Migranti!? Migranti!? Migranti!?
Un libro rigoroso, scevro da ideologie e pregiudizi, che in un pugno di pagine ricche di dati, dettagli e analisi spiega chi e perché cerca di venire in Europa utilizzando i canali della criminalità organizzata. Si tratta soprattutto di un libro che smonta luoghi comuni e propaganda “buonista” di chi, con i nostri soldi, ha spalancato le porte dell’Italia e dell’Europa all’immigrazione illegale e alla penetrazione islamica.
Gianandrea Gaiani
L’Intervista ad Anna Bono di Libero Quotidiano
Tracciare l’identikit dell’immigrato che arriva in Italia attraverso il Mediterraneo vuol dire confutare parecchi luoghi comuni. Ha i titoli (e il coraggio) per farlo Anna Bono, dodici anni di studi e ricerche passati in Kenya, già docente di Storia e Istituzioni dell’Africa all’Università degli Studi di Torino, recente autrice del saggio Migranti!? Migranti!? Migranti!? edito dalla friulana Segno.
Da dove partono gli immigrati che sbarcano nel nostro Paese?
«Soprattutto dall’Africa subsahariana, in particolare dall’Africa Occidentale. Nigeria in testa, seguita da Senegal, Ghana, Camerun e Gambia. Africa a parte, un numero consistente viene da Bangladesh, Afghanistan e Pakistan. Siriani e iracheni in fuga dalla guerra sono una minoranza».
Si può farne un ritratto?
«Quasi il 90% sono maschi, hanno perlopiù dai 18 ai 34 anni, con una percentuale importante di minorenni (stando almeno alle dichiarazioni al momento dell’ arrivo). E viaggiano da soli. Pochissime sono le famiglie, a differenza di quanto accade per siriani e iracheni».
Quali sono le loro condizioni economiche?
«Per affrontare un viaggio clandestino – clandestino, va precisato, dalla partenza all’arrivo, e non soltanto nell’ultimo tratto via mare – bisogna affidarsi ai trafficanti. I costi sono elevati, nell’ordine delle migliaia di dollari. Ecco perché a partire sono persone del ceto medio (ormai più o meno un terzo della popolazione africana) con un reddito discreto».
Ma se hanno un reddito discreto perché partono?
«In Africa c’è una percentuale di popolazione giovane convinta che l’Occidente è talmente ricco che basta arrivarci per fare fortuna».
E non li frenano i rischi del viaggio, la paura di morire prima di arrivare a destinazione?
«Non so quanto sia chiara in Africa la consapevolezza di questi rischi. E in effetti un modo per diradare il flusso di partenze sarebbe promuovere campagne informative in loco sui pericoli e i costi del viaggio, e su cosa ci si deve aspettare una volta arrivati in Europa, in termini di disoccupazione giovanile e reali opportunità d’ impiego. C’era un senegalese che aveva una mandria di mucche e dei tori. Tutto sommato una buona posizione. Ha venduto tutto per venire in Europa ed è morto in mare. Ma se anche ce l’avesse fatta, uno come lui, un semplice possidente, senza esperienze lavorative e senza conoscere la lingua, quale lavoro avrebbe potuto fare?».
Chi dà queste informazioni sbagliate sull’Europa?
«C’è un’immagine positiva dell’Europa veicolata dai mass media. Ma pesano anche altri fattori. Gli europei, agli occhi dell’africano medio, sono tutti ricchi. L’europeo è il turista che frequenta alberghi di lusso, oppure il dipendente dell’azienda occidentale che frequenta buoni ristoranti, ha una bella casa, l’automobile, magari l’autista. C’è poi un altro elemento.
Da decenni in Africa arriva dall’Occidente di tutto: medicine, cibo, vestiti. Le Ong scavano pozzi e costruiscono (ottimi) ospedali. Tutto gratis. Questo contribuisce all’idea di una prosperità senza limiti dell’Occidente. Per concludere, c’è il ruolo dei trafficanti, che per alimentare il loro business hanno tutto l’interesse ad illudere le persone sul futuro roseo che troveranno in Europa».
Non esiste una controinformazione?
