La situazione in Kosovo: intervista al comandante di K-FOR

Il Kosovo è tornato al centro dell’interesse della Ue e della Nato non solo per la mai risolta crisi balcanica ma soprattutto per il fenomeno della radicalizzazione islamica. Analisi Difesa ha fatto il punto della situazione con il comandante della K-FOR, lo strumento dell’Alleanza Atlantica schierato nella ex provincia serva dal 1999, guidato da poco più di un anno dal generale di divisione Giovanni Fungo.

Quale bilancio dopo un anno di comando alla guida di K-FOR XXI?

“Trust and Commitment”, il motto che ha contraddistinto il mio periodo alla guida della missione riassume l’approccio operativo che ho voluto intraprendere, basato sulla vicinanza e sul dialogo con la popolazione locale e con tutte le istituzioni regionali che, a qualsiasi titolo, hanno delle competenze legate alla sicurezza e alla libertà di movimento delle comunità.

Difficile tracciare una linea e parlare di bilanci. I risultati sono legati alle percezioni che la gente prova in termini di maggiore sensazione di sicurezza e di stabilità. In tal senso abbiamo affrontato e vinto molte sfide, in piena sinergia con le altre organizzazioni internazionali presenti in Kosovo. Tuttavia, nonostante ciò, il Kosovo deve ancora affrontare e risolvere problemi importanti,  che vanno dall’elevato tasso di disoccupazione alla crescente radicalizzazione religiosa, all’instabilità generalizzata dei Balcani Occidentali. K-FOR è stato protagonista più che mai e se vogliamo semplificare possiamo dire che ha contribuito da protagonista alla determinazione di una situazione stabile ma ancora fragile.

Come valuta l’evoluzione del Kosovo dal 1999 ad oggi?

Nel 1999, all’indomani del conflitto, il Kosovo era fortemente instabile. La situazione era tale da imporre una presenza capillare sul territorio, cosi come stabilito dalla risoluzione ONU 1244, con K-FOR che garantiva sicurezza e libertà di movimento per tutti, mentre la missione ONU (UNMIK) si sostituiva alla struttura amministrativa e sociale della regione.

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K-FOR schierava all’epoca circa 55.000 militari. Dopo 18 anni di costante impegno della NATO e delle altre istituzioni internazionali, con l’Unione Europea in testa, ci troviamo di fronte a istituzioni che sono in grado di funzionare e di garantire la sicurezza e l’ordine pubblico oltre alla libertà di movimento. Funzioni che all’inizio erano totalmente devolute alla Nato e che ora K-FOR, con circa 4.000 unità, continua a sostenere ancora nell’ambito nella cornice giuridica della Risoluzione 1244 delle Nazioni Unite, mai modificata.

Nel corso degli anni, gli incidenti inter-etnici sono diminuiti significativamente e, oggi, solo il sito del Monastero ortodosso di Decane continua ad essere vigilato direttamente dai militari di K-FOR, mentre gli altri siti religiosi della Chiesa Serbo-Ortodossa, che erano considerati a rischio, sono ora protetti della polizia kosovara. Anche la sicurezza delle aree a maggioranza serba è notevolmente migliorata. Parallelamente è aumentato il livello di integrazione dei serbi del Kosovo nelle organizzazioni di sicurezza locali. In ognuno di questi contesti, il ruolo svolto da K-FOR è stato e resta fondamentale, anche nella delicata attività di monitoraggio delle aree di confine.

Quanto è ancora attuale e necessaria la presenza di K-FOR?

Ambiente sicuro e libertà di movimento sono condizioni essenziali per offrire un futuro alle grandi sfide che il Kosovo sta affrontando. Mi riferisco ad esempio allo sviluppo economico del territorio che chiede stabilità per poter prosperare. Senza sviluppo economico continueranno ad esistere nel paese quelle sacche di disagio sulle quali proliferano le problematiche interetniche e di sicurezza che ancora affliggono la regione. Da qui l’essenziale attualità che ancora connota la missione.

