L’intesa Arabia Saudita – Russia tra missili e diplomazia

Entrambi giganti del petrolio, Russia e Arabia Saudita, nonostante posizioni molto diverse sia riguardo agli assetti politici della Siria, sia sull’atteggiamento verso l’Iran, che Mosca reputa un alleato, e Riad un nemico, provano ad andare d’accordo sfoderando una notevole dose di spregiudicatezza diplomatica.

Tanto che poche settimane fa, dal 4 al 9 ottobre 2017, per la prima volta un sovrano saudita, re Salman al Saud, si è recato personalmente in visita a Mosca, incontrando il presidente russo Vladimir Putin e cercando un’intesa di massima su almeno alcuni dossier. In primis la Siria, su cui, pur restando le divergenze, ci si trova d’accordo sul garantirne l’integrità territoriale.

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Terreno comune è anche l’appoggio al presidente egiziano Al Sisi. Vero è che alcune settimane dopo è tornato ad approfondirsi il solco fra sauditi e iraniani dopo l’ennesimo lancio, lo scorso 4 novembre, dallo Yemen di un missile balistico a medio raggio Burkan 2-H (foto a lato) delle milizie sciite Huthi da due anni e mezzo in guerra con Riad. Missile che è stato prontamente abbattuto da batterie antimissile Patriot saudite, ma che ha spinto il regno sunnita ad accusare di “atto di guerra” la dirigenza della repubblica islamica d’Oltregolfo.

Il tutto si è accompagnato negli stessi giorni alle oscure manovre iraniane per l’egemonia sul Libano, in particolare mediante l’influsso sugli sciiti locali e sul partito armato Hezbollah, che hanno spinto alle dimissioni il primo ministro libanese filosaudita Saad Hariri, figlio di quel Rafik ucciso in un attentato nel 2005.

E si è intrecciato alla crociata interna che col pretesto della lotta alla corruzione, fra il 5 e il 6 novembre ha portato nel regno arabo alla incarcerazione di oltre 40 personalità fra cui 11 principi della casa reale e 4 ministri. Una manovra, orchestrata dal principe Mohammad Bin Salman, che oltre a essere erede al trono è ministro della Difesa e vice primo ministro, per soffocare dissidi interni alla casata ed eliminare possibili correnti che minino l’unità di comando del regno.

In questo quadro, il riavvicinamento alla Russia sembra riaffermare la volontà dell’Arabia Saudita di giocare come un attore a tutto tondo riconoscendo che la complessità dello scacchiere mediorientale richiede una maggior equidistanza rispetto alle due grandi superpotenze d’Eurasia e d’America, le quali, del resto, sono entrambe “infedeli”. Il che ha il suo peso per uno stato la cui maggior giustificazione ideologica è quella di custode della Mecca e di Medina.

Non bisogna infatti dimenticare che l’intesa fra Salman e Putin è arrivata in un periodo in cui le relazioni fra sauditi e americani sono un po’ altalentanti, nel senso che, al riallacciarsi dell’alleanza col viaggio di Donald Trump a Riad, nonché col sostegno saudita alle recenti dichiarazioni del presidente USA contro il patto sul nucleare iraniano, fanno da contraltare i manifesti malumori del Congresso di Washington verso la campagna militare saudita in Yemen.

Le strette di mano fra Salman e Putin hanno propiziato soprattutto un vasto accordo nel campo dell’industria militare, in aperta concorrenza col tradizionale approvvigionarsi dei sauditi dalle industrie occidentali, accordo di cui il fiore all’occhiello è senza dubbio la fornitura al regno arabo dei potenti missili antiaerei russi Almaz Antey S-400 Triumf.

 

Un “ombrello” per la terra del Profeta

La trasferta di Salman in Russia, nel tipico stile dei monarchi orientali, è stata davvero imponente, con un seguito di 1000 persone, da esperti tecnici e consulenti per finire con quelli che forse erano semplici lacchè. Ciò che più importa in questa sede è il mega-accordo del valore totale di 3 miliardi di dollari per la fornitura di armi e tecnologie militari russe che daranno in parte luogo a una produzione su licenza su suolo saudita, nell’ambito del piano con cui il regno che si fregia del titolo di “custode dei luoghi santi dell’Islam”, intende arrivare entro il 2030 ad essere autosufficiente almeno per il 50 % del fabbisogno di armi ed equipaggiamenti militari.

