Immigrazione, sicurezza, Onu: strategie e progressi al vaglio

L’inversione di tendenza riguardo alla insostenibile ricettività di flussi migratori fuori controllo, diretti quasi esclusivamente verso l’Italia (e la Grecia) anche per le sciagurate intese della operazione Triton, c’è stata con risultati difficilmente contestabili. Permane tuttavia l’incognita di una situazione fragile, instabile, suscettibile di possibili involuzioni.

Da parte italiana si è reagito concretamente alla critica emergenza con inusuale determinazione ma solo negli ultimi mesi, mettendo in atto una strategia pragmatica frutto dell’iniziativa di un ministro degli Interni, Marco Minniti, finalmente competente, impegnato sul campo al servizio dello Stato e dei connazionali in prima battuta. Completamente opposti l’atteggiamento e i risultati conseguiti rispetto al suo predecessore, attualmente ministro degli Esteri non esattamente di alto profilo internazionale.

In generale qualità quali competenza e professionalità che dovrebbero essere scontate in esponenti governativi, emergono quasi come anomale in amministrazioni abituate da anni, per convenienze nel breve termine e supposti sostegni internazionali, ad appoggiarsi quasi acriticamente sul multilateralismo, perfino nella difesa dei pochi interessi nazionali non negoziabili.

La lezione da trarre dalle recenti crisi internazionali, dal dramma epocale delle migrazioni, dall’incapacità operativa di Onu e Ue sembra proporre al contrario una lettura diversa, il rafforzamento delle istituzioni internazionali e degli interventi multilaterali avviene, purtroppo ma è un dato di fatto, su sollecitazione di Stati attivi anche nel bilaterale, decisi nella tutela, senza subalternità, di interessi nazionali nel rispetto di accordi internazionali sottoscritti. Delegare, rinviare decisioni in settori sensibili, attendere l’avallo di istituzioni multilaterali in cambio di sostegni e coperture si è dimostrato controproducente socialmente, economicamente se non deleterio per la credibilità internazionale dello Sato stesso.

 

Sicurezza e Onu. Il terreno è il fattore decisivo.

Dall’ultima assemblea generale dell’Onu, accantonate parate protocollari ad uso scenografico, si possono trarre alcune annotazioni interessanti.

La burocrazia eccessiva, deleteria, paralizzante dell’istituzione internazionale sembra vada finalmente ritoccata in maniera chiara e perentoria con una riforma urgente e improcrastinabile. La speranza esce rafforzata da un intervento deciso in tal senso, senza possibili ambiguità di comprensione, del Presidente Trump. Gli USA contribuiscono al bilancio globale per oltre il 25%. Molti Paesi si sono accodati senza distinguo, segno dell’auspicata svolta. L’Onu dovrà dimostrare più capacità di azione sul terreno nella prevenzione e soluzione dei conflitti snellendo il mastodontico apparato.

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Sotto l’impulso della presidenza repubblicana USA, per quanto la si voglia criticare, si è parlato chiaro perfino all’Assemblea Generale, la cosa non accadeva da tempo, segno che in determinati periodi storici una ciclica presidenza repubblicana USA porta alleati e non a posizionamenti meno ambigui sulle questioni di rilievo globale. Un fattore potenzialmente positivo quando le crisi impongono forti accelerazioni nella ricerca di soluzioni pragmatiche.

Terrorismo, instabilità, migrazioni incontrollate, disparità, difesa dei diritti umani sono battaglie che si vincono sul terreno con più competenze, coordinamento operativo, risorse umane e finanziarie adeguate, determinazione, piuttosto che con demagogie, reticenze e immobilismo burocratico.

In Libia uno sforzo più attivo, produttivo e risoluto è stato richiesto all’Onu, inizialmente per il tramite operativo delle sue Agenzie, Alto Commissariato per i rifugiati e agenzie collegate come l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, OIM. La tempistica resterà tuttavia subordinata alla sicurezza da garantire agli operatori Onu, ai finanziamenti da parte degli Stati membri, Italia in prima linea, alle condizioni del terreno.

 

Più ombre che luci per l’Italia

Se da un lato il nostro Paese sembra essersi risvegliato bruscamente dopo una lunga parentesi di eccessiva prudenza diplomatica nel segno del sostegno alle mediazioni Onu, generatrice peraltro di intrusioni non coordinate e schiaffoni presi da Paesi vicini e alleati, e abbia ripreso ruolo che gli compete e iniziativa in Libia, dall’altro non può certo contare su una maggiore benevolenza dei partner interessati principalmente agli affari loro o adagiarsi nuovamente sul multilateralismo Onu, da anni fallimentare nei negoziati e nei risultati in quel contesto.

