Corte dei Conti e F-35: un verdetto già scritto

Il bicchiere è mezzo vuoto, ma pensando a quanto è già costato riempirlo a metà, preferiamo dire che è mezzo pieno. E’ questa in estrema sintesi la conclusione cui è arrivata la Corte dei Conti sullo stato del programma F-35 nella “Relazione speciale” dei primi di agosto, dopo aver analizzato in una sessantina di pagine tre dei quattro obiettivi della partecipazione italiana, e cioè quello industriale, occupazionale e tecnologico.

Quindi non esprimendosi, com’era naturale, sull’obiettivo strategico, cioè sui perché di questa scelta per la sostituzione di Tornado, AMX e Harrier. Alla fine, è il pensiero dei nostri magistrati contabili, il bicchiere è mezzo pieno perché la spesa già sostenuta è a garanzia del mantenimento di posti di lavoro grazie alle commesse delle industrie americane alle nostre società aerospaziali.

La valutazione complessiva del progetto” scrivono nelle ultime pagine, “deve tener conto, proprio in termini squisitamente economici, della circostanza che l’esposizione fin qui realizzata in termini di risorse finanziarie, strumentali ed umane, è fondamentalmente legata alla continuazione del progetto”.

 I risultati sul piano industriale – così caro alla Difesa – stanno disattendendo le attese, ma il programma deve continuare. Cosa che peraltro assolutamente nessuno ai vertici delle istituzioni dello Stato ai quali questa “Relazione speciale della Corte per gli Affari internazionali e comunitari” è stata indirizzata, mette in discussione, tolti sul versante parlamentare il Movimento 5 Stelle (che vedremo alla prova dei fatti in caso di vittoria alle elezioni) e parte della sinistra. Politici ai quali bisognerebbe far presente, ragionando proprio in termini economico-finanziari, che una qualsiasi altra alternativa al sostituto designato dei nostri vecchi aerei da attacco partirebbe con al collo il macigno dei 4,1 miliardi di euro versati dai contribuenti a tutto il 31 dicembre 2017, per niente.

Da questo punto di vista, le solite malelingue prevenute/ideologizzate potrebbero arguire che alla Difesa serviva “maledettamente” un’analisi prettamente contabile dall’esito positivo praticamente scontato, ancorché priva come vedremo fra poco di dati concreti sui reali costi di questi velivoli e di proiezioni su quelli del loro impiego e mantenimento.

The first Royal Australian Air Force F-35A Lightning II jet arrived at Luke Air Force Base Dec. 18, 2014. The jet’s arrival marks the first international partner F-35 to arrive for training at Luke. (U.S. Air Force photo by Staff Sgt. Staci Miller)

Un’analisi per forza di cose un po’ monca, basata essenzialmente sulla mera (ma importante, ci mancherebbe) verifica dei risultati e vantaggi a beneficio delle imprese che il rispetto degli accordi avrebbe concretizzato. Un monitoraggio continuo e trasparente che nel 2008 – ricordiamolo – approvando programma e FACO, il Parlamento aveva affidato al Governo, ma che ha fatto la fine delle bolle di sapone.

La stessa Corte dei Conti ha esaminato il programma solo un’altra volta, nel 2012, passando sotto esame i contratti che avevano portato alla costruzione degli impianti di Cameri. Come riferimmo in un articolo del gennaio 2013, i giudici promisero che “L’attività di gestione dell’intero programma per l’acquisizione dei velivoli F-35 sarà oggetto di specifico referto nel corso dell’attività di controllo di questa Corte”.

Dall’Ufficio Stampa è arrivata la precisazione che la Corte in questi anni in realtà non si è più occupata del programma F-35, o quantomeno non ha deliberato altro. Nell’indagine di cinque anni fa, tra le altre cose, aveva evidenziato delle irregolarità procedurali da parte della Difesa nella segretazione dei contratti per gli impianti novaresi; come andò poi a finire lo sanno i cassetti dello Stato Maggiore. C’era poi un’altra questione legata ai costi, sollevata a quel tempo dallo stesso capo di Segredifesa Generale Claudio Debertolis: il Parlamento avrebbe dovuto dotarsi di mezzi di indagine indipendenti per monitorare costi e dinamiche dei procurement della Difesa, non fosse altro per supportare i militari in questo delicato compito.

Le altre corti dei conti dei partner del programma JSF negli anni hanno denunciato più volte lievitazioni macroscopiche dei costi e ritardi. Quella olandese per esempio, la Algemene Rekenkamer, nel 2103 rivelò che i costi operativi dell’F-35 (indicati anche da altre fonti di Amsterdam più alti del 40% di quelli degli F-16) risultavano più che quadruplicati dall’inizio del programma. Il National Audit Office britannico quest’anno è stato addirittura aggressivo nei confronti del Ministry of Defence, calcolando per effetto di extra-costi non previsti in una cifra oscillante fra i 267 e i 333 milioni di sterline (dai 315 ai 392 milioni di euro) il costo complessivo di ciascuno dei 21 F-35 STOVL che Londra acquisterà entro il marzo 2021.

Solo qualche settimana fa ha poi denunciato il rischio di una incompatibilità dei simulatori di volo forniti da Washington con la configurazione degli F-35 britannici, e la necessità di ulteriori costi per rendere concreta l’interoperabilità fra la nuova portaerei Queen Elizabeth e le aliquote imbarcate degli F-35 STOVL degli Stati Uniti (accadrà lo stesso per la nostra Cavour?).