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La lista della spesa di Salman era particolarmente lunga, contemplando ad esempio numerosi sistemi tattici come missili anticarro Kornet EM, lanciarazzi campali TOS-1A (foto a lato) e lanciagranate AGS-30, nonché accordi per la costruzione su licenza del fucile d’assalto Kalashnikov AK-103 e delle relative munizioni in stabilimenti locali della SAMI, Saudi Arabian Military Industries, il leader saudita dell’industria militare, che si aspetta dagli accordi con l’ente russo Rosoboronexport, deputato all’export militare, la creazione di centinaia di nuovi posti di lavoro. Ebbene perfino negli stabilimenti SAMI verranno prodotte alcune parti di ricambio per il sistema d’arma più ambizioso comprato dai sauditi in Russia, l’antiaereo e antimissile Almaz Antey S-400 Triumf.

In tal caso ci troviamo di fronte a un sistema il cui peso è anche strategico, potendo esso intercettare velivoli e vettori missilistici, entro certi limiti, diretti verso il territorio saudita. Un sistema che, manco a farlo apposta, Riad concepisce primariamente come antemurale all’arsenale balistico del vicino Iran, lo storico rivale per l’egemonia nel Golfo Persico, il che rende ancora più interessante e colmo di interrogativi il via libera di Putin, se si considera che il governo di Teheran è da tempo alleato dei russi.

La fornitura di S-400, in numero di ben 12 battaglioni ciascuno con 8 veicoli lanciatori e un totale di 112 missili, più i veicoli di comando e supporto, faceva gola a Riad fin dal 2009 ma le trattative si sono protratte per anni, fra le alterne vicende nei rapporti fra i due Paesi, tantopiù che i russi più volte cercarono di rifilare ai sauditi i meno prestanti S-300.

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Ora invece Putin si è lasciato convincere da tutta una serie di considerazioni, in primis la speranza di influire sulla bilancia del Golfo Persico rendendo i sauditi più sicuri di fronte all’Iran per stabilizzare un teatro potenzialmente esplosivo. Non è certo interesse della Russia che un giorno scoppi un grande conflitto nell’area più petrolifera del mondo e il calcolo del Cremlino può avere una sua logica, al di là del mero affare commerciale, nel considerare che la soluzione migliore sia far sì che nessuno dei due contendenti sia tentato di attaccare l’altro, creando una versione regionale della dissuasione. Oltretutto, i russi possono così guadagnare credito presso il regno saudita in quanto possibili mediatori nelle future crisi.

Con un raggio di scoperta massimo dei suoi radar di 600 chilometri e un raggio d’azione di 250/400 a un’altitudine massima di ben 185, l’S-400 è un formidabile “ombrello” che permetterà all’Arabia Saudita di sventare gran parte delle minacce dal cielo, non solo a livello di aviazione, ma anche di missili da crociera e di missili balistici, purchè il loro inviluppo di volo non sia superiore alla velocità massima del missile antiaereo, ossia circa 17.000 km/h.

Il tutto abbinato alla capacità di sopravvivenza e flessibilità delle rampe autocarrate coi moduli lanciatori, che possono spostarsi a 60 km/h su strada e 25 km/h fuori strada, disperdendosi per i deserti dell’Arabia in modo da offrire poco margine a una eventuale azione preventiva nemica di soppressione delle difese aeree.

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L’Arabia Saudita disporrà così di un notevole rinforzo aii collaudati Patriot di fornitura americana. Del resto, il regno assegna grande importanza alla difesa aerea, tanto che vi dedica una forza armata autonoma, la quarta a fianco dei classici esercito, marina e aeronautica. E data la grande estensione del territorio della penisola arabica non stupisce l’entità della commessa che ne farà il terzo grande utilizzatore dopo la “madre” Russia e la Cina. Dietro alla fornitura, del resto, ci sono calcoli strategici ancora più intriganti, poiché i russi sono sicuramente ben informati sulla poco ricordata dimensione di Riad come potenza nucleare virtuale, per la quale disporre di una notevole forza di protezione da aggressioni dal cielo costituisce un fattore oltremodo tranquillizzante e stabilizzante.