In attesa di sviluppi più positivi va segnalato che il nuovo Rappresentante speciale del Segretario generale Onu in Libia è Ghassam Salamé, professore libanese con studi alla Sorbona e presidente della scuola studi internazionali di Parigi. Una scelta certamente non ostacolata da Parigi e, viene da pensare, nemmeno frutto vincente della nostra azione diplomatica in sede Onu. Il discorso del nostro premier all’Assemblea Generale, e l’appello, più deciso del solito, a un ruolo finalmente operativo dell’Onu in Libia, soprattutto nel controllo delle condizioni dei migranti e dei diritti umani, è stato formalmente giusto nei toni ma in sostanza non dovrebbe implicare una riduzione dell’incisività dell’azione bilaterale e di coordinamento italiana.

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Va ricordato che all’Italia è stato affidato il coordinamento dell’azione dei Paesi G7 in Libia. Nel caos libico come nel contesto dell’Africa subsahariana ad esso collegato per le migrazioni incontrollate e i traffici di tutti i tipi gestiti da pericolosi gruppi terroristici, la strategia vincente si gioca sul terreno.

Rispetto e credibilità, fattori vincenti fra tribù e etnie del deserto, vanno conquistati e mantenuti attraverso incontri con tutti gli interlocutori parte in causa, che siano appoggiati in sede Onu o meno, recandosi spesso sotto la tenda, negoziando e gustando il tè alla menta, utilizzando, valorizzando al meglio risorse umane capaci ed esperte di quei territori e di quegli usi assieme ad indispensabili interventi di cooperazione bilaterale civile e militare.

Passi avanti si faranno se l’Italia riuscirà a mantenere un’azione inclusiva e continua sul terreno, decisa, quindi credibile. Vanno consolidate le ultime iniziative intraprese, così come il dialogo formale o meno con il generale Haftar, interlocutore irresponsabilmente sottovalutato fino a poco tempo fa da rappresentanti incapaci dell’Onu ma non da Francia e Regno Unito in funzione antitaliana. Questa è la realtà poco paludata a cui bisogna far fronte sul terreno.  Superfluo ricordare gli interessi italiani e libico-italiani, minacciati dalla instabilità, dal terrorismo e dalla competizione di Paesi alleati quali Francia e Regno Unito principali responsabili della instabilità dell’area.

 

Visione, comunicazione, riflessioni

I tempi difficili e le crisi regionali mai così complesse, richiedono, a modesto avviso di chi ha passato oltre un ventennio vivendo e operando nelle aree di crisi subsahariane e mediorientali, più che mai una visione strategica ad ampio raggio sul medio (e lungo) termine piuttosto che risposte ad hoc, per quanto efficaci, alle emergenze del breve termine.

Sarà forse l’arduo compito di un prossimo esecutivo far riacquistare al nostro Paese il ruolo internazionale che compete nei fatti, al di là di parole e complimenti per lo più strumentali di alleati e UE, ad una media potenza, terza nella UE, comunque determinante nel contesto Mediterraneo, Nord Africa, Sahel, vicino e Medioriente.

Un cambio di rotta con passato e presente sarebbe ad esempio, sviluppare concretamente un’azione determinata e continua nel tempo per incrementare sostanzialmente le presenze italiane negli organismi internazionali a partire dai livelli medio alti.

Libya's UN-backed Prime Minister-designate, Fayez al-Sarraj, flanked by members of the presidential council, speaks during a press conference on March 30, 2016 in the capital Tripoli. Fayez al-Sarraj arrived in Tripoli following months of mounting international pressure for the country's warring sides to allow him to start work. / AFP PHOTO / STRINGER

Portare avanti una strategia del personale che rifletta perlomeno quanto spetterebbe al nostro Paese per importanza e contributi erogati. Inutile nasconderlo, la nostra modesta rilevanza è anche conseguenza dello scarso peso decisionale del personale italiano in sede Onu e perfino UE dove le posizioni direttive, a parte quelle apicali, dovrebbero rispettare quota per Stati membri in funzione di importanza del Paese e dei contributi finanziari al bilancio UE. Da anni questo grave handicap è persistente.

Inutile evocare le strategie perseguite con successo da decenni da francesi, britannici, tedeschi, spagnoli, scandinavi, indiani, pakistani, senegalesi. Inserire e promuovere personale è questione strategica per quei Paesi, per noi non lo è nei fatti, ancora oggi prevale un’azione arcaica e burocratica dei nostri terminali diplomatici presso i principali organismi internazionali.