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Dal lato industriale, la perfida Albione va però a gonfie vele: le società che partecipano al programma sono ormai 500. Ancora, la corte australiana a marzo ha fatto sapere che le società aerospaziali hanno ricevuto meno lavoro di quello promesso, mentre quella danese in giugno ha dichiarato che al momento opportuno rivedrà gli accordi con gli USA che hanno portato a un primo ordine di 21 F-35A.

Non mancano poi indizi su sospetti casi di corruzione, come quello sollevato dalla corte di conti della Corea del Sud (Board of Audit and Inspection of Korea) nel momento in cui la Difesa preferì il caccia di Lockheed Martin agli F-15SE offerti da Boeing. La vicenda si trascina da tempo, e l’11 ottobre “The Korea Times” ha rivelato che nel 2014 LM avrebbe goduto di favoritismi da parte dei militari sudcoreani nonostante avesse disatteso la promessa di conferire alle loro industrie lavoro pari al 50 % della commessa, cercando poi di rimediare con la fornitura di un satellite di comunicazione, di cui peraltro Seul non aveva bisogno.

 

Nessun dato specifico sul costo dei primi 9 aerei

Nel confronto dialettico rilanciato da qualche media all’apparire della Relazione della nostra Corte dei Conti tra quanti ritengono che essa promuova il programma, e chi invece pensa che rappresenti una più o meno velata bocciatura (ancorché senza effetti pratici), ebbene nessuno pare aver compreso che non si può giudicare una vicenda di questa portata per il sistema paese, semplicemente verificandone l’esposizione finanziaria, le ricadute occupazionali e i vantaggi per le imprese. Ci sono (ma davvero?) altri fattori di almeno uguale importanza. Ma il tarlo si è fatto strada fra i sostenitori della nostra partecipazione al programma al punto da far dire ad alcuni ex vertici delle forze armate che la Corte dei Conti, sentenziando che occorre continuare col programma, ne avrebbe “sbugiardato” gli oppositori. Se è così – e noi lo dubitiamo -, la sbugiardata ha colpito unicamente oppositori politici, disarmisti, pacifisti e quanti altri, di certo non chi segue la vicenda del Joint Strike Fighter per altri motivi, che nella (per la prima volta a livello istituzionale) dettagliata e argomentata descrizione delle molte criticità del programma, hanno semmai trovato conferme a quanto sostengono da tempo.

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Una parola va tuttavia spesa sulle due fonti utilizzate per questa relazione: da un lato i documenti forniti dalla Difesa (anche relativamente agli aspetti industriali), da cui sono uscite notizie che forse diversamente non sarebbero state rese pubbliche; dall’altra i rapporti di chi oltre Oceano fa lo stesso mestiere della nostra Corte dei Conti e il cioè il Government Accountability Office, le cui analisi critiche il rapporto italiano fa sue forse non senza un po’ di inconsapevolezza, considerando anche il più ampio spettro di redicontazione e il ben maggiore peso politico del GAO, che ha regolari e franchi rapporti dialettici con il Dipartimento della Difesa.

Nelle pagine del documento ci sono comunque cose che tornano, e altre che non tornano. Vediamo i passi più importanti.

A pagina 3 si dice che secondo la Difesa “le esigenze operative delle forze armate non potrebbero essere efficacemente perseguite con il solo velivolo EF-2000 (…), poiché tale apparato nasce come velivolo da superiorità aerea, con limitate possibilità di utilizzo nei ruoli di attacco al suolo e di ricognizione, anche in ambienti non permissivi”. I due caccia svolgeranno ruoli ‘non sovrapponibili, ma complementari’.

Con la arcinota, paradossale eccezione dell’arma stand-off Storm Shadow, che per anni sarà l’EFA a poter impiegare, stante l’onerosità di una sua integrazione sulla sua piattaforma di elezione, e cioè lo strike F-35 che per ragioni d’ingombro non potrebbe imbarcarlo nella stiva.

Elemento centrale della relazione è (consentiteci) la scoperta dell’acqua calda, cioè il vertiginoso aumento dei costi e i ritardi del programma. Si riporta voce per voce l’impegno finanziario fin qui sostenuto globalmente per la nostra partecipazione – i già citati 4,1 miliardi di euro -, si piega quanto spenderemo all’anno per la produzione fino al 2020 – 53,1 milioni di TenYears Dollars l’anno venturo, 49,1 nel ’19 e 40,6 nel ‘20 – ma non si dice quanto lo Stato ha pagato gli aerei già consegnati, che sono ormai 9.

Per quanto inutile come dato, giusto per fare qualche considerazione sarebbe comunque bastato riportare un costo medio, comprendendovi il famosissimo fly-away cost, poi qualche anno di supporto logistico, l’addestramento di piloti e specialisti, le dotazioni cosiddette ancillari, i retrofit, i sistemi per la cyberwarfare e quelli di integrazione nei nostri apparati di controllo e comunicazione; insomma tutto quello che va messo nella borsa della spesa per “consumare” il nuovo prodotto. Niente, neanche una virgola. Eppure si sarebbe scoperto che il continuamente pubblicizzato puro costo di acquisto degli aerei della versione -A degli ultimi lotti annuali, in realtà è meno della metà di quello da sostenere per mettere tutta la spesa necessaria nella borsa.