«In Mali dal 2014 il governo tenta una campagna di sensibilizzazione, anche con cartelloni nelle città, per far capire ai giovani che l’emigrazione non è una soluzione. Altri governi fanno lo stesso. E le conferenze episcopali locali organizzano incontri con i ragazzi per dissuaderli dal partire, presentando le testimonianze di chi è tornato indietro. Un lavoro non semplice, ma i governi europei potrebbero collaborare, magari promuovendo spot o finanziando alcune iniziative. Anche se poi, se un giovane si mette in testa di partire. Lo scorso settembre è partita dal Gambia una ragazzina di 19 anni: era il portiere della nazionale femminile di calcio. È annegata nel Mediterraneo. Chi la conosceva era sconvolto: quella giovane donna aveva realizzato in patria il sogno di molte ragazzine, eppure se ne era andata lo stesso, senza dir niente a nessuno. Sempre dal Gambia, a novembre è partito un famoso wrestler. Anche lui è morto in mare. Eppure guadagnava bene, e aveva ammiratori anche fuori confine, in Senegal. Si vede che qualcuno gli avrà messo in testa che, se in Gambia era famoso, in Europa sarebbe diventato milionario».
Le istituzioni internazionali vedono un’economia africana in forte crescita.
«Da oltre vent’anni il Pil continentale cresce a medie altissime. Nel 2017 la crescita media sarà del 2,6%. Grazie al petrolio, l’Angola ha conosciuto picchi del 17% e vanta un record di crescita del Pil tra il 2003 e il 2013 di quasi il 150%. Ma la crescita economica di per sé non coincide con lo sviluppo. Scarseggiano ancora gli investimenti in settori produttivi, infrastrutture, servizi».
Cosa frena lo sviluppo?
«Prima di tutto la corruzione, presente a tutti i livelli sociali, non solo al vertice, che fa sprecare risorse enormi. Pensi che nel 2014 in Nigeria l’ente petrolifero nazionale avrebbe dovuto incassare 77 miliardi di dollari, invece ne ha incassati solo 60. I governi, inoltre, hanno puntato per convenienza politica su una crescita eccessiva del settore pubblico. A tutto questo si accompagna il tribalismo, altro freno allo sviluppo».
È giusto dire «aiutiamoli a casa loro»?
«Ma l’Occidente già lo fa: da decenni trasferisce grandi risorse finanziarie, umane e tecnologiche in Africa. Gli aiuti alla cooperazione internazionale nel 2015 hanno toccato i 135 miliardi di dollari. Ma la Banca Mondiale qualche anno fa, parlando della Somalia, aveva calcolato che su ogni 10 dollari consegnati alle istituzioni governative, 7 non arrivavano a destinazione».
Abbiamo parlato della maggioranza degli immigrati. C’ è poi la minoranza di chi fugge da guerre e dittature.
«Su 123 mila domande di status di rifugiato nel 2016 ne sono state accolte 4.940».
Da dove arrivano?
«Dalla Somalia, in preda alla guerra civile. Dall’Eritrea, dove c’è una delle dittature peggiori del pianeta. Un po’ dal Sudan. Ma in realtà dalle zone più in difficoltà non arrivano tante persone. Dal Sudan del Sud, in guerra dal 2013, arrivano in pochissimi. Dalla Repubblica Centrafricana e dalla Repubblica Democratica del Congo non arriva praticamente nessuno. Quanto alla Nigeria, gli immigrati partono dal Sud, dove non ci sono pericoli, e solo pochissimi dal Nord Est, dove imperversa Boko Haram».
Come si spiega?
«La maggior parte dei profughi non vuole allontanarsi troppo da casa, dove spera di tornare. Chi fugge dalla guerra in Somalia, per esempio, si sposta in Kenya o in Etiopia, e ci pensa bene prima di allontanarsi di più. Insistere sulla integrazione dei rifugiati significa dimenticare che chi scappa dalle bombe chiede una protezione temporanea. Centinaia di migliaia di profughi iracheni e siriani stanno tornando o sono già tornati alle loro case. Emblematico il caso di Mosul: non era ancora stata liberata del tutto dall’Isis, gli abitanti scappavano ancora da alcuni quartieri, ma già nelle aree sicure rientravano alcuni sfollati».
La sorprendono le notizie sulle complicità Ong-scafisti?
«Per niente. La prassi era nota da mesi. Indicativa è la qualità dei nuovi gommoni usati dagli scafisti: dovendo fare un percorso molto più breve di un tempo, si usa materiale di pessima qualità proveniente dalla Cina. Dopo il trasbordo degli immigrati, il gommone viene gettato via. Si conserva solo il motore, che poi si usa per altri gommoni».
