Medio Oriente: se esplode anche il Kurdistan
Continuano a moltiplicarsi i segnali di una possibile svolta militare dopo la scontata vittoria (93%) dei sì al referendum per l’indipendenza tenutosi il 25 settembre in Kurdistan, regione con ampia autonomia all’interno della federazione irachena che punta a raggiungere la piena sovranità agognata da decenni.
L’ultimo allarme per l’escalation della crisi è giunto ieri dall’ultimatum lanciato ieri del premier iracheno, Haidar al-Abadi, che intima alle autorità curde di Erbil di riturare i peshmerga da Kirkuk e dai tre pozzi circostanti la città in mano ai curdi entro le 2 di notte di domani, 15 ottobre.
Abadi pretende la completa restituzione alla sovranità di Baghdad dell’area di Kirkuk, che i curdi hanno occupato nel giugno 2014 dopo la fuga precipitosa delle divisioni irachene che la presidiavano davanti all’avanzata dell’Isis ma che hanno poi difeso per oltre tre anni contro le offensive del Califfato senza rinunciare alla “pulizia etnica” nei confronti di molti abitanti arabi e turcomanni.
Truppe regolari irachene e uomini delle unità paramilitari sciite hanno occupato alcuni villaggi abbandonati a sud della città dai peshmerga che restano però pronti a combattere con i 10 mila uomini schierati a Kirkuk. .
“Se gli iracheni dovessero muovere nella nostra direzione daremo loro una lezione che non potranno mai dimenticare”, ha dichiarato il comandante dei peshmerga nella zona ovest di Kirkuk, Kamal Kirkuky, nel corso di una conferenza stampa. “Non ci ritireremo dalle nostre posizioni e siamo pronti a qualsiasi confronto”, ha aggiunto all’agenzia Dpa.
Il segretario alla Difesa americano Jim Mattis ha detto ieri che Washington sta lavorando per ridurre le tensioni tra le forze federali e le forze curde irachene, esortandole entrambe a rimanere concentrati sulla guerra contro i jihadisti.
Mercoledì scorso la tv Rudaw, vicina al governo curdo di Erbil, aveva riferito riferendo dell’arrivo a Baghdad del generale iraniano Qasem Suleimani, comandante della Forza al Quds del corpo dei Pasdaran che è stato finora l’artefice della campagna condotta contro lo Stato Islamico per la riconquista dei territori iracheni.
Suleimani è stato più volte a Baghdad per pianificare le operazioni delle truppe e delle milizie scite irachene contro le forze del Califfato fin da quando, nell’agosto 2014, tre reggimenti di pasdaran impedirono alle milizie jihadiste di raggiungere la capitale irachena.
Questa volta il generale iraniano sarebbe giunto in Iraq per mettere a punto l’attacco a Kirkuk, città al centro di una ricca regione petrolifera abitata da una popolazione composta da turcomanni, curdi e arabi ma presidiata dai peshmerga curdi, che hanno impedito in questi anni all’Isis di occuparla ma al tempo stesso sono accusati di aver allontanato arabi e turcomanni con un’operazione di pulizia etnica.
I timori di un attacco alla città, che aprirebbe un conflitto tra iracheni e curdi prima ancora che venga annientato lo Stato Islamico, sono stati espressi anche da Zalmay Khalilzad, ex ambasciatore statunitense in Afghanistan e presso le Nazioni Unite. Ieri i curdi hanno inviato 6mila rinforzi in città e davano per imminente un’offensiva irachena decisamente smentita da Baghdad le cui truppe hanno recentemente liberato la città di Hawija dall’Isis più con l’obiettivo di acquisire postazioni idonee per attaccare da sud ovest Kirkuk che a sconfiggere le milizie del Califfato che in quell’area erano deboli e da tempo accerchiate.
L’improvvisa priorità attribuita da Baghdad alla liberazione di Hawija, ritardando così la prevista offensiva lungo la fascia di confine con la Siria dove si combatterà presumibilmente l’ultima grande battaglia contro l’Isis, lascia intendere che la priorità ora sia contrastare, anche con le armi, l’indipendentismo curdo.
