Quanto pesa l’arsenale strategico di Kim

da Il Mattino del 4 settembre 2017 (titolo originale“L’atomica come nminaccia. Perchè Kim non attaccherà”)

Il sesto test nucleare nordcoreano dimostra e conferma ciò che sostanzialmente è già ben noto ai nemici di Pyongyang e alla comunità internazionale.

Si è trattato della più potente esplosione sotterranea mai effettuata da quando le grandi potenze nucleari hanno rinunciato ad effettuare test in superficie o nel sottosuolo e dell’arma più potente mai fatta esplodere dal regime nordcoreano.

Se l’anno scorso vennero sollevati dubbi, soprattutto negli Usa, che il quinto test atomico di Pyongyang riguardasse davvero un’arma termonucleare (bomba H), in quel caso “in miniatura” per fini sperimentali, l’esplosione di ieri sembra aver sgombrato il campo da ogni incertezza.

Se a questo aspetto si aggiungono gli ultimi riusciti lanci di missili balistici e che da qualche mese l’intelligence statunitense ha rilevato la raggiunta capacità nordcoreana di miniaturizzare gli ordigni nucleari per installarli nelle testate dei vettori a medio e lungo raggio (intercontinentali), appare evidente che ormai Pyongyang è a tutti gli effetti una potenza atomica in grado di tenere sotto tiro quasi tutto il mondo.

I prossimi traguardi tecnici e operativi che Pyongyang presumibilmente perseguirà riguardano la produzione di un numero consistente di missili intercontinentali Hwasong 14 e lo sviluppo, già in atto, di missili a medo raggio (comunque con almeno 5 mila chilometri di raggio d’azione) imbarcabili sui sottomarini della classe Simpo uno dei quali (sperimentale) già in servizio.

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Questi due passaggi garantiranno alla Corea del Nord capacità simili, anche se su scala ridotta, a quelle delle grandi potenze. Nel primo caso potranno lanciare verso gli Usa o nemici altrettanto distanti un numero di missili sufficiente a saturare le difese oggi esistenti. Il programma statunitense National Missile Defense (il cosiddetto “scudo antimissile” costato finora oltre 40 miliardi di dollari) vede oggi disponibili una quarantina dei 200 missili intercettori previsti, basati a Fort Greely (Alaska) e nella base aerea di Vandenberg (California).

Armi in grado di intercettare i missili balistici nella fase di volo extra atmosferica, schierate proprio in funzione della minaccia nordcoreana, ma che in alcuni test hanno mancato il bersaglio e che non possono offrire la garanzia che nessun vettore nemico riuscirà a raggiungere il territorio statunitense, specie in caso di lanci simultanei di molti missili.

I diversi sistemi di difesa schierati dagli Stati Uniti intorno alla Corea del Nord comprendono i nuovi Terminal High Altitude Air Defence (Thaad) schierati dall’esercitoi n Corea del Sud e a Guam, i Patriot nelle versioni Pac-2 e Pac-3 basati in Giappone (e in dotazione anche alle forze nipponiche e sudcoreane) e gli Aegis con missili Standard Sm-2 e Sm-3 imbarcati sui cacciatorpediniere e incrociatori dell’Us Navy e che Tokyo vorrebbe installare anche a terra.

Strumenti che, messi a sistema, potrebbero forse intercettare un buon numero di missili a medio raggio di cui Pyongyang ha però una disponibilità tale da rendere forse impossibile fermarli tutti. Aspetto non irrilevante se si parla di armi dotate di testate atomiche che potrebbero venire lanciate verso Guam o il Giappone.

Impossibile anche intercettare le centinaia di missili a corto raggio (derivati dai sovietici Scud) dotati di un raggio d’azione compreso tra 150 e 900 chilometri che potrebbero venire lanciati verso la Corea del Sud saturando ogni possibilità di difesa e ai quali potrebbero aggiungersi centinaia di cannoni e razzi pesanti schierati sul confine del 38° Parallelo in grado di impiegare testate chimiche colpendo obiettivi fino a 70 chilometri di distanza.

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Nel secondo caso, grazie ai missili con testata nucleare imbarcati sui sottomarini, i nordcoreani potranno mantenere una credibile capacità di rappresaglia nucleare anche nel caso che un attacco preventivo scatenato dagli Stati Uniti e dai loro alleati distruggesse missili e testate basati a terra. Si tratta dello stesso principio di deterrenza su cui si basano le flotte di sottomarini con missili a testata atomica in dotazione alle flotte statunitense, russa, britannica, francese e cinese, o il nuovo Arihant in costruzione per la marina indiana.

La Corea del Nord, come tutte Le potenze atomiche, si è dotato di armi di distruzione di massa non per scatenare un’apocalisse globale ma per garantire la sopravvivenza del suo regime grazie a una solida deterrenza che scoraggi iniziative militari statunitensi come quelle che hanno abbattuto i Talebani in Afghanistan, Saddam Hussein in Iraq e Muammar Gheddafi in Libia.

Non è un caso che i programmi strategici nordcoreani abbiano avuto una impressionante accelerazione dal 2002, dopo che George W. Bush (sull’onda delle iniziative varate dopo l’11/9) inserì la Corea del Nord nel cosiddetto “Asse del Male” che raggruppava gli “stati canaglia” contro cui muovere guerra per rovesciarne i regimi.

Tratteggiare gli aspetti tecnici e strategici di un eventuale confronto militare non significa però considerare che la guerra sia imminente o inevitabile. Anzi, paradossalmente è vero il contrario. Il test atomico di Kim Jong-un ci ricorda che questa crisi non si può risolvere con la guerra e che, semmai, chi dovesse scatenarla sarebbe condannato a perderla.

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E’ infatti evidente che se Pyongyang andasse oltre le provocazioni conducendo un attacco con armi di distruzione di massa giustificherebbe una risposta talmente devastante e immediata che cancellerebbe la Corea del Nord dalle carte geografiche e minaccerebbe di dare il via a un confronto militare tra Cina e Usa.

Al contrario se Washington scatenasse un attacco preventivo contro gli arsenali di Pyongyang, come quello ventilato il mese scorso dal consigliere per la sicurezza nazionale H.R. McMaster, la rappresaglia nordcoreana mieterebbe un numero spaventoso di vittime in Corea del Sud e forse anche in Giappone.

Neppure Donald Trump può permettersi di “fare il duro” a spese dei suoi alleati asiatici senza compromettere il ruolo di Washington in tutta l’area del Pacifico, facendo così un gigantesco regalo a Pechino che da tempo cerca di imporsi come potenza regionale, stabilizzatrice quanto egemone.

Foto KCNA e Yonhap

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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