Il successo, non solo finanziario ma anche in termini di pubblicità, che la commessa saudita sta assicurando al sistema S-400 Triumf ha spinto vari media americani, ad esempio The National Interest e Business Insider, a pubblicare a fine ottobre i commenti deleteri di esperti come Dave Majumdar e Mike Kofman, nonché il maggiore dell’US Marine Corps Dan Flatley, secondo i quali l’efficacia del sistema da difesa aerea russo sarebbe molto limitata non riuscendo in particolare a colpire i velivoli stealth e il nuovo F-35. Ma si tratta di affermazioni di cui non esiste prova e che si iscrivono certamente in una vera guerra d’informazioni, tantopiù che è noto che lo stesso F-35 non è uno stealth completo.

 

L’atomica compartecipata

Molto si discute sulla eventuale dimensione atomica dell’Arabia Saudita, legata a doppio filo a quella del Pakistan. Poiché si sa che i sauditi hanno finanziato a piene mani il programma atomico di Islamabad, viene comunemente considerato plausibile che a loro volta ne abbiano tratto vantaggio con la disponibilità occulta di ordigni, o almeno componenti di essi, che possano essere in caso di crisi trasportati in Arabia, quando non già presenti, stoccati in luoghi segreti, e montati nelle ogive dei piuttosto numerosi missili balistici a raggio intermedio di fabbricazione cinese in servizio con un’apposita forza armata totalmente dedicata dai sauditi ai missili strategici.

I russi lo sanno bene ed è intuibile che i loro servizi d’informazione esteri  abbiano un quadro della situazione ben più completo di quello disponibile sui mass media. D’altronde, almeno dal 2003 già la britannica BBC avanzò l’ipotesi di un patto in tal senso fra sauditi e pachistani. Perciò Mosca non può permettersi di emarginare il regno custode della Mecca e di Medina o, peggio, trattarlo da nemico.

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La fornitura degli S-400 si può leggere anche secondo questa chiave, per contribuire a dare sicurezza alla regione, trattandosi di armi difensive, e scoraggiare eventuali tentazioni da “primo colpo” nei vicini di Riad, Israele e  Iran.

In tutta l’Arabia ci sarebbero fino a cinque basi missilistiche per vettori balistici, la più vecchia delle quali, quella di Al Sulayyil, fu costruita da maestranze cinesi nel 1988 e si trova a 450 km da Riad. Ci sono poi, più o meno remote nelle distese desertiche dell’entroterra, Al Jufayr, la non confermata Ash Shamli, Rawdah e infine la più moderna, aperta dal 2008, Al Watah, che sta a 200 km dalla capitale saudita.

Tutte sono accreditate di vaste strutture sotterranee che comprendono gallerie da cui possono sbucare i veicoli erettori-lanciatori con rampa mobile che alla bisogna si disporrebbero sulle piazzole di lancio predisposte, uscendo all’ultimo momento dai loro nascondigli. I missili cinesi di cui è dotata la forza strategica saudita sono anzitutto i più vecchi Dong Feng (“Vento dell’Est”) DF-3 forniti nel 1988 e tuttora in servizio, tanto che solo nel 2013 ne venne ammessa ufficialmente l’esistenza e che dal 2014 vennero mostrati in pubblico.

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Ce ne sarebbe in servizio un numero imprecisato che viene valutato fra un minimo di 30 e un massimo di 120, con alta probabilità attorno ai 75-90 esemplari. E’ una forbice così vasta che di per sé la dice lunga sul fatto che le incertezze sull’arsenale strategico saudita sono almeno pari a quelle relative a quello di Israele.

