NATO: ritorno al passato o crisi di mezza età?

Gli occhi del mondo politico mondiale sono rivolti al Mar della Cina, in occasione del “pellegrinaggio” di Trump tra Cina, Giappone, Corea del Sud e Vietnam. Pellegrinaggio in cui il novello “Ispettore Callaghan”, che non parrebbe aver impaurito più di tanto “rocket man”, sembra stentare un po’ a confermare il ruolo di superpotenza mondiale degli USA, uscendone “così – così”, almeno nei confronti della Cina.

Intanto nella grigia Bruxelles, l’8 e il 9 novembre ha avuto luogo la periodica riunione dei Ministri della Difesa dei paesi membri. Il Summit del 25 maggio scorso (di cui abbiamo parlato in termini non entusiastici su AD ha lasciato troppe questioni in sospeso e l’amaro in bocca a molti osservatori (e non solo per il fatto che Trump abbia poco elegantemente glissato sugli obblighi reciproci di “difesa collettiva” nei casi previsti dal tanto declamato e poco conosciuto “articolo 5”).

All’epoca ne abbiamo attribuito in parte la responsabilità all’esigenza di evitare qualsiasi potenziale frizione alla vigilia del G7 di Taormina, dove ci si attendeva che gli argomenti di contrasto tra USA e Europei sarebbero stati già fin troppo numerosi e che non si volesse ampliare il confronto anche in ambito NATO. Comprensibile.

Però adesso non è più così. Non c’è più la pressione mediatica che soffiava sul collo dell’Alleanza in occasione del “mini-summit” di maggio e qui si riuniscono per ben due giorni dei ministri della difesa.  Vediamo allora cosa ne è uscito.

 

La Corea del Nord e la minaccia nucleare

 Ovviamente la situazione in Corea del Nord è fonte di preoccupazione. Il Segretario Generale aveva preannunciato che il “focus” della discussione ministeriale sarebbero stati i programmi nucleari e balistici della Corea del Nord (definiti “una minaccia agli Alleati NATO, ai nostri paesi partner e alla politica internazionale di non-proliferazione”).

Al riguardo, il Segretario generale Jens Stoltenberg ha anche dichiarato che “la NATO ha le capacità e la determinazione di rispondere a qualsiasi aggressione”.

L’8 novembre, alle 14.00, per un’ora e mezza si è riunito il NATO Nuclear Planning Group in versione Ministri della Difesa. Il Nuclear Planning Group, in teoria, dovrebbe essere il massimo ente responsabile per definire e adattare costantemente all’evoluzione del contesto internazionale la politica nucleare dell’Alleanza.

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È stato creato (sia pure con nome diverso) nel 1966 ed è, in un certo senso, un retaggio della “guerra fredda”.  È ben chiaro che vi siano oggi rischi nucleari più critici che in passato (e non solo dalla Corea del Nord, si pensi all’Iran o al Pakistan, dove il potenziale nucleare potrebbe facilmente cadere nelle mani di movimenti islamisti, eccetera).  Ma prevedere tale incontro a monte di tutto sembra rispondere ad una priorità statunitense più che atlantica.

È vero che il Nuclear Planning Group deve riunirsi una volta all’anno in versione “ministri della difesa”, ma è un po’ dubbio a cosa serva. Intanto vi partecipano tutti i paesi NATO (incluso il Montenegro), ma non la Francia (per propria decisione) che è una delle tre sole potenze nucleari dell’Alleanza con USA e Gran Bretagna.

Teoricamente, il Nuclear Planning Group dovrebbe fornire un foro di concertazione in cui tutti i paesi membri (che possiedano o meno armi nucleari) decidono insieme “consensualmente” la politica nucleare dell’Alleanza (quanto poi gli USA vi si adattino, è tutto da vedere).