Sull’andamento dei costi, per una questione di tempi la Relazione della Corte non ha poi potuto citare gli ultimi rilievi del GAO del 26 ottobre: il Pentagono risulterebbe impreparato (e poco trasparente) sui costi e le iniziative necessari a migliorare l’efficienza generale dei quasi 250 aerei già consegnati, per i quali fino al maggio 2017 erano necessari mediamente 172 giorni per procurare e montare un pezzo di ricambio. Inoltre, gli utilizzatori dell’F-35 lamenterebbero l’impossibilità di stabilire se taluni aumenti di costo “unexplained” hanno poi un riscontro nelle capabilities degli aerei.

C’è poi il capitolo dei costi e tempi della prevista, cosiddetta Follow-on modernization del velivolo, una road map di update/upgrade che il Pentagono vorrebbe avviare dall’anno venturo, contro il parere negativo del GAO. Qui vale la pena di riportare per intero dalla pagina 8 le parole dei giudici contabili: “Quanto ai ritardi dovuti alle problematiche tecniche manifestatesi nella fase di sviluppo, essi sono in gran parte al di fuori della sfera di controllo dei Governi dei Paesi partner, dal momento che è il Governo americano a gestire gli accordi commerciali con LM e P&W a nome delle altre Nazioni. Il rischio che ne deriva (non mitigabile attraverso azioni nazionali) è accresciuto dalla parziale sovrapposizione (concurrency) della fase di definizione e sviluppo con quella di produzione (…). Per gli stessi motivi di instabilità della configurazione, ancor più rischioso viene ritenuto dal GAO l’avvio immediato della fase di Follow-on modernization, destinata ad incrementare il livello capacitivo del velivolo. Qualora vengano riscontrati errori o carenze di progettazione, si rende indispensabile modificare i velivoli già consegnati (231 a marzo 2017) con il cosiddetto ‘retrofit’, che comporta ulteriori costi a carico di ciascuno dei Partner, al momento attuale ancora non quantificati”.

 

Aumento dei costi nelle negoziazioni separate

Un “incremento del livello capacitivo” del caccia che, come abbiamo avuto modo di osservare su queste colonne, consiste in realtà anche in un aggiornamento di certi sistemi, arrivati alla soglia dell’operatività piena già obsoleti e/o non del tutto rispondenti alle minacce così come oggi si presentano a quasi 20 anni dalla concezione del velivolo. Il riferimento è al Block-4 del suo software di missione, che come si legge a pagina 28, “copre i requisiti differiti per immaturità tecnologica”.

Il Block-4, sostiene la Corte pur sempre “per bocca” del GAO, pone come s’è detto il problema di una nuova “concurrency”, tanto più onerosa per gli acquirenti se il Pentagono otterrà entro fine ottobre dal Congresso l’approvazione a ordinare 449 aerei tutti insieme (il Block Buy che riunisce i LRIP-12, -13 e -14). Cioè ad accelerare la produzione prima che l’aereo possa dimostrare la necessaria stabilità di progetto una volta chiusa nel maggio 2018 la fase di sviluppo e dimostrazione, ma non prima della fine di una successiva pausa di riflessione fatta di analisi di engineering destinate a validare la conformità alle specifiche.

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Se il Block Buy verrà autorizzato appare molto difficile”, si legge a pagina 10, che gli altri Partner possano sottrarsi all’acquisto (di maggiori quantità di aerei nell’unità di tempo; ndr), perché ciò comporterebbe non solo la perdita dei benefici attesi dalle economie di scala, ma anche l’aumento dei costi dovuti alla negoziazione separata dei propri contratti (il cosiddetto “pay to be different”).

Peccato che la nostra Difesa abbia intenzione di ordinare 17 aerei da questo grosso pacchetto, alla faccia della richiesta di dimezzare il nostro impegno finanziario nel programma. A questo proposito a pagina 21 i giudici contabili scrivono che la amministrazione della Difesa ha inteso “interpretare l’indicazione parlamentare come un vincolo a non superare la soglia del 50% dell’importo iniziale (i 18,2 miliardi di dollari a condizioni economiche 2008 per i 131 aerei; ndr) e non come un vincolo a dimezzare le quote finanziarie annuali assegnate al programma. Poiché” prosegue la relazione, “la stima attuale delle risorse necessarie a completare tale fase (acquisizione di velivoli fino al lotto LRIP-14 compreso, inclusi i costi condivisi di partnership e gli equipaggiamenti e supporto logistico associati) è inferiore a 7,8 miliardi di dollari (7,1 miliardi di euro, al tasso di cambio indicativo di 1,1 euro per dollaro), almeno fino all’esaurimento della fase contrattuale Low Rate Initial Production 14, i costi rientrano nel perimetro finanziario indicato dalle mozioni parlamentari del 24 settembre 2014” (dichiarazione raccolta in sede istruttoria”.

Sempre a pagina 21 arriva tuttavia un “però”: “È appena il caso di sottolineare che tale interpretazione, se correttamente prescinde dal computo dei ritorni economici (che, pur essendo evocato nelle mozioni parlamentari, comporterebbe l’illogicità concettuale di una compensazione della spesa a carico del bilancio Difesa con poste attive in favore dell’industria), presenta però la debolezza intrinseca di una visione di corto respiro, assicurando un risparmio soltanto temporaneo nell’immediato mentre resta impregiudicata la situazione futura”.

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Come dire: non si dimezza un bel niente. Anche perché nessuno è oggi in grado di quantificare la spesa che si renderà necessaria per assicurare ai nostri aerei una qualche integrazione di sistemi d’arma differenti e a noi più confacenti di quelli sin qui previsti dagli americani, e i vari retrofit di software indispensabili per mantenere/aumentare l’efficacia del sistema ottimizzando strada facendo la interoperabilità dei JSF italiani con quelli alleati.

