Boom dell’oppio ultimo indicatore del tracollo afghano
da Il Mattino del 22 novembre (titolo originale”Afghanistan, il boom dell’oppio e il ko Usa”
Le forze aeree statunitensi hanno bombardato lunedì laboratori per la produzione di droga nella provincia di Helmand, nel sud dell’Afghanistan. Il generale John Nicholson, comandante delle truppe Usa e dell’operazione Resolute Support della Nato in Afghanistan, ha spiegato che l’operazione congiunta con le forze afghane è solo all’inizio. Alle incursioni hanno partecipato bombardieri B-52 e caccia F-22 che hanno effettuato tre dei raid nel distretto di Kajaki, quattro in quello di Musa Qala e uno nel distretto di Sangin.
“Le nostre operazioni congiunte sono una dimostrazione della nostra volontà di sconfiggere i terroristi e chi li sostiene, soprattutto le reti del narcotraffico” ha aggiunto Nicholson. Immediata è arrivata la smentita del portavoce talebano Qari Jusuf Ahmadi. “Non ci sono laboratori per la produzione di droghe nell’area. Vogliono solo nascondere il fatto che hanno bombardato i civili”, ha scritto su Twitter.
I dati sulla produzione di oppio in Afghanistan hanno sempre costituito uno dei più importanti indicatori dell’esito delle operazioni militari tese a strappare ai talebani il controllo del territorio e soprattutto delle aree rurali in cui la coltivazione del papavero rappresenta una delle maggiori fonti finanziarie per la popolazione e l’insurrezione jihadista contro il governo di Kabul.
Per questo il rapporto annuale reso noto nei giorni scorsi dall’Ufficio dell’Onu contro il traffico di droga e la criminalità organizzata (Undoc) è considerato “profondamente allarmante” dal direttore dell’agenzia del Palazzo di Vetro, il diplomatico russo Yuri Fedotov.
La produzione di oppio ha visto un incremento senza precedenti quest’anno, raggiungendo le 9mila tonnellate, in crescita dell’87% rispetto al 2016 che già aveva visto una crescita del 43% secondo quanto riferì nel febbraio scorso il rapporto al Congresso americano dell‘Ispettorato generale speciale Usa per la ricostruzione in Afghanistan (Sigar).
Dati che rappresentano il fallimento delle iniziative di eradicazione delle piantagioni di papaveri da oppio (costate 8,5 miliardi di dollari solo alle agenzie antidroga statunitensi) e rivelatesi nel 2016 “pressoché impercettibili” secondo l’Undoc che aveva stimato la produzione in 4.800 tonnellate valutando i proventi dell’oppio che finanziano l’insurrezione anti governativa pari a 1,56 miliardi di dollari (il 7,4% del Pil afghano del 2015).
Il rapporto dello scorso anno rilevava che “la resistenza dei contadini alle operazioni di eradicazione è talvolta stata violenta. Le province che coltivano papavero sono anche le uniche che possono fare a meno dell’assistenza internazionale” mentre “il papavero fornisce sostentamento a 4 milioni di afgani”, oltre il 10% della popolazione afghana.
Quest’anno la situazione è quindi ulteriormente peggiorata con l’area coltivata a papavero cresciuta del 63%, passando da 201.000 a 328.000 ettari diffusi in 24 delle 34 provincie afgane.
Solo 10 provincie sono considerate libere dalla coltivazione contro le 17 del 2012, anno in cui il Sigar stimò che il commercio dell’oppio rappresentasse il 60% del bilancio dei talebani e che segnò la progressiva espansione delle coltivazioni man mano che le forze di combattimento Usa e Nato (50 paesi con 140 mila militari schierati in Afghanistan nel picco raggiunto nel 2011) cominciarono il ritiro completato nel 2014 lasciando in Afghanistan meno di 15 mila militari alleati con compito di supporto e addestramento delle truppe di Kabul.
La provincia meridionale di Helmand rimane quella che registra l’aumento maggiore (+79%) della produzione di oppio con un dato che ancora una volta è riconducibile alla situazione militare poiché negli ultimi 12 mesi le truppe afghane hanno perso il controllo di quasi tutto il territorio della provincia e lo stesso capoluogo, Laskhar Gah, è minacciato direttamente dagli attacchi.