Non si sa cosa sia in effetti emerso dalla riunione (stante la delicatezza della tematica mi stupirei del contrario). Non posso non pensare, però, che se in merito alla minaccia nucleare coreana si possa certamente addivenire a una posizione comune, se il discorso dovesse essere allargato ad altri paesi con reali o potenziali capacità nucleari (quali ad esempio Pakistan e Iran) una visione comune sarebbe ben più difficile da conseguire.

Peraltro, anche in relazione alla minaccia nord-coreana, diretta in primis contro gli USA e suoi alleati nell’area pacifica, è chiaro che gli USA faranno ciò che ritengono necessario/utile indipendentemente da qualsiasi posizione assunta dal NATO Nuclear Planning Group!

E questo sarebbe vero anche se alla Casa Bianca ci fosse stato Obama o uno dei coniugi Clinton.

In un’ottica più ampia, mi pare evidente che una soluzione “politica” della crisi nord-coreana non possa prescindere dal coinvolgimento in primis di Pechino e in seconda battuta di Mosca. Mentre la NATO non ha alcun impatto sulla Cina, nell’ottica di un colloquio con la Russia qualcosa da offrire ce l’avrebbe, ma non sembra che si voglia percorrere questa strada (come vedremo anche in relazione ad altre decisioni assunte)

 

Ritorno alla guerra fredda e nuovi comandi

Se il Nuclear Planning Group potrebbe evocare nelle menti dei più anziani di noi ricordi di telegiornali in bianco e nero della nostra giovinezza, il prosieguo dell’incontro continua a presentare qualche strano dejà vu. Alle 15,45, per due ore e un quarto, si è riunito il Consiglio Atlantico in versione Ministri della Difesa (questa volta anche con la Francia). Considerando pure solamente il Segretario generale e i 29 Ministri, un alunno delle elementari ci direbbe che avevano 5 minuti a testa per esprimere le rispettive posizioni! Chiaro che tutto ciò che avrebbe potuto risultare contenzioso doveva essere accuratamente evitato.

In preparazione delle “ministeriali”, il Segretario Generale aveva dichiarato: “Abbiamo bisogno di una struttura di comando che possa assicurarsi che abbiamo le forze giuste, nel posto giusto, con l’attrezzatura giusta al momento giusto.”

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Stoltenberg ha ripetutamente dichiarato di aspettarsi l’accordo tra le nazioni sulle basi di una revisione della Struttura di Comando della NATO (quella che lui definisce la struttura portante dell’Alleanza) al fine di poter “continuare a fornire la deterrenza e difesa all’interno e al tempo stesso proiettare stabilità all’esterno”

Ciò richiede, secondo Stoltenberg, la creazione di un “nuovo comando per assistere nella protezione delle linee di comunicazione marittime tra Nord America ed Europa” e un ulteriore “comando per migliorare il movimento di truppe e equipaggiamenti all’interno dell’Europa

In pratica Stoltenberg, da quanto riportato dal sito ufficiale della NATO, considerando i progressi che ritiene che l’Alleanza abbia compiuto  in termini di capacità di rapido schieramento di forze a favore di paesi amici ed alleati, ha invitato i ministri a considerare cos’altro potrebbe fare l’Alleanza per incrementare “la capacità di movimentare forze militari“.

Nel merito, si è parlato di accordo sui “principi” (fundamentals). Non vorrei essere il solito malpensante ma è chiaro che sui principi generali, quando li si astrae dalle implicazioni pratiche e dagli interessi individuali connessi con la loro messa in pratica, è sempre facile trovare l’accordo (soprattutto da parte di politici e non di tecnici).

Quando poi si debba passare ai problemi pratici connessi con l’attuazione di tali principi il tutto diventa meno pacifico. Dove collochiamo il nuovo comando? Quale accontentiamo e quali scontentiamo tra le tante nazioni che vorrebbero averlo sul loro territorio? Quanto costerà al budget NATO, quanti ufficiali e sottufficiali occorrerà che le nazioni forniscano a loro spese.