Il DF-3, noto anche con la vecchia dizione CSS-2, ha una gittata di ben 4800 chilometri, il che significa che dall’Arabia tali ordigni possono colpire una vastissima area fra Europa, Asia e Africa, arrivando praticamente fino all’India, a Mosca (!) e all’Italia. Il carico utile nell’ogiva è superiore alle due tonnellate, sufficiente quindi a portare testate nucleari singole e anche multiple MIRV. Certo si tratta di un’arma  non all’avanguardia, a combustibile liquido che richiede un lungo tempo di preparazione al lancio e soprattutto dalla grande imprecisione, ma se dotato effettivamente di testata nucleare, il problema della precisione non si pone, a patto che si vogliano tenere sotto tiro obbiettivi estesi come le città e non puntiformi come specifiche strutture militari avversarie.

La forza balistica strategica saudita si è pero rafforzata dal 2007 con un nuovo vettore, sempre comprato dalla Cina, di cui la stampa occidentale, specie Newsweek, sosteneva nel 2014 essere stato acquisito in ben 538 unità, numero francamente esagerato. Si tratta del Dong Feng DF-21, o CSS-5, che, sulla carta, ha apparentemente prestazioni inferiori al predecessore ma più progredito ed studiato per agire a raggio più limitato e con maggior precisione.

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Il DF-21 (foto a lato)  ha una gittata di 2800 chilometri e porta un carico utile di circa 1000 chili, potendo portare teoricamente una testata termonucleare di potenza fra 250 e 550 chilotoni, o anche testate MIRV più piccole.

Anch’esso lanciabile da rampa mobile autocarrata, il DF-21 è uno strumento strategico più affinato, poiché a Riad, in fondo, non interessa minacciare l’Europa o l’India, bensì attenersi al proprio scacchiere regionale, tenendo a bada i principali attori della zona, ovvero Iran, Israele e Turchia. Peraltro, essendo un missile a combustibile solido è anche di pronto impiego, lanciabile con preavviso molto breve.

Voci non confermate sostengono che la vendita dei DF-21 all’Arabia SAudita sarebbe stata effettuata col beneplacito degli americani, dopo che tecnici della CIA avrebbero esaminato i missili verificando che l’ogiva era stata inabilitata al trasporto di testate atomiche. All’epoca della consegna, in effetti, fra 2007 e 2008, si era verso la fine del secondo mandato presidenziale di George W. Bush, notoriamente amico personale e per “tradizione di famiglia” della casata Al Saud, e questio potrebbe aver contribuito a far sì che gli Stati Uniti chiudessero un occhio.

Ma non si può certo avere garanzia che davvero le ogive siano davvero inabilitate a testate nucleari, tantopiù che eventuali modifiche per riadattarle non devono certo costare troppo care al danaroso reame dell’oro nero.

Sembra invece infondata, o perlomeno senza prove, la voce diffusasi specialmente dopo il 2006 secondo cui i sauditi avrebbero comprato anche un altro missile balistico a medio raggio, il Ghauri pachistano, non è chiaro se nella versione Ghauri I o II, comunque con gittata compresa fra 1500 e 1800 chilometri. Si diceva ce ne fossero diversi schierati in silos di lancio sotterranei nella base di Al Sulaiyil e l’unica plausibilità è data dalla già citata condivisione tecnologica Pakistan-Arabia Saudita.

 

Insinuarsi davanti agli USA

Il citato apparato strategico saudita, più o meno con potenzialità nucleari, è ben noto ai russi, i quali sicuramente si aspettano che i loro S-400 vengano messi anche a protezione delle basi di lancio dell’acquirente. La vendita dei missili antiaerei può quindi essere letta, su una prospettiva più ampia, come una mossa che può portare Riad a sentirsi più sicura, con un deterrente più protetto, probabilmente nella segreta speranza del Cremlino che in tal modo il regno islamico si tranquillizzi e diminuisca un po’ la sua acredine verso l’Iran.

Un sottile gioco diplomatico che si arricchisce anche di un altro scopo, ovvero fare concorrenza agli Stati Uniti che con Trump si stanno riavvicinando ai sauditi dopo alcuni anni di eclisse. La concorrenza è giocata anche su un fronte non direttamente militare, ma pienamente strategico, soprattutto per un paese arido che di suo produce ben pochi generi alimentari, quello delle forniture cerealicole.

