveva neanche provare ad emanciparsi da una supposta cialtronaggine elevata addirittura a valore aggiunto nazionale, da rivendicare. Che si accontentasse, invece, di trovare la sua più calzante rappresentazione nei militari arruffoni, meschini, furbastri e privi di scrupoli messi in scena dalla nostra cinematografia del dopoguerra; nessun Paese si è saputo fare del male come il nostro, in questo campo.

Quindi, eccola la spiegazione! I paracadutisti italiani sono tali non perché coraggiosi (e come potrebbero esserlo?) ma perché costretti con ogni mezzo, lecito ed illecito, da superiori privi di scrupoli. E, tra i mezzi illeciti, come non comprendere il nonnismo, pratica abbietta ed incivile, per spingere con le cattive i riluttanti a fare quello che con le buone non accetterebbero mai?

Era un teorema facile da sostenere e in quegli anni la Folgore, costantemente all’onore delle cronache per quello che faceva in operazioni, si confermava all’onore di altre cronache in guarnigione, per l’esclusiva che le veniva attribuita su un malvezzo che invece era come minimo condiviso dagli altri. Come minimo! Ma gli altri non “tiravano”.

Come reazione, si decise ingenuamente di non negare mai le accuse di nonnismo e di perseguire col massimo rigore ogni comportamento e ogni segno che, ancorchè superficialmente, potesse essere utilizzato quale prova dello stesso, anche se con lo stesso non aveva niente a che fare. D’altronde, i media che creavano l’opinone pubblica andavano per le spicce, e con essi non c’erano argomentazioni che tenessero, al di fuori della tesi voluta.

In questo contesto culturale si colloca quindi il “caso” Emanuele Scieri nel 1999. A ferragosto di quell’anno, infatti, un militare appena arrivato al CEAPAR venne trovato morto il lunedì mattina, oltre due giorni dopo la sua scomparsa all’interno della caserma Gamerra, in un’area di accumulo di materiali fuori uso. Verosimilmente, era caduto da una scaletta della Torre di Asciugamento dei paracadute sulla quale si doveva essere arrampicato per motivi non chiari. Sia l’evento in sé che l’inaccettabile ritardo della sua scoperta innescarono una situazione difficilissima da gestire che coinvolgeva tutto il personale della Gamerra, a prescindere da grado e ruolo.

La vittima era un aspirante paracadutista arrivato il giorno stesso in Caserma dal precedente reparto Addestramento Reclute di Firenze. Era un giovane siciliano, già laureato in legge, che aveva scelto di prestare il suo servizio militare nei paracadutisti dando ascolto al suo generosissimo carattere che lo aveva già spinto anche da studente ad avvicinarsi alla militanza politica.

Da quanto emerso dalle indagini successive, il giovane, dopo essere stato regolarmente in libera uscita nella sua nuova sede di Pisa il venerdì sera (13 agosto) con alcuni commilitoni, si appartò all’interno della Caserma quasi vuota per le licenze estive, pare per una telefonata, e da allora non se ne seppe più nulla fino al lunedì mattina (16 agosto), quando il suo cadavere venne casualmente trovato da due militari di corvée, alla base di una scala metallica dalla quale era evidentemente caduto.

Il caso mediatico, ovviamente, scattò subito.

A nulla valsero le prime ipotesi fatte dalla Magistratura e che sembravano escludere il fenomeno del nonnismo tra le cause dell’evento. I giornali, come precedentemente avvenuto in altre occasioni, avevano però già “capito tutto”  e spararono i loro corrispondenti a Pisa ad indagare.

Davanti alla “Gamerra” si stabilì così un vero e proprio “villaggio” di caravan dai quali giornalisti di tutte le testate, e di tutti gli orientamenti politici, mandavano giornalmente i loro resoconti alle rispettive redazioni, per il sollazzo della sudaticcia opinione pubblica nazionale, stesa ad arrostire sulle spiagge ferragostane. Praticamente tutti i militari della caserma vennero fermati ed intervistati ripetutamente, alla spasmodica ricerca di qualche elemento che potesse confermare la tesi voluta.

Di fatto, tale azione si trasformò in una fortissima pressione psicologica anche nei confronti della linea di comando dell’unità, che si trovò a fronteggiare contemporaneamente la necessità di fornire la massima collaborazione alla Magistratura senza però adottare atteggiamenti di chiusura nei confronti dei media che sarebbero stati interpretati sicuramente come un’assurda ma credibile ammissione di colpa.

Era facile, in un contesto del genere, fare qualche passo falso, così come era facile cedere alla tentazione di tentare di superare il problema con un atto analogo a quanto già fatto in precedenza, tagliando qualche testa, a prescindere da colpe e responsabilità.