È evidente che ciò risponda alla percezione  di una rinata minaccia russa. Tra l’altro i due novelli comandi, sia pure con una vocazione che apparirebbe prioritariamente logistica, sembrano ricalcare le aree di responsabilità che erano dei 2 Comandi Strategici dell’Alleanza durante la “Guerra Fredda” : SACLANT (Supreme Allied Commander Atlantic) e SACEUR (Supreme Allied Commander Europe).

L’Alleanza ha di fatto abbandonato tale dualismo negli anni novanta, per formalizzarne il superamento all’inizio di questo secolo con la costituzione di Allied Command Transformation e Allied Command Operations.

La “nuova” esigenza appare essere quella di supportare consistenti e rapidi movimenti militari dagli USA all’Europa e all’interno dell’Europa da Ovest a Est. Chi può beneficiarne?

epa06315456 NATO Secretary General Jens Stoltenberg gives a press conference ahead of the first day of NATO Defense Ministers council at alliance headquarters, in Brussels, Belgium, 08 November 2017. Nato defense ministers gathered a two days meeting. EPA-EFE/STEPHANIE LECOCQ

Ovviamente tutti i paesi dell’Est e Nord Europa che a noi mediterranei appaiono un po’ ossessionati dalla possibilità di azoni offensive convenzionali russe (convenzionali, perché il più probabile attacco cyber non si contrasta con lo schieramento di divisioni corazzate. Citerei in particolare Norvegia, Repubbliche Baltiche e Polonia.

Questa incrementata capacità di rapido schieramento di rinforzi contribuirebbe a rassicurare tali paesi in merito non solo alla volontà ma anche alla capacità dell’Alleanza di correre in loro soccorso. Quindi un passo fatto nell’ottica di un rinnovato impegno alla difesa collettiva (“articolo 5”). Ottimo.

La difesa collettiva resta il “core business” dell’Alleanza (sempre ammesso che poi dagli USA partano in caso di necessità tutti questi rinforzi poiché le dichiarazioni e le omesse dichiarazioni di Trump in merito agli impegni previsti dalla difesa collettiva lasciano qualche perplessità).

Peraltro, non si tratta solo di rassicurare. Non si è parlato di “sedi”, ma è evidente e giusto che il Comando destinato a facilitare l’afflusso di truppe sul “Fronte Russo” venga dislocato in uno dei paesi dell’Est Europa (si dice in Polonia, ma non lo si vuole scrivere). Quindi ci saranno anche dei risvolti di natura economica.

Il Comando che dovrà facilitare il rapido attraversamento dell’Atlantico potrebbe verosimilmente essere negli USA o più probabilmente in Gran Bretagna, che come potenza navale atlantica e tradizione marittima avrebbe un pedigree da far valere.

Però, a parte la rassicurazione politica della vicinanza della NATO e eventuali fringe benefits di natura economica, ci sarebbe chi potrebbe trarne anche altri vantaggi.

Una volta costituite tali strutture, queste potrebbero sicuramente essere utilizzate anche dagli USA per rischiaramenti di forze in Europa o attraverso l’Atlantico nel quadro di operazioni non di primario interesse NATO. Vedasi quanto avvenuto nel 2003, con l’estensione allo Stretto di Gibilterra dell’Operazione NATO Active Endeavour (finalizzata al contrasto del terrorismo nel Mediterraneo centrale e Orientale), aldilà degli obiettivi statuari della missione, al solo fine di garantire il naviglio USA e UK in transito diretto in Iraq per l’Operazione a guida USA “Iraqi Freedom”.

Tra l’altro, tale utilizzo di strutture NATO per operazioni USA potrebbe essere coerente con la proclamata partecipazione della NATO alla “Coalizione contro il terrorismo” a guida statunitense (come dichiarato a maggio scorso).

Ovviamente, essendo il potenziale aggressore identificato per nome e cognome, la pubblicità data a questi comandi non favorirà la distensione con Putin.

In un contesto europeo in cui i rischi assumono sempre più le forme di cyber-warfare o di hybrid-warfare ha davvero senso pensare al rapido rischieramento di imponenti forze convenzionali?