Alessandro Giorgiutti
Anna Bono è stata ricercatore in Storia e istituzioni dell’Africa presso il Dipartimento di culture, politica e società dell’Università di Torino fino al 2015.Dal 1984 al 1993 ha soggiornato a lungo in Africa svolgendo ricerche sul campo sulla costa swahili del Kenya. Dal 2004 al 2009 ha collaborato con l’Istituto superiore di studi sulla donna dell’Università Pontificia Regina Apostolorum. Dal 2004 al 2010 ha diretto il dipartimento Sviluppo Umano del Cespas, Centro europeo di studi su popolazione, ambiente e sviluppo. Fino al 2010 ha collaborato con il Ministero degli Affari Esteri nell’ambito del Forum Strategico diretto dal Consigliere del Ministro, Pia Luisa Bianco. Collabora con mass media prevalentemente di area cattolica. Su Africa, relazioni internazionali, problemi di sviluppo, cooperazione internazionale, emigrazione ha scritto oltre 1.600 articoli, saggi e libri scientifici e divulgativi.
Un brano dal libro
Ormai sul territorio italiano vivono almeno mezzo milione di stranieri entrati nel paese illegalmente, e forse di più, e gli sbarchi continuano. L’ovvia domanda è come mai arrivino sempre nuovi immigrati, se ogni anno solo poche migliaia ottengono lo status di rifugiato e hanno diritto a rimanere in virtù della convenzione internazionale alla quale l’Italia aderisce e che, solo nel caso dei rifugiati, annulla il reato di ingresso e soggiorno illegale e prescrive di ospitarli. Una spiegazione può essere che molti emigranti ignorano che cosa esattamente vuol dire e comporta entrare illegalmente in un paese straniero. In compenso, devono essere molti, e sempre di più, quelli informati del fatto che, una volta messo piede in Italia, è probabile che vi possano soggiornare per molto tempo. Innanzi tutto, infatti, espellere e rimpatriare gli immigrati illegali non è semplice.
Un decreto di espulsione non basta. Gli immigrati semplicemente non obbediscono all’ingiunzione di lasciare il paese. Il rimpatrio forzato, accompagnato, richiede inoltre procedure e accordi bilaterali con gli stati di provenienza degli immigrati e presuppone l’accertamento della reale identità e quindi della nazionalità di ciascuno. In secondo luogo migliaia di persone sono autorizzate a restare in Italia pur essendovi entrate illegalmente in virtù di due altre forme di protezione, alternative all’asilo: la protezione sussidiaria e il permesso di giorno per motivi umanitari. Alla protezione sussidiaria – si legge sul sito web del Ministero dell’Interno – è ammissibile “il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno”.
Il permesso di soggiorno a tale titolo dura tre anni ed è rinnovabile a ogni scadenza, talvolta anche senza una nuova audizione. Da diritto tra l’altro all’assistenza sanitaria e sociale, all’assegnazione di alloggi pubblici, all’accesso al lavoro e al ricongiungimento familiare. Nel 2015 hanno ottenuto protezione sussidiaria 10.225 persone, pari al 14% delle richieste di asilo esaminate. Nel 2016 la protezione sussidiaria è stata concessa a 11.200 persone, poco più del 12% delle richieste esaminate nell’arco dell’anno. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari viene rilasciato in presenza di “oggettive e gravi situazioni personali che non consentono l’allontanamento dal territorio nazionale”. Ha la durata di un anno, è rinnovabile, dà diritto all’assistenza sanitaria, consente di lavorare e di chiedere la cittadinanza dopo dieci anni di residenza legale in Italia.
È stato attribuito a 15.768 persone, il 22% delle richieste di asilo esaminate nel 2015, e a 18.801 persone nel 2016, pari al 20,7% delle richieste. Inoltre alla permanenza per lunghi periodi di decine di migliaia di immigrati contribuisce il fatto che i richiedenti asilo ai quali è negata protezione internazionale hanno facoltà di presentare ricorso. Tribunale civile, Corte d’appello, Corte di Cassazione: si calcola che in media trascorrano circa tre anni prima della sentenza definitiva. Siccome la legge italiana prevede che i richiedenti abbiano diritto al gratuito patrocinio, quasi tutti ne approfittano e, assistiti da legali pagati dallo stato italiano, affrontano i tre gradi di giudizio. Nel 2014 ha fatto ricorso il 73% dei richiedenti respinti, nel 2015 l’80%, nel 2016 la quasi totalità dei 55.425 richiedenti rifiutati nell’arco dell’anno. Dal 2014 al 2016 sono stati aperti più di 90.000 procedimenti, al costo stimato di circa 50-60 milioni di euro all’anno, a cui vanno aggiunte le spese per consentire ai richiedenti asilo di soggiornare nel frattempo in Italia.
Anna Bono
Migranti!? Migranti!? Migranti!?
EAN 9788893181884
Pagine 148
Euro 12
Foto: Frontex e Marina Militare, AFP e LaPresse
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