I dati su ruoli e presenze negli organigrammi internazionali ne sono testimonianza impietosa. Nelle organizzazioni internazionali civili siamo costantemente sottorappresentati, poco influenti senza segnali di miglioramento anzi con tendenza al peggioramento da almeno un decennio. Migliore resta la situazione nel settore militare, ambito NATO, dove però vi sono le rotazione dei comandi e delle posizioni per cui prima o poi toccherà a un italiano.

Per rispondere pragmaticamente alle crisi regionali sarebbe forse opportuno creare una task-force civile militare multidisciplinare formata al lavoro di squadra con personale di provata esperienza internazionale, lavoro comune e pronta all’impiego sul campo nella prevenzione, nella preparazione e nella prima gestione degli interventi italiani nelle crisi.

Messo da parte l’approccio demagogico, nelle maggiori crisi conflittuali e post conflittuali il giusto e sacrosanto intervento di cooperazione e aiuto civile non può essere compiutamente attuabile ed efficace senza una cornice di sicurezza garantita dai militari.

Le lezioni del recente passato non mancano, andrebbero forse studiate meglio. Del resto l’Italia proprio nella cooperazione civile militare, CIMIC, eseguita brillantemente dalle nostre forze armate nelle aree di crisi è considerata modello da imitare. Si tratterebbe ora di integrare al meglio la componente civile per gli interventi di sviluppo a medio lungo termine e di negoziato con le autorità locali.

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Sono tanti i crediti che dovremmo riscuotere a livello internazionale frutto della qualità del lavoro delle nostre Forze Armate e degli interventi civili, purtroppo non valorizzati adeguatamente da una seria azione governativa, da un lavoro di squadra creativo capace di superare compartimenti stagno, rivalità e diatribe ministeriali, da un uso effettivo di meriti e competenze almeno nel contesto della nostra proiezione internazionale.

L’ eventuale nomina di un inviato speciale per il Sahel, non è una novità per altri Paesi, da parte della Presidenza del consiglio permetterebbe di garantire una presenza italiana continuativa sul campo e in paesi del gruppo G5 come Mauritania e Mali ad esempio dove non è presente una nostra ambasciata. Fungerebbe da raccordo con autorità locali, Paesi attivi nell’area, organismi internazionali a cui finanziamo importanti programmi, acquisirebbe un bagaglio di conoscenze dirette e informazioni aggiornate, elementi indispensabili nella preparazione ed esecuzione di azioni governative.

La nomina dell’incaricato dovrebbe evitare anche le possibili rivalità fra i principali ministeri coinvolti (Esteri, Interni e Difesa) assicurando informazione unificata e ove richiesto il coordinamento al servizio delle istanze dei tre dicasteri.  L’inviato designato, con comprovata esperienza internazionale, di vita e lavoro nell’area, garantirebbe infine un ruolo italiano attivo nei processi decisionali regionali e nelle relative riunioni preparatorie.

Infine la messa a punto di una comunicazione appropriata e coordinata, tenuta al rispetto del ruolo e non solo alla visibilità di questo o quel ministro in modo da evitare confusione di dichiarazioni spesso inopportune o dannose reticenze quando è invece tempo di comunicare rispettando l’opinione pubblica e l’informazione.

In attesa di una vera svolta di mentalità, impiego appropriato delle competenze, approccio più determinato nel consesso internazionale, appare opportuno porre alcuni elementi di riflessione immaginando una rotta più operativa per il nostro Paese, adattata ai tempi, alle crisi, alle sfide nuove e complesse cui far fronte con dignità. E ricacciare definitivamente indietro i tempi della politica “dello strapuntino” quando per l’Italia contava quasi esclusivamente la presenza, per lo più silente, nei consessi internazionali, anche su uno strapuntino per l’appunto pur di esserci.

Foto: AP Frontex, Libya Herald, Archivio AD e AFP

E' uno dei maggiori esperti italiani di operazioni internazionali di stabilizzazione, peacebuilding, cooperazione e comunicazione nelle aree di crisi. Dagli anni 80 ha ricoperto incarichi di responsabilità crescenti per l’Onu, la UE e il Ministero degli Esteri in Africa (13 anni), Medio Oriente e Balcani. Specialista di negoziati complessi, è stato Sindaco Onu in Kosovo della città mista di Kosovo Polje dal 1999 al 2001, ha guidato, primo non americano, il PRT di Nassiriyah in Iraq nel 2006 ed è stato Portavoce e Capo della comunicazione della missione europea di assistenza antiterrorismo EUCAP Sahel Niger fino al 2016. Destinatario di un’alta onorificenza presidenziale Senegalese, per l’editore Fermento ha scritto "Alla periferia del Mondo". Scrive su riviste specializzate ed è un apprezzato commentatore per radio e tv.

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