O si tratta essenzialmente di un “regalo” (costoso, ma poco utile) per appagare le richieste dei paesi dell’Est Europa?

Un’altra perplessità è che il “Nuovo Concetto Strategico” dalla NATO ha portato ad una radicale “Command Structure Review” avviata nel giugno 2011 fortemente voluta dal Segretario Generale pro-tempore (il danese Anders Fogh Rasmussen) e da Washington (dove c’era Obama).

La struttura di comando militare era stata oggetto di ingenti  tagli  non tanto in termini di personale (da 13.000 a 8.800) ma soprattutto con  la soppressione di numerosi comandi ricchi di esperienza (tra cui, ad esempio, del comando navale regionale di Napoli o del CAOC di Poggio Renatico, solo per citare i casi che ci hanno riguardato più da vicino). Mi chiedo se il contesto internazionale del 2011 fosse davvero così diverso e tanto più sicuro di quello attuale, o se siano soltanto cambiati i personaggi nelle stanze dei bottoni e la loro personale “vision”.

 

La nuova minaccia Cyber

 Ovviamente la crescente minaccia cyber non poteva essere ignorata e si ricorderà che l’anno scorso il cyber era stato riconosciuto come “operational domain” insieme a terra, mare e aria. Stoltenberg ha dichiarato che la “nuova” NATO Command Structure, così da lui come proposta, potrà garantire all’Alleanza una capacità di risposta alle minacce cibernetiche altrettanto efficace di quella “contro attacchi da terra, mare o aria“. Mi auguro, per tutti noi, che l’affermazione sia più meditata di quella, tristemente nota a noi italiani, di chi, in questi tre “domains”, si illudeva in passato di poter “vincere”.

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In tale contesto, è stata concordata la creazione di Cyber Operations Centre NATO che, nelle intenzioni del Segretario Generale “rafforzerà le nostre difese nel settore cyber e consentirà di integrare gli aspetti cyber nella pianificazione e nelle operazioni NATO ad ogni livello.”

Inoltre, sarebbero stati approvati una serie di principi al fine di consentire all’Alleanza di integrare le capacità di difesa cyber dei singoli paesi membri in operazioni militari dell’Alleanza.

Il problema del cyber è per certi aspetti simile a quello dell’intelligence, e non sempre alle dichiarazione d’intenti da parte di vertici politici segue una reale condivisione sul terreno da parte degli operatori. Occorrerà vedere come la questione si svilupperà.

 

Afghanistan: un incubo di cui non ci si riesce a liberare

Il secondo giorno, dopo aver parlato di massimi sistemi e di organigrammi, i Ministri della Difesa sia dei paesi NATO sia dei partner impegnati in Afghanistan, hanno confermato l’impegno dell’Alleanza a favore di tale paese e si sono impegnati a fornire più truppe sul terreno per la Resolute Support Training Mission.

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Facendo riferimento alla sua recente visita in Afghanistan, il Segretario Generale ha speso parole di elogio  per “il coraggio, la determinazione e le crescenti capacità operative” mostrato dalle Afghan National Security Forces”e che “le forze afgane stanno facendo progressi, anche se la situazione rimane molto difficile” Non avrebbe potuto dire cose diverse sia perché era presente all’incontro il Ministro della Difesa di Kabul sia perché doveva convincere gli Stari membri a continuare ad investire su tali forze.

Sono 16 anni che gli USA sono in Afghanistan, dal 2003 vi opera anche la NATO. Non voglio ripercorrere qui tutte le evoluzioni e mutamenti in missione e obiettivi che hanno caratterizzato tale operazione che richiederebbe qualche centinaio di pagine.

Dal gennaio 2015, però la NATO opera in Afghanistan con la missione Resolute Support (oltre a fornire consistenti aiuti economici alle autorità governative, sulla cui utilizzazione ovviamente non può esercitare un controllo capillare). Ovvero in ruolo di mentoring (train, advise and assist) e non di combattimento (almeno ufficialmente).

