Quali paralleli fra i secessionismi spagnoli e italiani?

L’interessante e originale riflessione di Antonio Li Gobbi sulle conseguenze strategiche di una Catalogna indipendente – ipotesi che ad oggi sembrano allontanarsi un po’ con la fuga del relativo Presidente e colleghi ministri in Belgio, che certamente non sembra idonea ad infiammare gli animi degli indipendentisti – inducono ad una riflessione che nessun osservatore, soprattutto nostrano, sembra fare.

Ovvero perché quest’episodio si è svolto con tanta virulenza e convinzione da parte della popolazione locale, nonostante l’assenza di oppressioni e persecuzioni da parte del governo centrale,  e situazioni apparentemente analoghe in Italia – si pensi, limitandosi al richiamo di passati gloriosi ed evocanti,  alla leggendaria storia millenaria della Repubblica di Venezia, al cui confronto l’omologa di Barcellona repubblica marinara è  cosa assai modesta –  non destano particolari emozioni, per non parlare di passioni od ossessioni, del tutto inesistenti.

Per chiarirsi le idee è opportuno, come sempre, rivisitare i pregressi storici. La Spagna è unita da mezzo millennio, noi da 150 anni, nonostante sia sempre esistita, chez nous, un’analoga forte identità nazionale, origini parallele, storia intrecciata, religione comune, lingua ancora più condivisa socialmente, etc.

Ad un certo punto l’assurdità del nostro destino è diventata evidente e noi non siamo riusciti più a sopportare la disunione, la “serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!”, mentre gli spagnoli si sono parallelamente (e viceversa) stufati di un’unione un po’ forzata e “vecchia”, per così dire, che si portava appresso questa loro storia così gloriosa che pesava, impacciava e irrigidiva. Come succede a volte agli eredi di grandi famiglie che sentono il loro lascito come un gravame, più che come un stimolo a migliorarsi e a progredire.

Espresso in termini matematici, possiamo azzardare l’ipotesi che oggi la derivata “unionista” è da noi ancora tutto sommato positiva, mentre al di là di Pirenei è negativa, nonostante che nel mondo l’hispanidad sia molto più diffusa, importante e affermata dell’italianità.

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In aggiunta a questa condizione di base, noi abbiamo recentemente combattuto varie guerre nazionali, alcune di forte e fortissima intensità, che nonostante tutto hanno unito e realmente unificato – anche se non è politicamente corretto asserirlo, nell’Italia di oggi – un paese tradizionalmente rissoso ed eterogeneo dal punto di vista delle esperienze storiche. E’ l’unico motivo per il quale le due “inutili stragi” della nostra vicenda recente possono trovare una qualche – non dico giustificazione, ma almeno – consolazione storica, anche se la sproporzione fra i due fenomeni, unificazione e stragi, è evidente.

L’asserita guerra “civile” 43-45, l’unico esempio di scontro intestino della nostra vicenda contemporanea, fu essenzialmente eterodiretta, al seguito, e provocata, da invasioni esterne. Gli italiani furono in qualche modo costretti a spararsi addosso, peraltro in modo abbastanza limitato, almeno fino alla conclusione delle ostilità. Dopo il maggio ‘45 pare che la faccenda tracimò non poco, ma la guerra era formalmente finita e più che di un conflitto si trattò di una sommatoria di faide locali alimentate dalle contrapposizioni ideologiche planetarie del momento.

Viceversa, l’evento catartico della recente storia spagnola è stata la Guerra Civile del ’36-39 che merita del tutto le iniziali maiuscole per la ferocia del conflitto fratricida, comprese le sue profonde matrici politiche e ideologiche, e l’entità delle perdite e delle distruzioni che comportò. I caduti diretti e indiretti del conflitto sono stati stimati, a seconda dei parametri presi in esame, fra 300.000 a un milione, su un popolazione, 24 milioni, che era poco più della metà di quella italiana dello stesso periodo. Facendo gli opportuni paralleli, si tratta di perdite che vanno dall’equivalenza a quelle subite dall’Italia nella Prima Guerra Mondiale, nel caso meno cruento, a più del totale delle morti italiane dei due grandi conflitti del XX secolo, se si dà credito al milione di morti spagnoli complessivi.

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A tali perdite occorre aggiungere la lacerazione dell’anima ispanica che fu immensa, e quasi distrusse una nazione. La Spagna non fu più la stessa. Gli odi, le animosità e i rancori che esplosero non hanno avuto equivalenti in nessun’altra recente circostanza interessante un paese moderno e sviluppato dell’Occidente.

Neanche nella guerra civile americana che, pur provocando un numero analogo di perdite umane fu seguita da una riconciliazione quasi completa, almeno negli aspetti essenziali del vivere comune e della coesione di un popolo. Bisogna andare nella Russia primitiva dell’inizio secolo scorso, o in Africa e in Asia, per trovare analogie – chessò, negli avvenimenti successivi alla rivoluzione sovietica del ‘17, nelle varie guerre intestine cinesi del secolo XIX e XX, e nelle convulsioni centroafricane della fine del 900. O anche, più recentemente, nell’attuale catastrofe siriana.

Sembrava che gli strascichi della tragedia spagnola si fossero esauriti sostanzialmente nel corso di due generazioni, sopratutto dopo la fine del franchismo e il ripristino della democrazia, ma evidentemente non è così.  Quando certi legami si rompono in modo così traumatico, spesso è per sempre.

Non è un caso che proprio Barcellona, particolarmente colpita dalla Guerra Civile e dalla repressione franchista (la sua provincia ebbe le perdite più elevate fra le analoghe spagnole dopo quella di Madrid), sia la protagonista di questo soprassalto identitario che è anche, e forse di più, fortemente centrifugo. E’ tale nei confronti dell’essere spagnoli, fieramente tali, occorre aggiungere, come gran parte delle usuali e straordinarie manifestazioni dei nostri cugini iberici.