E fu questo, appunto, quello che fu fatto, rimuovendo dall’incarico l’incolpevole Comandante del CEAPAR (generale Cirneco) ed il suo ottimo Vice (colonnello.Corradi), per quanto fosse chiaro che nulla avevano a che fare con il fatto né con il fenomeno che si supponeva all’origine del decesso e, anzi, fossero stati molto attivi, in precedenza, per contrastare e reprimere gli atti di prevaricazione tra militari.

Per questo e a questo punto entro in campo io.

Purtroppo, come noto, la pressione nei confronti del CEAPAR non scemò e, fino a settembre inoltrato, epoca nella quale i giornali tornano sulle più succose questioni della politica nazionale risorta dopo le “fatiche balneari”, per un lungo periodo tutte le prime pagine dei quotidiani nazionali riportarono le cronache, le ipotesi, le “rivelazioni” e i pettegolezzi del caso.

Relativamente alle “indagini giornalistiche”, la fantasia si insediò prepotentemente al potere e fioccarono le ipotesi e congetture più assurde, spesso spacciate come verità di fede. La tesi che praticamente tutti i media cercarono di accreditare, tralasciando di perorrere altre strade che probabilmente interessavano meno, fu quella di un atto di nonnismo sfuggito al controllo ed andato al di là delle intenzioni.

Tale atto, per questa tesi accusatoria, doveva essere una ritorsione nei confronti dell’allievo paracadutista Scieri colpevole di avere tenuto testa agli anziani durante il trasferimento in autobus da Firenze a Pisa. Secondo alcune voci, infatti, in tale occasione alcuni graduati avrebbero deciso di tenere i finestrini del mezzo chiusi ed il basco indossato, nonostante fosse agosto, comportandosi come la classica moglie che per fare dispetto al marito …. : negli stessi accaldatissimi autobus, infatti, viaggiavano pure loro. La tesi era piuttosto stiracchiata ma piacque moltissimo ai “lettori” e, per quanto i riscontri ne lasciassero trasparire l’inconsistenza o quantomeno l’esagerazione, fu considerata credibile.

Vennero, così, tentati collegamenti disparati e disperati con fatti degli anni precedenti, pescando senza scrupoli in tutta la casistica dei luoghi comuni più triti e si cercò di accreditare l’idea che la località nella quale venne trovato il cadavere del povero ragazzo fosse nota, nel passato, quale usuale teatro di atti di nonnismo ripetuti e violenti.

A pochi, al contrario, interessò il fatto che tale area non era stata da anni interessata ad atti del genere, sottraendola quindi automaticamente a quella che era la logica di tali azioni, basate sulla ieratica e quasi “liturgica” ripetitività di gesti e luoghi.

Quando il caso cominciò a scemare nell’interesse dell’opinione pubblica, venne adottato un espediente che, benché non avesse nulla a che fare con il fatto in sè, poteva servire a sollevare altre ondate di indignazione nei confronti dei paracadutisti. Il riferimento è al cosiddetto “Zibaldone”, una ingenua ed inopportuna raccolta di amenità varie utilizzata strumentalmente dai media per attaccare in prima persona il Comandante della Folgore, il generale Celentano, che come pochi si era impegnato nel contrasto di quel malcostume.

Si riproponeva, insomma, lo stesso modello applicato con successo con lo “scandalo Somalia” quando per riavvivare l’attenzione dei lettori stanchi delle cinque settimane filate di copertine monotematiche, si allegò a Panorama, il settimanale autore di quello scoop, una videocassetta priva di fatti rilevanti ma sufficiente a riaccendere l’antipatia verso i cattivissimi paracadutisti italiani.  Se si fosse trattato di una “fiction” e non della tragica e “vera” morte di un generoso giovane in circostanze sconosciute, ci sarebbe stato quindi da ridere del paradosso o da aprire un interessante “case study” per qualche Facoltà di Scienze delle Comunicazioni. Ma tant’è, e il gioco al massacro continuò indisturbato.

Intanto, i mesi passavano senza sostanziali novità! Di fronte a questo silenzio, quindi, ci fu chi non trovò di meglio che insinuare l’esistenza di pressioni che il Comando del CEAPAR avrebbe esercitato nei confronti dei militari al fine di far loro tacere quanto sapevano (la solita, vecchia, consolante storia dell’omertà dei paracadutisti).

Tanti, di conseguenza, attendevano con ansia il congedamento dei commilitoni di Scieri, nella certezza che, una volta alla larga dalle grinfie dei loro superiori, avrebbero detto quello che effettivamente sapevano, scoprendo il Vaso di Pandora delle bestialità folgorine.