 

Il “peso specifico” dei retrofit

La Corte ha giustamente accennato al problema della “concurrency” fra sviluppo e produzione. Ebbene, nelle settimane scorse è arrivata dagli Stati Uniti una notizia terribile: per portare i 108 aerei già consegnati all’Air Force e gli 81 ai Marines e alla Navy allo standard Block-3F e modificarli in base ai risultati dei collaudi mettendoli così in grado di andare in combattimento, il Pentagono dovrebbe spendere 40 miliardi di dollari. Fanno (teniamoci forte) 211 milioni di dollari a esemplare: in pratica si dovrebbe raddoppiare (80 miliardi) la spesa sostenuta per il semplice acquisto di questi quasi 200 primi aerei. La nostra Corte ha scritto di “costi di retrofit non ancora quantificati” prima di questa allegra novità e quindi, in qualche modo, a ragione. Ma adesso abbiamo tutti quanti una qualche idea di quanto lo Stato dovrà spendere per portare i suoi primi F-35 (consegnati con il Block-3I precedente al Block-3F) a un standard tale da poterli impiegare operativamente.

Alla luce di questi ultimi sviluppi il problema del “peso specifico” dei retrofit si fa sempre più spinoso. E il calvario che ha già segnato e attende prossimamente l’F-35 rischia di imporsi come un nuovo “standard” nell’aviazione da combattimento, almeno in campo occidentale. Ma andiamo avanti.

A pagina 26 la Corte afferma che “Le versioni che implementeranno tutti i requisiti previsti dalla configurazione SDD (ivi inclusi i dispositivi di protezione dei dati sensibili sovrani), che consentiranno di raggiungere la piena capacità operativa di ALIS, sono la 3.0 (con rilascio previsto alla fine del 2017) e la 4.0 (con rilascio previsto alla fine del 2018)”.

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Questo vuol dire che per godere di un sostegno tecnico-logistico pienamente efficace, gli F-35 già retrofittati col Block- 3F dovranno aspettare la fine dell’anno prossimo. Sperando di essersi lasciati alle spalle definitivamente i problemi che ci sono a monte di questa versione del software: “(…)

I velivoli del lotto 10, le cui consegne cominceranno a inizi 2018, non saranno inizialmente dotati della piena capacità del Block-3F. Quest’ultimo sarà rilasciato per stadi successivi sulle tre versioni del velivolo, e l’ultimo rilascio, sulla versione F-35B, non avverrà prima di maggio 2018”.

La prossima primavera segnerà però anche l’inizio della valutazione operativa iniziale dell’aereo nello standard 3F, con un calendario di scadenze che secondo la corte dei conti americana è improponibile, non tenendo conto dei risultati della già accennata “coda” di verifiche che si protrarranno almeno fino a tutto il 2019.

Insomma non è mai finita. Certo, il continuo, progressivo rilascio di versioni incrementali e/odi “rifinitura” dei software di missione non l’ha inventato l’F-35. Ma qui si toccano livelli parossistici, e giustamente la Corte scrive che anche “le ripercussioni sui costi sono rilevanti”. Altro che rilevanti.

In America intanto si studia qualche rimedio, come quello un po’ ardito (come minimo da proteggere pesantemente dai cyber-attacchi) di rilasciare da remoto gli aggiornamenti del software, come fa la Apple con i suoi smartphone. Funzionerà?

L’anno scorso l’USAF bocciò le due sotto-sotto-versioni 3F5.03 e 3F5.05 del Block-3F perché inefficaci “in all mission areas”, per dirla con la segretaria all’Air Force Heather Ann Wilson. Andare in combattimento con aerei così equipaggiati avrebbe addirittura comportato grossi rischi per i piloti. Al software 3F5 sta seguendo il successivo 3F6, destinato nei prossimi mesi anche ai primi esemplari italiani schierati sulla base di Amendola. Fonti americane precisano però che varie capacità essenziali del caccia non saranno ancora state verificate quando sarà consegnata questa sesta sotto-versione, capace di correggere solo meno della metà dei problemi riscontrati nelle cinque precedenti ma soprattutto porterà a nuovi ritardi nello sviluppo e implementazione delle due previste successive sotto-versioni 3FR7 e 3FR8.

Nella nebbia che avvolge l’effettiva, tangibile “Full Combat Capability” del caccia col Block-3F, gli USA ora per il nuovo Block-4 avrebbero deciso di procedere con passo più felpato, cercando anche di capire qualcosa dei costi associati di “concurrency” e retrofit. Ma poi c’è un ostacolo strettamente tecnico: il processore dei dati attualmente montato sugli F-35 lavora già al massimo delle sue capacità, per cui per poter “girare” col futuro Block-4 bisognerà montare un nuovo apparato più potente, non disponibile prima del 2021.  Non è davvero mai finita.

 

Tante opportunità ma pochi contratti

I giudici contabili hanno riassunto efficacemente la questione Block-3F/Block-4 in poche ma chiare parole: “Il GAO ribadisce che occorre stabilizzare la configurazione del velivolo, completando i test di volo e pervenendo al rilascio del software Block 3F, prima di procedere alla determinazione delle specifiche dell’ammodernamento, che poggerebbero altrimenti su informazioni solo parziali e pertanto ancora suscettibili di modifiche e correzioni”.

L’altra questione centrale, anzi quella più centrale di tutte per la Corte, sono i ritorni economici per l’industria a fronte della spesa già sostenuta e di quella a venire. Ritorni che sono ben più scarsi di quelli che gli Stati Uniti avevano garantito, ma che come s’è detto all’inizio la portano a concludere che dobbiamo…  resistere, resistere, resistere.