Infatti il 30 ottobre l’ente statale agricolo russo Rosselkhoznadzor ha divulgato che fra luglio e ottobre 2017 le esportazioni di granaglie verso il regno saudita sono salite del 22% rispetto al medesimo periodo del 2016, toccando 854.000 tonnellate, il che ha fatto balzare in un anno il reame della Mecca dal decimo al quarto posto mondiale fra nella classifica delle nazioni importatrici di cereali russi.

Un bello smacco per gli stessi USA, che hanno sempre fatto parimenti affidamento alle loro proprie esportazioni di cereali come arma geopolitica, tanto che negli ultimi tempi dell’era sovietica, quando l’URSS aveva un’agricoltura allo sfascio, Washington vendeva grano perfino al nemico per eccellenza.

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Il momento è propizio per i russi, poiché nonostante la simpatia personale fra re Salman e il capo della Casa Bianca, permangono alcuni problemi sul tappeto. Il 15 ottobre il sovrano arabo ha parlato per telefono con Trump ringraziandolo apertamente per le prese di posizione contro l’accordo del 2015 sulla limitazione delle tecnologie nucleari iraniane. Ma fin da due giorni prima, il 13 ottobre, una alleanza trasversale di deputati repubblicani e democratici della Camera di Washington ha iniziato a chiedere con forza la cessazione del supporto militare del Pentagono alle operazioni militari saudite nello Yemen, dove da marzo 2015 le forze di Riad sono impegolate contro i ribelli Huthi sciiti.

Fra i 30 deputati che si fanno portavoce della proposta di legge, denominata House Congressional Resolution 81, spiccano i democratici Ro Khanna e Mark Pocan e i repubblicani Walter Jones e Thomas Massie. Jones, peraltro, in aprile aveva già duramente attaccato il supporto USA ai sauditi sostenendo che ciò faceva di Washington “un alleato di fatto di “al-Qaeda nella Penisola Araba” (AQAP), accomunata ai sauditi dalla più riguda confessione sunnita.

La proposta, nata dalla segnalazione da parte delle organizzazioni per i diritti civili dei continui bombardamenti dell’aeronautica saudita sui villaggi yemeniti, chiede che venga interrotto l’intervento di cisterne volanti dell’USAF nel rifornire in volo i cacciabombardieri sauditi, nonché il supporto radar, satellitare e di intelligence nel fornire i dati sui potenziali bersagli.

La polemica sta montando al Congresso, tanto che dal 26 ottobre il deputato Khanna sta premendo per un’accelerazione dell’iter della votazione della legge al Congresso, commentando: “Non voglio essere complice dell’Arabia Saudita che non ha riguardo per la vita umana. Poiché l’America vanta il più alto standard in queste cose, non dovremmo cooperare coi sauditi. Compromette gli standard morali americani e siamo biasimati per le atroci azioni saudite”.

Ben si capisce come l’Arabia Saudita si senta in qualche modo insicura nel suo rapporto con l’America e intenda offrire una sponda anche ai russi, usando la stessa intesa tra Salman e Putin come spauracchio per cercare di alzare di nuovo le “quotazioni” della propria amicizia con Washington. Si spiega così anche il viaggio diplomatico-lampo che il 29 ottobre è stato compiuto a Riad dal giovane genero di Trump, Jared Kushner, nella sua veste di consigliere presidenziale.

Kushner era accompagnato dal vice consigliere per la Sicurezza Nazionale Dina Powell e dall’inviato USA per il Medio Oriente Jason Greenblatt. Sulla puntata di Kushner fra i sauditi poco è stato divulgato. Non si sa esattamente con chi si sia incontrato e se abbia parlato genericamente di questione israelo-palestinese, come vorrebbero far credere accenni nelle fonti ufficiali, oppure i più profondi aspetti dell’assestamento dei rapporti americano-sauditi in considerazione del parallelo farsi avanti dei russi, su cui gli USA vogliono probabilmente chiarimenti. Ed è assai probabile che, visti tutti gli antefatti che abbiamo esaminato, la seconda ipotesi sia la più plausibile.