Il passaggio da ISAF a una missione di monitoraggio e addestramento si è basato sull’assunto che le ANSF (forze militari e di polizia Afgane) avessero, già tre anni fa, raggiunto livelli di efficienza tale da consentir loro di essere i “first responder”.

Su tale assunto chi scrive nutre qualche perplessità. Non so quanto rispondesse alla realtà afgana e a effettive evoluzioni della situazione sul campo e quanto, invece, fosse strumentale ad esigenze elettorali o finanziarie domestiche dei paesi contributori di forze (in particolare delle politiche interne USA).

L’importante era poter dire alle opinioni pubbliche che, in fondo, non era stato un altro Vietnam, ma un successo, e che i “nostri” ragazzi, anche se restava ancora “qualcosina” da fare, non avrebbero più “rischiato la vita” in quella terra.

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Oggi, la NATO è presente in Afghanistan con circa 13.000 militari di 39 paesi (NATO e partner). Quasi nulla rispetto ai quasi 140.000 di ISAF e Coalizione a guida USA nel 2011.

Evidentemente, però, quanto ipotizzato all’epoca in merito alle capacità operative delle ANSF, oggi non convince più e risultano necessari altri 3.000 uomini (ovvero un incremento degli effettivi del 23%!).

Tremila militari che per l’Alleanza dovrebbero essere facili da trovare ma che denotano come l’organico di 13.000 fosse pesantemente sottodimensionato.

La realtà temo sia che nonostante l’insistenza un po’ fastidiosa degli USA  e di Stoltenberg nel richiedere rinforzi, 3.000 unità è tutto ciò che si  sono trovati in mano al termine della questua.

Al solito l’assistenza economica e militare viene condizionata al fatto che l’Afghanistan proceda sulla via delle riforme democratiche e sulla condizione femminile, ben sapendo da entrambe le parti che ciò non potrà avvenire.

Ci si consola dicendo, come fa il Generale Nicholson (Comandante di Resolute Support) che gli Afgani sono adesso in offensiva e stanno conseguendo qualche risultato locale (sic) e che i Talebani “devono convincersi che non possono vincere ma che devono riconciliarsi con il governo” (gli stessi Talebani che hanno sempre rifiutato negoziati con Kabul finchè permangono truppe straniere nel Paese sottolineando, rispetto ai militari occidentali, che: “voi avete l’orologio, ma noi abbiamo il tempo dalla nostra parte”!.

Peccato che, come evidenziato da un giornalista afgano durante il question time, “più voi parlate di riconciliazione e più i talebani attaccano civili”.

In sintesi, la politica USA al riguardo sembra dettata unicamente dalle scadenze elettorali domestiche (presidenziali e di mid-term), gli europei non sembrano ancora aver elaborato una propria posizione e si allineano più o meno controvoglia a quella statunitense. A Kabul non si registrano grandi novità n termini di efficienza e lotta alla corruzione ma sembra andare bene così e, nonostante il graduale incancrenirsi di una situazione di crisi permanente, non pare si voglia incominciare a discutere in termini seri di quale sia l’end state che l’Alleanza si propone in Afghanistan.

 

Di cosa non si è parlato

 Ci sono alcuni aspetti di cui si sarà parlato nei bilaterali del Segretario generale, ma che, stranamente, non sono risultati degni di essere citati espressamente in Agenda.

Russia  La Russia è un player essenziale nella lotta al terrorismo islamista e nella gestione delle crisi in Medio Oriente ed in Nord Africa e sta’ progressivamente espandendo la sua influenza nel Mediterraneo.

Sarebbe utile tentare di coinvolgerla anche nella soluzione della crisi afgana, per evitare che saboti possibili soluzioni a lei sgradite.