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A pagina 30 si legge che “Secondo le dichiarazioni dell’Amministrazione della Difesa, il principio del ‘best value’ non va (…) inteso in modo assoluto, potendo esso essere temperato da considerazioni strategiche trasfuse in accordi governativi e industriali, preordinati a perseguire un principio di ‘giusto ritorno’, sia pur garantito non in termini di contratti, ma di mere opportunità”.

Eccole, le famose “opportunità”. Cioè, non contratti, coi soldi messi nero su bianco, ma semplici, teoriche possibilità di business offerte dagli americani sul mercato globale, e sovente già in partenza rese aleatorie dalla loro Non Disclosure Policy sulle tecnologie di punta. Una storia trita e ritrita, che nel documento della Corte trova le più ampie conferme là dove vengono raffrontati i contratti firmati con le opportunità: sulle 81 aziende ingaggiate nei piani di partecipazione industriale dai prime contractor americani, solo 33 hanno firmato contratti, le altre 48 (4 grandi industrie e 44 PMI) hanno perso il treno in quanto non considerate “best value”.

“Stiamo perdendo la memoria storica degli accordi firmati con gli americani, impegni che noi ci onoriamo di rispettare, anche in omaggio alla nostra perenne fedeltà all’alleato, mentre non succede la stessa cosa dall’altra parte”, commenta amaro Guido Crosetto, a capo dell’associazione delle imprese aerospaziali italiane.

Il riferimento è all’accordo-quadro di sette anni fa col quale avevamo ottenuto di venire trattati col miglior riguardo possibile nelle ricadute industriali. “In realtà sta accadendo il contrario: siamo stati fra i primissimi ad aderire al programma, ma ora ci trattano come se fossimo gli ultimi arrivati. Forse,” è il Crosetto-pensiero, condiviso da altri, “di fronte al fatto che l’F-35 è l’unico caccia di nuova generazione disponibile sul mercato, conveniva aspettare qualche anno e acquistarlo quando sarebbe costato meno”. E fosse stato più maturo, va aggiunto, godendo comunque di offset industriali non trascurabili, come quelli concessi ai tre clienti non-partner del programma.

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Anche i giri d’affari la dicono lunga sulla differenza fra contratti stipulati e mere ipotesi di business: a tutto il 31 dicembre 2016, scrive la Corte a pagina 37, i primi ammontavano a 2.319 milioni di dollari attualizzati, le seconde a 14.200 milioni, oltre sei volte tanto. In vari casi si tratta di briciole, ancorché preziose per i fatturati delle aziende più piccole: basta ricordare i 17 milioni di dollari di lavoro commissionato da qui al 2026 a quattro diverse società per la fornitura di componenti per il motore Pratt & Whitney F-135. Due calcoli (10 anni, quattro aziende) danno subito l’idea.

Che la nostra partecipazione industriale al programma abbia, come dire, un difetto nel manico – tolta Leonardo, cui è andato finora il 79% di quei 2.139 milioni – lo riconosce lo stesso generale Vincenzo Camporini, fermamente contrario alle letture negative della relazione date da alcuni quotidiani. “Alle ultime competizioni,” ha ammesso in un’intervista, “le nostre industrie si sono presentate l’una contro l’altra, ed è stata una débacle. Credo che la lezione si stata appresa”.

La Corte dei Conti non tralascia un po’ di ottimismo: “Il tasso di concretizzazione delle opportunità in contratti e ordini di acquisto, corrispondente ad una percentuale media del 16%, non è tuttavia disarmonico rispetto all’andamento del programma, in quanto le opportunità pertengono prevalentemente alla fase di produzione dei velivoli e dei sistemi propulsivi, e attualmente la flotta di velivoli già consegnati ai paesi partecipanti è al di sotto del 10%. L’incremento del numero dei velivoli che saranno commissionati dai partner nei prossimi 5 anni lascia pertanto intravedere come ormai prossima la possibilità di una più rapida crescita dei ritorni industriali”.

La nota positiva è però basata su una fonte di parte, quello studio di PriceWaterhouseCooper commissionato da Lockheed Martin nel 2013, che colloca il picco dei ritorni economici per il nostro paese fra il 2019 e il 2023.

 

Meno attività MRO&U, meno occupazione

Ed eccoci ai ritorni sull’occupazione. Si fa “una stima di 3.586 posti di lavoro, ottenuta da 2.386 unità stimate da Leonardo-Divisione Velivoli (di cui 1.835, inclusivi della filiera produttiva ali, proiettati per la sola fase di produzione al 2025 e 441 unità per il supporto logistico del sistema d’arma); 65 unità stimate da Leonardo-Divisione Sistemi Avionici e Spaziali (di cui 28 unità per la produzione e 37 unità per il supporto logistico); nonché da quote di ritorno occupazionale relative al tessuto industriale su componenti non di produzione Leonardo, e quindi non compresi nelle stime predette. Tali valori sono in calo di circa il 7% rispetto alla situazione del primo semestre 2016 (…), principalmente dovuto alle mancate opportunità derivanti dall’esito negativo dell’assegnazione su base competitiva, da parte del JPO, delle capacità MRO&U (…). Nessuna industria italiana, ancorché riconosciuta idonea, è stata considerata la più qualificata tra quelle partecipanti”.