 

Le ultime trame

Che la visita di Kushner abbia avuto a che fare in qualche modo con un possibile chiarimento coi sauditi rispetto alla loro posizione rispetto alla Russia, pare assodato. Più arduo dire se sia parlato, ovviamente a porte chiuse, anche della fragile situazione libanese, tornata alla ribalta il 4 novembre con le dimissioni del primo ministro filosaudita Saad Hariri, in segno di protesta per le trame iraniane nel Paese dei Cedri, in cui ormai l’egemonia sciita è così preponderante da assicurare, di riflesso alla guerra civile in Siria, una stabile retrovia strategica ai governativi siriani del presidente Bashar el Assad supportati dalle milizie libanesi Hezbollah.

Le dimissioni di Hariri sarebbero da considerare in tale quadro uno stratagemma per alzare la temperatura politica del Libano e far leva sulla sua multiconfessionalità per innescare una ulteriore destabilizzazione, in modo da ricreare nuovi problemi ad Assad e agli sciiti proprio mentre l’Isis è in rotta a Raqqa e nella valle dell’Eufrate.

Nelle stesse ore il ministro saudita degli Affari del Golfo, Thamer al Sabhan, aveva dichiarato che “tratteremo il governo del Libano come un governo che sta dichiarando guerra a causa delle milizie Hezbollah”. Molti considerano in effetti come una vera propria rappresaglia iraniana a queste parole e alla porta sbattuta da Hariri, il lancio la sera stessa del 4 novembre di un missile a medio raggio dallo Yemen, diretto proprio sopra la zona dell’aeroporto internazionale di Riad e abbattuto da un Patriot. Si trattava di un ordigno Burkan 2-H, un missile per molti aspetti ancora misterioso che è apparso da pochi mesi, in questo stesso 2017, fra le fila dei guerriglieri sciiti Huthi appoggiati dall’Iran.

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Un missile che sarebbe stato sviluppato tecnicamente dagli Huthi stessi sebbene appaia chiaro che essi non abbiano troppe possibilità di progettare e realizzare da soli un missile balistico accreditato di una gittata di ben 1400 chilometri e che può quindi colpire la maggior parte del territorio saudita.

E’ fin troppo palese che, assemblato in loco o trasportato via mare, il Burkan 2-H è farina del sacco dei tecnici iraniani, forse degli stessi Pasdaran, il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione. Anche in tale ottica va a quadrare il rafforzamento della difesa antimissile di Riad con l’acquisizione degli S-400 Triumf russi.

Si sospetta perfino che Riad si stia letteralmente preparando a uno scontro su vasta scala con Teheran anche tramite le citata “purghe” attuate dal principe Bin Salman, che fra i numerosi arrestati, detenuti in lussuose “celle” d’albergo, ha annoverato uno degli uomini più potenti del mondo, ossia il multimiliardario principe Alwaleed bin Talal. Fra i detenuti, udite udite, c’è nientemeno che uno dei fratelli maggiori del defunto fondatore di al Qaeda, Osama Bin Laden, ossia Bakr Bin Laden, tuttora il maggior azionista del colosso delle costruzioni Saudi Binladen Group di Gedda.

Esperti come il politologo francese Gilles Kepel hanno chiaramente interpretato le “purghe” come il perseguimento di un indiscusso controllo centralizzato. Ha spiegato al Corriere della Sera che “ogni principe aveva per sé un piccolo pezzo di governo, tanto che le decisioni importanti erano ogni volta pagate a suon di regalie. Il sovrano non era che un primus inter pares. Adesso le cose cambiano e si combatte per l’egemonia regionale, dove a Teheran sono in grado di fare scelte rapide, agili”.

Perciò anche Riad vuole un vertice più coeso. I sauditi non hanno più tempo da perdere, man mano che il fronte yemenita si fa sempre più pericoloso. Come si è visto il 5 novembre con il probabile abbattimento, pur ufficialmente etichettato come “incidente”, di un elicottero che trasportava il principe Mansur Bin Muqrin, vice governatore della regione di Asir, proprio sui confini con lo Yemen ed esposto a possibili missili antiaerei.

La guerra segreta Iran-Arabia Saudita continua a serpeggiare mentre Putin spera forse di porsi un giorno come arbitro della crisi.

Foto: Itar/Tass, Ministero Difesa Russo, al-Arabiya, Xinhua e Getty Images

Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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