Del resto i Balcani Occidentali rappresentano una cerniera fondamentale tra Ovest ed Est. Una eventuale profonda instabilità all’interno del Kosovo potrebbe favorire ulteriormente, ad esempio, il processo di radicalizzazione religiosa, che è già presente ma contenuto entro limiti per ora accettabili. Garantendo sicurezza alla regione si proietta stabilità non solo all’area balcanica ma anche resto dell’Europa. Ne deriva che il ruolo di K-FOR continua ad essere fondamentale per tutelare la sicurezza delle nazioni europee. A riprova della convinzione dell’attualità della missione il fatto che ben 29 nazioni, di cui 8 non NATO, contribuiscono con proprio personale alla struttura di K-FOR.

Quali percezioni emergono dal contatto con la popolazione?

Il modello che abbiamo strutturato è frutto della conoscenza ed esperienza acquisita direttamente sul terreno in termini di cultura e comprensione delle dinamiche amministrative e sociali locali, che in Kosovo sono spesso totalmente diverse da un comune all’altro.

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La capacità degli LMT (Liason Monitoring Team), piccole pattuglie leggere in cui si articolano i JRD, i Joint Regional Detachment, è di riuscire, con la loro presenza, a garantire un flusso informativo costante sull’azione amministrativa delle municipalità e sulle condizioni di sicurezza e libertà di movimento delle comunità.

A me piace definirli come “assistenti sociali militari” in quanto si interfacciano ogni giorno sia con gli amministratori locali sia con la popolazione per tastare il polso della situazione, valutare le dinamiche socio-economiche e di sicurezza e rispondere alle esigenze reali della gente, facendo da tramite tra due mondi spesso purtroppo ancora distanti, i bisogni concreti degli abitanti e l’azione amministrativa sul territorio.La percezione che deriva da questi continui contatti è che la missione K-FOR sia ancora di estrema attualità e necessità, con l’aspetto sicurezza che funge da collante per lo sviluppo e la normalizzazione..

 Qual’è la percezione della presenza di estremisti islamici ed elementi legati a gruppi terroristici ?

La cronaca ha dato, negli scorsi anni, ampio risalto all’elevato numero di foreign fighters provenienti dal Kosovo. Le Istituzioni locali tuttavia, con il sostegno delle organizzazioni internazionali, hanno rapidamente definito ed approvato una serie di leggi che consentono alle strutture kosovare di contrastare efficacemente il fenomeno.

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Tutto ciò ha permesso, anche grazie al favorevole andamento delle operazioni della coalizione anti – ISIS, di azzerare il flusso di foreign fighters in uscita dalla regione.

L’attenzione è ora concentrata sui processi di de-radicalizzazione a cui vengono sottoposti coloro che tornano legalmente in Kosovo. Dalla fine del 2016, in particolare, sono stati sviluppati programmi specifici nell’ambito della società civile dedicati al reintegro degli ex combattenti. Il problema contingente, invece, riguarda i tentativi di radicalizzazione rivolti, attraverso offerte di denaro, alla popolazione di religione musulmana che storicamente non ha mai dato segni o mantenuto una condotta sociale estrema o radicale.

Il reddito pro capite medio che in Kosovo consente ad una famiglia di quattro persone di vivere si aggira sui 450 / 500 Euro al mese. Scendere al di sotto di questa soglia significa entrare in una situazione di disagio e povertà che agevola l’intervento di chi offre denaro in cambio di “comportamenti”, come imporre il velo a mogli e figlie o avviare i figli alla frequentazione di strutture religiose radicalizzate. Se questa azione viene ripetuta su grandi numeri, ad esempio, qualche migliaio di persone, è statisticamente inevitabile che almeno una minima quota ceda e si radicalizzi.

Foto K-FOR e NATO

 

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