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Solo pochi anni fa in Parlamento i vertici dell’allora Finmeccanica, ferma restando la perdita di lavoro/occupazione causata dalla riduzione delle commesse da 131 aeroplani a 90, dissero che la maggiore fonte di introiti sarebbero state le attività di MRO&U di Cameri. A pagina 44 si legge che tra la FACO/MRO&U di Cameri e le altre aziende coinvolte si stimano “tra i 3.500 e i 6.400 posti di lavoro a seconda che sia presa in considerazione, per quanto riguarda il fabbisogno manutentivo, la sola flotta italiana (90 velivoli), oppure la flotta di F-35 operanti nell’area euro-mediterranea (circa 500 velivoli)”.

Ma qui i conti bisogna farli bene: Israele provvederà da sé, e la stessa cosa vorrebbe fare la Turchia. Quanto ai partner continentali del programma, la Gran Bretagna si sta costruendo proprie infrastrutture MRO&U che verosimilmente potrebbe mettere a disposizione di altri utilizzatori nord-europei del JSF, dalla Norvegia alla stessa flotta di JSF dell’Air Force Europe. Nella prospettiva peggiore, a Cameri finirebbero insomma per farsi “curare” oltre ai nostri, i soli 29 esemplari olandesi, ma limitatamente alla “mission” affidata all’Italia, cioè le ben poco nobilitanti manutenzioni “maggiori” sulla struttura dell’aereo; mentre per i 21 F-35A danesi almeno per ora si deve parlare solo di prospettive, prima ancora che di opportunità. I “circa 500 velivoli” – un dato della Difesa – sarebbero alla fin della fiera meno della metà.

Come abbiamo scritto ad agosto, la speranza di poter usare appieno gli immensi impianti novaresi anche una volta terminati assemblaggi e produzioni, si è affievolita dopo l’affidamento all’Olanda del magazzino ricambi per tutti gli F-35 europei. Sembra che ci sia stato un motivo dominante per escluderci da questa assegnazione: le regole doganali italiane sono troppo complicate. Forse è stato solo un pretesto, chissà.

La Corte ricostruisce i precedenti di questa vicenda: “Una speciale cooperazione si è instaurata tra Italia e Paesi Bassi, a partire dalla firma, il 30 marzo 2006, di un Memorandum d’intesa bilaterale per Production and Sustainment, che fu considerato dai rispettivi governi come la premessa di un potenziale piano logistico europeo (sul quale tuttavia erano sovrane le decisioni del Pentagono; nrd). La sinergia con i Paesi Bassi copre le seguenti aree: da un lato, l’assemblaggio e il collaudo finale (…) in Italia dei velivoli F-35 acquistati dall’Italia e dai Paesi Bassi; nonché trasformazione della suddetta struttura in un centro servizi MRO&U, in cui stabilire e sviluppare le capacità di supporto logistico per le flotte di velivoli F-35 di entrambe le nazioni; dall’altro lato, corrispondentemente, l’affidamento ai Paesi Bassi di una quota della gestione dei ricambi e di una quota della manutenzione dei motori, da commisurarsi alle ore di volo prodotte dai velivoli acquisiti dai due Paesi.

 Dopo un periodo di “congelamento” dovuto alle incertezze sui volumi di acquisto del Governo olandese, il 20 settembre 2013 venne firmato fra i due Paesi uno scambio di lettere per avviare la definizione dei dettagli della cooperazione industriale. Ciò condusse, il 22 aprile 2015, alla firma di un accordo tra i due Ministri per la difesa, per l’implementazione del predetto MoU bilaterale. L’accordo dettagliava (…) dal lato italiano l’assemblaggio di 29 dei 37 velivoli olandesi,a partire dal 2018 (…); dal lato olandese, la manutenzione di una quota dei motori dei velivoli italiani presso il centro di manutenzione regionale di Woensdrecht (selezionato dal JPO statunitense), a partire dal 2020-2021”.

FACO - Assemblaggio corpo centrale dell'ala

La quota maggiore del lavoro sui motori europei andrà come si sa alla Turchia, ma oltre all’Olanda anche la Norvegia in base a un accordo del dicembre 2014 sarà interessata da questo business. Nella relazione sella Corte non si fa comunque cenno a “quote” nella gestione dei ricambi, che di fatto poi è andata all’Olanda, in toto. Entro l’autunno il Pentagono assegnerà anche le commesse per il sostegno tecnico-logistico degli equipaggiamenti cosiddetti Non Air Vehicle, inerenti cioè l’infrastruttura informatica ALIS che presiede all’operatività e all’efficienza delle linee di volo, e tutta un serie di altri strumenti e sistemi aventi lo stesso scopo. Non momento di chiudere l’articolo si avevano notizie circa il possibile esito di queste nuove assegnazioni.

Alla luce di tutto questo, i famosissimi 10.000 nuovi posti di lavoro sbandierati anni fa si ridurranno a poco più di un terzo, e saranno nuovi solo in parte, “provenienti da altri ambiti del settore aerospaziale, che manterrebbe pertanto invariati il livello occupazionale e l’esperienza professionale accumulata”.

 

Quale sovranità nella Cybersecurity?

Eccoci alle ricadute tecnologiche. Anche qui la relazione non propone un’indagine interna ma semplicemente riferisce il punto di vista della Difesa, soddisfatta dei “contenuti tecnologici e capacitivi conquistati dalle nostre imprese”. Ma poi aggiunge:Più limitati progressi si registrano però nell’ambito motoristico e nel pregiato settore dell’avionica, area quest’ultima particolarmente interessante per la base industriale, in quanto suscettibile di promuoverne durevolmente la posizione di fornitore di capacità discriminanti su scala globale (nell’ambito del ciclo di vita di un sistema d’arma, l’integrazione di nuovi apparati o l’ammodernamento della cd. “suite avionica” è di solito attività anche più volte ricorrente).