Il primo ministro iracheno, Haidar al-Abadi, aveva già in più occasioni affermato di non volere un confronto militare con Erbil pur ribadendo che “l’autorità federale deve prevalere”.L’impressione è che l’Iran, la cui influenza su Baghdad è sempre più forte, prema per un’iniziativa militare contro i curdi, anche limitata a Kirkuk, che invece il governo iracheno vorrebbe evitare o posticipare a dopo la conclusione della guerra contro l’Isis costata solo nella battaglia di Mosul circa 1.500 caduti e 8mila feriti all’esercito di al-Abadi.
La tensione sul terreno resta alta: mercoledì i curdi hanno istituito posti di blocco, poi rimossi, sulle strade che da Mosul conducono in Kurdistan, nel timore che il concentramento di milizie scite in quell’area preludesse a un attacco.
Dopo il referendum le autorità di Erbil hanno cautamente preso tempo prima di proclamare l‘indipendenza e hanno indetto elezioni parlamentari e presidenziali per il primo novembre prossimo. Saranno probabilmente la nuova presidenza (il mandato dell’attuale presidente della regione autonoma curda, Massud Barzani, è scaduto da due anni) e il nuovo parlamento a decidere se proclamare l’indipendenza o “congelare” l’esito del referendum.
Un contesto in cui Baghdad, Teheran e Ankara non lesinano le pressini economiche e militari. Dopo le esercitazioni congiunte iraniano-irachene e turco-iraniane effettuate nei giorni scorsi ai confini del Kurdistan, Ankara ha minacciato di intervenire se i curdi lederanno i diritti della minoranza turcomanna a Kirkuk.
Teheran ha bloccato gli scambi petroliferi e di carburante con i curdi, Baghdad riaprirà il vecchio oleodotto Kirkuk-Ceyhan per esportare il suo greggio in Turchia senza attraversare il Kurdistan bloccandone di fatto l’export petrolifero. Il governo iracheno ha interdetto lo scalo aereo di Erbil ai voli internazionali, ha chiesto a Turchia e Iran di chiudere i confini con la regione curda e sta assumendo il controllo degli operatori di telefonia mobile Korek e Asiacell, che hanno le loro sedi in Kurdistan, con l’intento di poter isolare la regione anche sul fronte delle comunicazioni.
Il parlamento curdo non si è fatto intimorire assicurando che il referendum non rappresenta una minaccia per la sicurezza di alcun Paese ma precisando che i peshmerga proteggeranno le aree che venissero minacciate.
Dopo aver resistito quasi da soli all’offensiva dello Stato Islamico difendendo con l’aiuto della coalizione Erbil e Kobane, i curdi rischiano quindi di veder soffocate ancora una volta le loro aspirazioni all’indipendenza. Sul piano militare non potrebbero resistere a un attacco congiunto turco-iraniano-iracheno ma è evidente che un’invasione del Kurdistan sancirebbe l’inizio di una lunga insurrezione curda su scala regionale che allargherebbe la destabilizzazione in atto in Medio Oriente.
Del resto l’indipendenza dei curdi d’Iraq alimenterebbe le stesse aspirazioni tra i curdi di Siria (che hanno già votato unilateralmente l’autonomia da Damasco), Iran e Turchia.
Sviluppi inaccettabili per Ankara, ormai ai ferri corti con gli Usa per l’appoggio fornito alle milizie curde siriane che combattono l’Isis e contrastano l’avanzata dell’esercito di Bashar Assad.
Decisamente ostile anche l’Iran che ha al suo interno una nutrita minoranza curda e soprattutto Iraq e Siria, che vedono oggi seriamente compromessa l’unità nazionale. Non è un caso che l’unico fan dell’indipendenza curda sia Israele, cui non dispiacerebbe un indebolimento della Turchia e dell’Asse scita (Iran, Iraq e Siria).
Washington ha criticato ufficialmente il referendum per l’indipendenza ma sarebbe sorprendente se i curdi avessero tentato una mossa così azzardata senza il supporto dei loro “protettori” americani che, come molti membri della Nato (Italia inclusa), in Kurdistan schierano truppe e mezzi per la lotta all’Isis.
Washington ha puntato molto, specie sul piano militare, sul supporto ai curdi in Iraq e Siria e una guerra scatenata contro gli indipendentisti dagli Stati confinanti danneggerebbe gli interessi degli Stati Uniti rischiando di estrometterli dal quel settore del Medio Oriente.
Foto: AFP, AP, Reuters e EPA
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.