Invece, niente! I ragazzi lasciarono il servizio e la Caserma dimostrando la stessa emozione e commozione di quanti li avevano preceduti e di quelli (pochi, ormai) che li avrebbero seguiti. Quando, la mattina dell’ultimo alzabandiera sfilarono  impettiti davanti al Comandante, dopo avere lasciato un mazzo di fiori anche sul luogo in cui Scieri era morto, tradirono chiaramente la nostalgia incipiente per la vita che stavano lasciando definitivamente e non mancarono di esprimere il solito e benedetto affetto per chi restava, commilitoni e superiori.

Di rivelazioni che confermassero la tesi fortemente voluta da tutti, invece, nessuna traccia, anche anni dopo il fatto, nonostante che il CEAPAR fosse stato tenuto a lungo sotto la lente d’ingrandimento della Magistratura Militare e Ordinaria, fosse stato oggetto di ripetute ispezioni ed indagini delle Forze dell’Ordine, nonché meta di visite di Commissioni parlamentari e parlamentari isolati.

In quel periodo, la Gamerra fu anche palestra di un interessante “spirito bipartisan” tra forze politiche contrapposte. Parlamentari dell’opposizione di allora, tra cui una futura Ministro del successivo Governo di centro destra, non ebbero problemi a farsi scortare in corteo dal centro di Pisa alla Gamerra da un folto gruppo di appartenenti ad un Centro Sociale cittadino con un largo striscione riportante “Omertà: roba da conigli” ed il disegno di un coniglio con un basco amaranto in testa.

Dalla compagnia di quei “disobbedienti” per vocazione, gli onorevoli non vennero messi assolutamente in imbarazzo. Non si dissociarono, non si allontanarono, non li allontanarono, sfilarono senza esitazioni con loro per la stessa strada. Entrati in Caserma, espressero il loro sdegno con le parole, con il broncio, con gli scuotimenti rassegnati della testolina. Non sentirono ragioni (né loro né i disobbedienti) e se ne andarono con l’aria schifata e con la certezza di averci dato una lezione di civiltà.

E’ da rimarcare come la stessa parlamentare sopracitata, da accusatrice di quei giorni si sia successivamente riciclata nell’ambito della commissione parlamentare, autorizzando quindi più di qualche dubbio sulla terzietà di quest’ultima.

Poco dopo questi avvenimenti la leva obbligatoria venne abolita con un provvedimento politico trasversale ai due schieramenti, con una coincidenza che desta qualche sospetto. In altre parole, la Repubblica italiana ha voluto emanciparsi dalla coscrizione obbligatoria per avere, col professionismo, maggiore efficienza, o ha semplicemente sperato in uno strumento più contratto, nell’illusione che costasse di meno? A vedere l’andamento dei finanziamenti per la Difesa in questi ultimi anni, paragonati a quelli degli altri Paesi e tenuto conto del nostro pesante impegno in molte operazioni “fuori area”, la risposta sembrerebbe scontata. Ma forse mi sbaglio.

In ogni caso, con la fine della leva tantissimi fustigatori a tempo pieno delle “perversioni” militari sono rimasti a bocca asciutta e il nonnismo è sparito velocemente dall’orizzonte, fatto salvo qualche sporadico ed ignorato ritorno di fiamma.

Paradossalmente, invece, la trasposizione in ambito “civile” del nonnismo è balzato successivamente agli onori della cronaca con il frequente riproporsi di episodi di “bullismo” nelle scuole dello Stato, dove irrefrenabili adolescenti minacciano e molestano altri compagni di classe incapaci di difendersi o, addirittura, impotenti e spaventatissimi insegnanti.

Questa circostanza la dice lunga sulla veridicità dell’equazione sostenuta da molti sedicenti intellettuali del passato, ma ancora pericolosamente in attività, che vedevano nell’anno di servizio militare un periodo di regressione educativa durante il quale il santarellino diventava un animale. E’ vero, magari, esattamente il contrario e c’è da chiedersi allarmati cosa ne sarà dei cittadini del domani, privati di quella scuola di uguaglianza, di educazione e di tolleranza che la vita in uniforme assicurava ai loro fratelli maggiori. Ma, a pensarci bene, ne stiamo già vedendo gli effetti.

 

Marco BertoliniVedi tutti gli articoli

Generale di corpo d'armata, attualmente Presidente dell'Associazione Nazionale Paracadutisti d'Italia, è stato alla testa del Comando Operativo di Vertice Interforze e in precedenza del Comando Interforze per le Operazioni delle Forze Speciali, della Brigata Paracadutisti Folgore e del 9° reggimento incursori Col Moschin. Ha ricoperto numerosi incarichi in molti teatri operativi tra i quali Libano, Somalia, Balcani e Afghanistan.

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