 Infine, la sovranità, dove dopo le ombre si intravvede ora qualche luce, almeno per alcuni aspetti, mentre altri non vengono affrontati. La generazione dei Mission Data Files avverrà nei laboratori americani, ricorrendo a misure che dovrebbero tutelare la nostra sovranità su quei dati. A pagina 55 si legge che “Al fine poi di scongiurare la divulgazione di informazioni di esclusivo interesse nazionale, sono state previste una serie di misure, di graduale applicazione, atte a preservare il requisito di sovranità: per il momento, l’inserimento di taluni dati ritenuti maggiormente sensibili è stato limitato, per evitarne il trasferimento automatico; entro fine 2017, è prevista l’implementazione di un filtro nazionale (dispositivo hardware/software prodotto da una ditta italiana e posto sotto l’esclusivo controllo nazionale) che consentirà di bloccare automaticamente i messaggi e i dati che non si desidera trasmettere; a tale dispositivo nazionale dovrebbe aggiungersi, nel 2018, una soluzione multinazionale più generale, consistente in un ulteriore filtro software.

In tal modo, i dati nazionali risulteranno protetti a vari livelli: decisione sull’inserimento dei dati più sensibili; filtro esclusivamente nazionale; filtro di programma comune ai partner. In aggiunta, i dati nazionali relativi alle minacce utilizzati per la creazione dei Mission Data File verranno trattati in modo segregato da personale italiano in un laboratorio in corso di realizzazione a Eglin AFB, Florida (cd. NIRL – Norway and Italy Reprogramming Laboratory). Il personale li riceverà in apposita area “Italy’s eyes only”, all’atto della produzione dei Mission Data File italiani”.

 I giudici non fanno cenno alla questione Cybersecurity, strettamente connessa alla sovranità. Non è dato sapere se a quella richiesta dal sistema logistico ALIS centralizzato negli Stati Uniti provvederemo noi o gli Americani, o se lo faremo magari insieme, come pare abbia già fatto l’Australia ottenendo all’inizio dell’anno la Cybersecurity Accreditation per il proprio segmento di ALIS. Lo stesso vale per il sistema C4 (Command, Control, Communication e Computing) che gestirà prima-durante-dopo le missioni di questi aeroplani.

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La sovranità passa poi anche dalla disponibilità o meno di determinati sistemi d’arma, problematica su cui la relazione sorvola. Quelli qualificati per lo standard Block-3F si trovano solo in minima parte nei nostri arsenali: dei 5 destinati agli F-35A, l’Aeronautica Militare ne ha solo uno, il missile aria-aria AIM-120; per l’aria-suolo deve poter contare sulla Marina Militare, che all’uopo potrebbe passarle la bomba guidata GBU-32 JDAM da 1.000 libbre e, per gli F-35B STOVL, la GBU-12 Paveway II, entrambe utilizzate dagli Harrier II Plus imbarcati. Tanto gli -A quanto i -B di Aeronautica e Marina non hanno poi la possibilità di montare missili aria-aria a corto raggio a guida infrarossa, perché l’Italia non ha mai ordinato l’AIM-9X qualificato per il Block-3, ma dispone di un suo (migliore) sistema, l’Iris-T. Da notare due cose: che questi tipi di missili aria-aria devono stare fuori dalle stive d’armamento, riducendo in questo modo la stealthness del caccia; e che, a confronto dell’unica arma aria-suolo guidata che gli F-35A dell’AM possono usare, la GBU-12 dei marinai, i Tornado IDS/ECR che il JSF sostituirà ne hanno attualmente a disposizione cinque tipi diversi.

Ha infine colpito la notizia riferita dalla Corte sui quattro F-35A italiani attualmente dislocati negli USA per l’addestramento di piloti e specialisti: la Difesa ne chiede il rientro anticipato, per affiancarli al più presto ai quattro aerei già entrati nelle file del 32° Stormo: “Il raggiungimento di una “massa critica” di velivoli (…) consentirebbe infatti di anticipare a fine 2018 (rispetto al target attuale del 2021) il pieno utilizzo delle potenzialità operative del sistema. Allo stesso tempo, l’addestramento dei piloti italiani verrebbe svolto sul territorio nazionale”.

Qui ci sarà da rinegoziare gli accordi presi col Pentagono, che a suo tempo ci impose di contribuire con i nostri primi aerei all’addestramento direttamente presso le sue basi (Luke in Arizona per gli F-35A e Beaufort i  South Carolina per gli STOVL). Dovremo vincere le resistenze americane ma, prima ancora, soprattutto capire se l’addestramento sarà fatto presso quelle basi solo per la prima parte di qualificazione sul velivolo con l’utilizzo dei simulatori, e successivamente nel nostro paese per la conversione operativa (RAF e Royal Navy hanno già costituito uno squadron all’uopo), oppure totalmente in Italia.

 

Il “costo dell’incertezza”

Ci siamo infine presi la briga, scorrendo le ultime pagine di sintesi del rapporto, di contare i voti cattivi e quelli buoni dati al programma dai giudici contabili. Vediamo le insufficienze.

