Che sorpresa il jihad dall’Asia Centrale!

Se conoscere il proprio nemico è un aspetto chiave per trionfare in guerra, possiamo dire che quella contro il terrorismo e l’estremismo islamico centroasiatico è già persa.

In seguito all’attentato di New York in cui l’uzbeko-americano Saipov ha ucciso 8 persone e ferite altre 12, infatti, molto è stato scritto circa le motivazioni che lo hanno portato a compiere un simile gesto, ma forse ancor di più è stato detto circa la situazione politico-sociale del suo paese di origine.

Come spesso accade, però, è stato dato poco spazio ai rari esperti d’area, il che ha permesso a illustri commentatori di sostenere, senza contraddittorio, tesi quantomeno fantasiose o di commettere errori grossolani, ritenendo ad esempio l’Uzbekistan parte della Russia, un mero satellite di Mosca o addirittura uno Stato del Caucaso.

Sebbene l’Occidente sia ormai coinvolto da quasi 16 anni nella guerra in Afghanistan e ormai regolarmente le truppe impegnate sul confine siriano-iracheno fronteggino combattenti provenienti dall’Asia Centrale (che si stimano essere circa 2000-4000 unità), infatti, la conoscenza delle dinamiche di quell’area, nonché delle intricate vicende della locale galassia jihadista rimangono ancora scarsamente studiate ed approfondite.

Quanto appena evidenziato è particolarmente sorprendente soprattutto se si pensa che, da cent’anni a questa parte, le teorie di Mackinder sull’Heartland e l’importanza dell’Asia Centrale la fanno da padrone nelle Università, nelle Accademie e nelle scuole di formazione, il che avrebbe dovuto rendere il tema quantomeno interessante agli occhi dei media, cosa che invece non è successa.

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Ciò premesso, per comprendere come mai quello di Saipov non sia né un caso isolato né abbia a che fare con l’influenza russa (come qualcuno è riuscito ad affermare) appare utile sottolineare alcuni aspetti relativi allo sviluppo dell’estremismo islamico in Asia Centrale.

Questo, infatti, ha alzato la testa in seguito al crollo dell’URSS, quando sono venuti a cadere sia il rigido ateismo di Stato, sia gli stringenti controlli applicati onde evitare che movimenti non in linea con la dottrina ufficiale potessero guadagnare terreno.

Approfittando della transizione post-comunista e delle difficoltà incontrate dai nuovi stati, inoltre, diversi gruppi islamici riuscirono ad imporsi all’attenzione pubblica, soprattutto grazie alla difesa dei valori tradizionali e al valore dimostrato sul campo di battaglia (si pensi alla guerra civile tagika del 1992-1997 in cui le milizie religiose ebbero largo seguito).

Nello stesso periodo, inoltre, i rappresentanti di diversi grandi stati musulmani (Turchia e Arabia Saudita su tutti) riuscirono a penetrare in una vasta area che fino ad allora era rimasta loro preclusa, predicando una versione della religione diversa e più intollerante di quella locale, plasmata invece sulla convivenza con fedi diversi.

In questo contesto particolarmente complicato si saldarono anche i rapporti tra le organizzazioni locali e i talebani, che nel frattempo (1996) avevano preso il potere in Afghanistan e creato il primo Stato completamente basato sulla Sharia.

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Le Autorità locali, dal canto loro, risposero usando i mezzi che conoscevano meglio, ossia la repressione e il controllo capillare. A tal proposito, è interessante riportare quanto sostenne il presidente uzbeko Islam Karimov nel 1997 in occasione di una visita negli USA, quando dichiarò che “Uzbekistan wholly supports one of the basic principles of the indivisibility of security, that security implies a permanent process and has no limits”.

L’adozione di una simile strategia da parte del paese più esposto al processo di re-islamizzazione portò da un lato alla sopravvivenza delle strutture politiche del paese, dall’altro all’accrescimento del prestigio di chi poteva iniziare a presentarsi non solo come difensore dell’Islam, ma anche come perseguitato politico, cosa che d’altronde si verificò anche negli Stati confinanti.

Questo aspetto è stato ben evidenziato da Sebastiano Mori ed Emiliano Taccetti dello European Institute for Asian Studies, secondo cui “politiche draconiane portano ad una maggiore polarizzazione dei conflitti e stimolano l’opposizione”, anche se contemporaneamente è difficile poter pensare che uno Stato laico e sovrano accetti di cedere passivamente alle spinte disgregatrici provenienti dall’interno.

Un’ulteriore giustificazione alla condotta dei governi centrasiatici è rappresentata dal fatto che, come scrivono sempre Mori e Taccetti, “le minacce terroristiche e radicali presenti in Asia centrale hanno natura transnazionale”, motivo per cui la lotta all’estremismo è direttamente collegata a quella per la sovranità e l’indipendenza dall’influenza esterna.

Non va neanche dimenticato che in virtù del crescente disimpegno occidentale in Afghanistan, è possibile che una nuova vittoria dei Talebani getti le basi per uno spostamento del Jihad ai territori vicini, sia grazie alla presenza di un santuario, sia grazie al ritorno di uomini e armamenti nei propri paesi d’origine.

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Alla luce di tutto questo e della crescente importanza rappresentata dal rapporto fra Europa e Cina (separate proprio dall’Asia Centrale) risulta quanto mai importante per il nostro continente riuscire a fare i conti con questa minaccia, incrementando ulteriormente quelle collaborazioni già attivate nel campo della sicurezza e della difesa.

Un’ulteriore destabilizzazione dell’area, infatti, potrebbe rappresentare un duro colpo alla tanto celebrata “Nuova Via della Seta”, nonché destabilizzare anche il Caucaso e lo Xinjiang cinese, regione orientale a maggioranza uigura e islamica-sunnita in cui le componenti separatiste e islamiste hanno da anni collaborano con i propri omologhi centroasiatici.

Proprio questo aspetto ha spinto i governi dell’area a riunirsi nella Shanghai Cooperation Organisation, un’alleanza che, pur non essendo mai riuscita a diventare un reale contraltare della NATO (obiettivo particolarmente ambizioso vista la contemporanea presenza di Russia e Cina, nonché ora anche dell’India) sin dalla sua creazione ha fatto della lotta ai tre “demoni” (separatismo, terrorismo ed estremismo) la sua caratteristica principale.

Volendo fare una valutazione realista, infine, lasciare a Pechino un’eccessiva influenza in materia di sicurezza sugli stati del Turkestan significherebbe accettare che l’élite cinese metta a segno un importante colpo per ripristinare la sua influenza imperiale.

Al momento attuale grande importanza continua ad essere rivestita dalla Russia, che però nel medio periodo non sembra essere in grado di contrastare l’espansionismo cinese, un aspetto che dovrebbe essere attentamente considerato in Europa per rilanciare il dialogo con Mosca prima che sia troppo tardi.

Foto: Stato Islamico, AP e Site

 

Triestino, analista indipendente e opinionista per diverse testate giornalistiche sulle tematiche balcaniche e dell'Europa Orientale, si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università di Trieste - Polo di Gorizia. Ha recentemente pubblicato per Aracne il volume “Aleksandar Rankovic e la Jugoslavia socialista”.

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