Seguono le altre province meridionali, occidentali e orientali di Kandahar, Badghis, Faryab, Uruzgan e Nangarhar, aree abitate per lo più dall’etnia pashtun e storicamente roccaforti dei talebani. Nangarhar, nell’est del Paese, vede attualmente la più massiccia presenza di milizie dello Stato Islamico combattute dal governo di Kabul e dagli stessi talebani che li considerano rivali nel “monopolio del jihad”.
La presenza di questa provincia nella “top ten” della produzione di oppio sembrerebbe indicare che anche l’IS afghano utilizza i proventi del papavero per finanziarsi.
Fedotov ha commentato il rapporto sottolineando il pericolo che gli insorti, ben finanziati dall’oppio, possano intensificare la minaccia contro le deboli istituzioni afghane, notando che le 9.000 tonnellate del 2017 “rappresentano una produzione perfino in eccesso rispetto alla domanda globale di droghe derivate dall’oppio” ma rilevando che non tutta la droga prodotta viene esportata poichè in Afghanistan sono in costante incremento i tossicodipendenti.
Un dato già emerso negli anni scorsi dagli allarmanti esiti degli esami clinici effettuati tra le reclute arruolate nell’esercito e polizia afghani.
“Gli sforzi economici dei Paesi donatori effettuati nell’ultimo decennio per incentivare gli agricoltori a passare ad altre coltivazioni ad elevato rendimento economico non hanno dato grandi risultati” sottolinea il rapporto dell’Undoc. Del resto un ettaro coltivato a oppio rende il quadruplo del grano mentre altre colture più redditizie (come lo zafferano proposto anche dal contingente italiano nell’Ovest del Paese) hanno registrato difficoltà di accesso ai mercati internazionali a causa dell’isolamento dell’Afghanistan, delle minacce talebane e dell’assenza di collegamenti stradali praticabili e sicuri.
Il boom della produzione di oppio è quindi la conseguenza diretta della sconfitta subita (ma mai riconosciuta) dalla NATO e soprattutto dagli USA, vincitori sul campo di quasi tutte le battaglie ma (come in Vietnam) incapaci di mantenere il presidio del territorio il lungo tempo necessario a emancipare veramente le forze di Kabul.
Una delle più gigantesche bufale della storia militare recente (ancora non andava di moda parlare di “fake news”) è rappresentata dal bombardamento mediatico con cui Usa e Nato hanno spiegato al mondo che le forze di Kabul erano sempre più capaci di gestire da sole le operazioni contro gli insorti.
Una bugia necessaria a giustificare il ritiro preannunciato da Barack Obama nel 2010 e attuato a partire dall’anno successivo, ma a cui pochi credevano, soprattutto tra gli addetti ai lavori.
Del resto era sufficiente osservare da vicino i kandak (battaglioni) dell’esercito o i reparti di polizia per rendersi conto che, salvo poche unità d’élite, erano composti il larga misura da analfabeti che non avrebbero potuto apprendere molto neppure dai migliori istruttori alleati.
Solo l’anno scorso i caduti tra le truppe afghane sono stati più di 7mila (5mila nel 2015) e i feriti oltre 12mila. Un rateo di perdite, a cui aggiungere migliaia di diserzioni, che risulta ingestibile anche arruolando, addestrando e inviando ai reparti reclute quasi prive di addestramento.
Una situazione che non potrà essere riequilibrata dalla decisione di Donald Trump inviare altri 3mila militari statunitensi ai quali si aggiungeranno forse 700 europei con compiti di supporto e addestramento.
Rinforzi esigui con compiti limitati che confermano la discontinuità con cui Washington e gli europei hanno gestito 16 anni di guerra rendendo inutile il sacrificio degli oltre 3500 militari alleati (più di 2400 statunitensi, 54 italiani) caduti dall’ottobre 2001 in Afghanistan.
Foto: Emirato Islamico dell’Afghanistan, US DoD e Isaf
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.