Pagina 57: “Le molteplici problematiche tecniche riscontrate negli anni (…) hanno portato con sé ritardi nella consegna delle capacità operative di cui era previsto il rilascio al termine della fase di sviluppo, e notevoli aumenti del costo finale di acquisizione a carico dei partner. (…) Per riconoscere la piena capacità di combattimento sarà necessario attendere il termine della fase detta di ‘ammodernamento successivo’, previsto per il 2021. (…) La seconda decisione presa dal Governo (aderire alle mozioni parlamentari; ndr) ha per ora prodotto solo un rallentamento del profilo di acquisizione fino al 2021, con un risparmio temporaneo pari a 1,2 miliardi di euro nel quinquennio 2015-2019, ma senza effetti di risparmio nel lungo periodo” (…).

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Pagina 58: “Quanto fin qui conseguito sul piano economico è solo in parte coerente con le aspettative e gli obiettivi enunciati dal Ministero della Difesa in termini di coinvolgimento dell’industria aeronautica nazionale al momento dell’approvazione parlamentare del 2009. Sul piano industriale, pur segnalandosi positivi risultati, la dimensione quantitativa (opportunità effettivamente contrattualizzate) e qualitativa (contenuti tecnologici e capacitivi) del contributo fornito dalla base industriale nazionale non ha per ora raggiunto le dimensioni attese. La partecipazione dell’industria nazionale, soddisfacente nel settore velivolistico, è meno estesa, invece, nell’ambito del motore e nell’area ‘nobile’ dell’avionica”. (…)

Nessun altro Partner (oltre all’Olanda; ndr) ha mostrato interesse a utilizzare la base come sito di assemblaggio per i propri velivoli. (…)  l’Italia è (…) tuttora parzialmente esposta alla competizione con la base inglese di Marham. (…) La competitività del sito di Cameri è fortemente dipendente dal grado di affidamento suscitato dal Partner italiano, che è a sua volta condizionato dalla stabilità del profilo di acquisizione. Appare legittimo parlare a tale proposito di un ‘costo dell’incertezza’, che si traduce in un duplice rischio di perdita per le imprese italiane, comportando non solo la riduzione del livello attuale delle commesse, ma anche la revisione verso il basso delle chance di lavoro futuro per gli anni di vita attesa del velivolo. (…) Appare (…) rischioso (oltre che contrario alle indicazioni parlamentari) impegnarsi fin d’ora in un “block buy” (anche limitato), contro il quale si è già pronunciato l’organo di controllo statunitense, stante il mancato completamento dei test destinati a dare una configurazione stabile al design ingegneristico, e a chiudere definitivamente la fase di sviluppo.

È peraltro difficilmente immaginabile che l’Italia possa ‘coltivare’ una posizione isolata, e comunque foriera di costi, laddove gli Stati Uniti e gli altri partner optassero per tale soluzione. (…) Per quanto riguarda i profili di sovranità nazionale (…) va mantenuta alta l’attenzione su taluni aspetti che sono suscettibili di mettere in gioco la sovranità operativa sul velivolo. (…) Occorre dare piena attuazione alle cautele che sono state previste per assicurare il pieno soddisfacimento del requisito di sovranità relativo alla non divulgazione di informazioni sensibili di interesse nazionale”.

An American JSF AF-4 from the 461 FLTS, Edwards AFB, CA, piloted by Maj. Charles "FLAK" Trickey performs the first contact and fuel transfer from a KC-767 foreign partner Italian Tanker.

Ed ecco i voti buoni. Sui ritorni industriali, a pagina 59, in apparente contraddizione con il “costo dell’incertezza”, si legge che Se i ritorni programmati sono risultati ridimensionati rispetto alle aspettative, essi non sono però compromessi, e il prossimo avvio della piena produzione (finora rinviato a causa dello slittamento temporale subìto dall’intero programma) lascia aperte le prospettive per il futuro. L’incremento del numero dei velivoli che saranno commissionati dai partner nei prossimi cinque anni lascia infatti intravedere come ormai prossima la possibilità di una rapida crescita dei ritorni industriali relativi alla produzione del velivolo, del motore e dei sistemi, nonché allo sviluppo delle conseguenti necessità manutentive. (…)

I costi già sostenuti non solo per la fase di sviluppo (…) ma anche per quella di produzione, nella quale i partner hanno certamente subìto le conseguenze degli incrementi di costo, ma potranno anche avvantaggiarsi delle diminuzioni di costo attese dalla maggiore efficienza produttiva”. Pagina 62, l’ultima: “Il volume economico stimato per i prossimi vent’anni, pur nella sua visione più ottimistica, assume dimensioni ragguardevoli (circa 14 miliardi di dollari) e non va sottovalutato l’effetto moltiplicatore sull’indotto”.

 Questi 14 miliardi di dollari di volume economico, per chi lo avesse scordato, sono semplici opportunità di business. Stimate.

Allora, com’è il bicchiere?

 

Immagini: US DoD, Difesa.it, Corte dei Cont e Lockheed Martin

Silvio Lora LamiaVedi tutti gli articoli

Nato a Mlano nel 1951, è giornalista professionista dal 1986. Dal 1973 al 1982 ha curato presso la Fabbri Editori la redazione di opere enciclopediche a carattere storico-militare (Storia dell'Aviazione, Storia della Marina, Stororia dei mezzi corazzati, La Seconda Guerra Mondiale di Enzo Biagi). Varie collaborazioni con riviste specializzate. Dal 1983 al 2010 ha lavorato al mensile Volare, che ha anche diretto per qualche tempo. Pubblicati "Monografie Aeree, Aermacchi MB.326" (Intergest) e con altri autori "Il respiro del cielo" (Aero Club d'Italia). Continua a occuparsi di Aviazione e Difesa.

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