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È sicuramente vero che da tempo la Russia ha boicottato il NATO Russia Council. È anche vero che le percezioni della Russia sono molto diverse tra gli Alleati. Ma il problema dei rapporti NATO-Russia va affrontato e non evitato per prevenire fratture interne. L’annuncio dei due comandi da costituire per far affluire truppe ai confini orientali dell’alleanza è un messaggio minaccioso che certo non intimorirà Putin ma fornirà ulteriore combustibile alla sua propaganda e alla sua retorica anti-atlantica. Abbiamo anche qualcos’altro da tirare fuori dal cappello a cilindro per compensare? Se non l’abbiamo, forse converrà incominciare a pensarci.

Global war on terror. Al “mini-summit” del maggio scorso era stato sbandierato ai quattro venti che la NATO entrava a far parte della coalizione per la guerra al terrorismo. Su questa testata avevamo espresso qualche perplessità al riguardo, ma che nella riunione dei Ministri della Difesa non si faccia neanche cenno non di cosa sia stato fatto finora (che ci è sfuggito) ma almeno di cosa si intenda fare in futuro appare un po’ strano. D’altronde, forse molti paesi europei, memori di cosa è successo quando hanno seguito USA in Iraq e Afghanistan, sperano fortemente che la roboante dichiarazione di principio finisca al più presto nel dimenticatoio.

Kosovo Può essere interessante (e per noi triste) notare come nei resoconti dei due giorni di “ministeriali” non appaia mai la parola “Kosovo”. Paese dove la NATO è impegnata dal 1999 e dove l’Italia ne regge il comando ed è il maggior contributore di uomini. Da almeno 10 anni ritengo che la NATO avrebbe dovuto ritirarsi da tale “provincia” eventualmente delegando all’UE le residue funzioni che non si possono (o non si vogliono) delegare ai kosovari. Che l’Alleanza si sia persino dimenticata di tale operazione? O che stia tentando di non far ricordare un altro vespaio in cui è entrata (anche lì su pressione USA) senza una chiara visione della exit strategy politica?

È chiaro che l’incapacità di raggiungere una posizione unitaria in merito al riconoscimento politico dell’indipendenza di un paese che, di fatto, ormai è indipendente (anche per “colpa” della NATO) rende difficile procedere e con il vento che spira oggi tra Madrid e Barcellona, tale riconoscimento non potrebbe mai essere unanime. Chiaro, ma non lo si sapeva anche prima?

 

In conclusione

 L’Alleanza sembra dibattersi tra l’incapacità di ammettere il suo fallimento politico (non militare) in Afghanistan e la ricerca affannosa di un nuovo, più rassicurante nemico alle porte di casa.

In questo contesto appare evidente l’assenza di una reale capacità dei paesi UE membri NATO (ben 21 su 29, senza contare il Regno Unito che ne sta’ uscendo) di assumere una posizione comune in seno all’Alleanza. Sicuramente per beghe interne, per una diversa percezione della minaccia russa, per diverse visioni in merito ai rischi provenienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente.

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Situazione che dovrebbe allarmarci quando, come spesso fa la Ministra Roberta Pinotti, si parla di “difesa comune europea”. Forse, per rendere possibile tale integrazione di politiche di sicurezza e difesa (a mio avviso indispensabile) non si può più guardare ad una NATO “strabica” strattonata sul Pacifico e “litigiosa” con i vicini di casa nè ad una EU di “separati in casa”, ma occorre pensare un “club” un po’ più ristretto ed elitario.

Infatti anche il PESCO (Permanent Structured Cooperation: in teoria un primo stadio di una eventuale futura difesa europea, da siglare il 13 novembre a Bruxelles in ambito UE) già è testimone di divergenze tra la visione di Parigi (che guarda a strumenti militari integrati impiegabili ovunque) e quella di Berlino che privilegia soluzioni più blande gradite all’ Est Europa.

Siamo probabilmente giunti al punto in cui determinate scelte di campo, sicuramente poco gradevoli, si rendono non più procrastinabili.

Foto: NATO, Reuters, KCNA, Difesa.it, Cremlino e EPA

 

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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