I quali per inciso sono veramente tali, cugini, intendo, oltre che fieri, molto più dei sbandierati parenti gallici, dai quali molto ci divide, anzitutto il carattere nazionale, profondamente differente, cosa che invece non è per i conterranei di molti imperatori “romani”.

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I turisti prendono o almeno prendevano, fino ai fatti delle settimane scorse, il continuo martellamento sul catalanismo come una specie di folklore, ma evidentemente non è e non era così. Quando andavamo a Barcellona un po’ tutti credevamo di essere in Spagna, ma eravamo veramente in Catalogna, come le scritte sui muri, il bilinguismo imperante, le pubblicazioni, il tam-tam locale ribattevano incessantemente. Non abbiamo mai preso sul serio qualcosa che ci veniva propinato forte e chiaro. La sorpresa di oggi deriva quindi dalla incredulità, col senno di poi ingiustificata, di allora.

Ciò premesso, in Italia tutto questo non esiste, anzi forse è vero il contrario. La pulsione aggregante che ha messo insieme gli stati italiani preunitari nel modo un po’ arruffato e precipitoso che sappiamo, complici una serie di circostanze irripetibili, fu reale e sentita da tutti, anche da chi non aveva la cultura per coglierne le valenze e le impellenze storiche (il Risorgimento frutto esclusivo delle élìte, che è di moda adesso, è una evidente truffa storica).

Le matrici dell’unificazione erano presenti da secoli: la vicenda delle origini peninsulari, così possente e condizionante; la religione, nata in Italia; condivisa da tutti, cresciuta e alimentata in massima parte per l’ opera di italiani di ogni origine; il grandioso contesto culturale dalle Alpi al Mediterraneo, che ha creato il manufatto-Paese di gran lunga più articolato e affascinante del mondo; la lingua, che si consolidò prima e meglio di ogni altro idioma europeo; l’omogeneità sociopolitica; la vicenda storica condivisa; le stesse modalità di antropizzazione – borghi e castella costruiti più o meno nella medesima maniera, la piazza, il campanile, il palazzo del comune o del signore, i vicoli, etc.,  –  tutto questo  non poteva che portare ad una unificazione profonda e molto più effettiva di quanto sia comunemente percepito.

Il frazionamento ottocentesco della Penisola in una decina di Stati e staterelli era innaturale, contrario alle leggi della gravità politica e anche al buon senso, prima di tutto. Al momento giusto, fu superato nello spazio di un mattino.

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Nessuno sostanzialmente ebbe alcunché da ridire, fuori e anche dentro (il brigantaggio, per quanto imponente e molto cruento, ha le cause locali e contingenti che sappiamo): che l’Italia si unificasse era fisiologico, nell’ordine naturale delle cose. E anche quello che è venuto dopo ha rafforzato i vincoli che tengono insieme i peninsulari ausonici molto meglio e molto di più di quanto loro stessi non immaginino. Persino la terribile e ingloriosa disfatta del 43-45 servì paradossalmente a mettere alla prova i legami: se l’italia (questa volta con l’iniziale minuscola) era riuscita, senza sfasciarsi o impazzire, a superare una prova del genere – la perdita dei riferimenti istituzionali, , dell’ideologia dominante, dell’onore, del rispetto di sé, dell’anima, di status internazionale, di terre e possessi importanti  – voleva dire che era ormai indistruttibile, che niente avrebbe mai potuto metterla in discussione.

Quindi con tutto il rispetto per chi se ne è fatta in passato una bandiera e una carriera, l’ipotesi di un vero secessionismo italiano che laceri l’unità nazionale è, a mio avviso, del tutto improponibile. Una volta tanto possiamo osservare i guai degli altri e semmai prepararci a dare consigli.  Ne abbiamo titolo. Ad esempio all’Europa, che sta gestendo il suo Risorgimento Continentale e non può continuare a far finta di niente. Deve governare il fenomeno, chiarendo ai secessionisti di qualsivoglia bandiera che il loro contesto di riferimento è, appunto, l’Europa, e che quindi il loro “drammatico” problema di collocazione equivale nella sostanza a quello di un provincia italiana che vuol passare dalle Marche all’Abruzzo, ovvero di un modesto fatto amministrativo. Analogo chiarimento deve essere esteso alle capitali nazionali, nel senso di non drammatizzare più del necessario e tener sempre presente il quadro generale nel quale tutto dovrà alla fine confluire, come i fiumi e i torrenti a valle di un versante montano.

C’è da sperare che il governo di Madrid, in primis, tenga presente queste ovvietà che, paradossalmente, non vengono evidenziate da osservatori e maitres a penser. Il pericolo è che la mancanza di finesse che Aldo Moro attribuiva alla diplomazia di Madrid si combini con lo spirito hidalghesco e un po’ lugubre che alligna nell’anima spagnola (“Viva la Muerte!” era il motto  della Falange nella Guerra Civile).

Quello stesso spirito che prima della riconquista delle isole Falkland, nel 1982,  portò un alto responsabile politico del governo Tatcher a dichiarare ”Se fra i militari argentini prevalgono quelli di origine italiana la guarnigione si arrenderà; se sono di origine spagnola, combatteranno fino alla fine e sarà dura!” Non è probabile, nella seconda decade del terzo millennio, ma non è escluso.

Foto AFP e AP

Ufficiale di Marina in spirito ma in congedo, ha fatto il funzionario Nato e il dirigente presso aziende attive nel settore difesa. Scrive da quasi un quarantennio su argomenti navali, militari, strategici e geopolitici per pubblicazioni specializzate e non. Vive a Roma.

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