Trump e Gerusalemme: e se l’obiettivo fosse il caos?

da Il Mattino del 13 dicembre 2017

Negli ultimi giorni diverse autorevoli osservatori hanno cercato di illustrare le ragioni che avrebbero spinto Donald Trump ad annunciare lo spostamento dell’ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, capitale che gran parte del mondo rifiuta di riconoscere come legittima per lo Stato ebraico in assenza di un accordo di pace con i palestinesi.

Diverse valutazioni sono emerse, alcune più orientate a inquadrare i possibili sviluppi in Medio Oriente, altre più inclini a valutare la decisione di Trump in un’ottica interna alle vicissitudini della sua Amministrazione.

Diversi analisti ritengono che Trump abbia voluto dare un forte segnale internazionale circa il rinnovato sostegno di Washington nei confronti di un’alleanza di ferro, quella con Israele, che l’Amministrazione Obama aveva offuscato, complice anche l’incompatibilità caratteriale tra Benjamin Netanyahu e il precedente inquilino della Casa Bianca.

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Per qualcuno la dichiarazione su Gerusalemme potrebbe puntare a catalizzare il consenso dell’elettorato (specie quello ebraico) intorno a Trump, il quale avrebbe al tempo stesso un credito da poter spendere nei confronti del governo israeliano per ottenere concessioni o contropartite in un futuro negoziato di pace con i palestinesi. Ipotesi affascinanti ma che offrirebbero benefici forse non commisurati ai rischi determinati dalla posizione assunta dalla Casa Bianca in termini di consenso, prestigio e credibilità internazionale. Quest’ultima fondamentale per una grande potenza che ha sempre svolto il ruolo di mediatore tra arabi e israeliani conseguendo risultati storici quali gli accordi di Camp David per la pace tra Egitto e Israele cui fecero seguito quelli tra israeliani e giordani.

L’annuncio di Trump mette in discussione il ruolo di mediatore ricoperto da Washington: non a caso il parlamento giordano ha chiesto al governo di Amman di valutare l’abbandono degli accordi di pace con lo Stato ebraico mentre Russia, Francia e Turchia hanno già iniziato a muovere le proprie pedine nella regione per accreditarsi come mediatori nella crisi israelo-palestinese e più in generale nei tanti focolai di tensione in Medio Oriente.

Certo Trump non esclude che Gerusalemme Est, o un suo sobborgo, possa un giorno essere capitale anche del futuro (teorico) Stato palestinese ma è evidente che l’annuncio dello spostamento dell’ambasciata ha toccato in modo brutale un nervo scoperto per tutto il mondo islamico.

Anche per questo è difficile credere che le dichiarazioni di Trump possano rinsaldare l’intesa tra Israele, Usa e il fronte arabo sunnita capitanato dall’Arabia Saudita. Un fronte cementatosi, pur con qualche distinguo, nel contrasto al comune nemico rappresentato dal fronte scita guidato da quell’Iran che è al tempo stesso il competitor diretto di Riad nel Golfo e in tutto il Medio Oriente e una minaccia (potenzialmente nucleare) per lo Stato ebraico.

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Pur senza aver registrato per ora lo scoppio di una nuova Intifada, la “querelle” su Gerusalemme rischia al contrario di ricompattare sciti e sunniti contro il nemico sionista accentuando in tutto il mondo islamico l’odio verso Israele (peraltro mai sopito) e gli Stati Uniti con un potenziale maggior rischio di azioni terroristiche o dimostrative contro il territorio americano o gli interessi degli Usa nel mondo.

Un prezzo così alto per incassare nulla se si considera che la nuova ambasciata a Gerusalemme sarà in piedi solo tra qualche anno e che il provvedimento statunitense che riconosce Gerusalemme capitale di Israele cin il via libera allo spostamento dell’ambasciata è stato varato dal Congresso nel lontano 1995 ed era rimasto finora congelato per ragioni di opportunità.

Quindi l’annuncio di Trump non offre alcun vantaggio agli Usa ma, al contrario, ne limita il peso e la credibilità in Medio Oriente creando un ulteriore vuoto d’influenza che altre potenze si accapiglieranno per occupare con conseguenze potenzialmente caotiche.

Il tutto in una fase di depotenziamento del Dipartimento di Stato sia in termini di risorse e personale che di peso specifico all’interno dell’Amministrazione in seguito alle crescenti diffidenze tra Trump e Tillerson.

Da alcuni anni l’Europa e gran parte del mondo osservano con sgomento una politica estera statunitense che già con Barack Obama è apparsa in più occasioni debole, confusa, in una parola inadeguata: dal ritiro affrettato dall’Iraq che ha aperto le porte all’Isis a quello anticipato dall’Afghanistan, addirittura preannunciato ai talebani un anno prima che avesse inizio. Per non parlare della blanda e ambigua guerra condotta contro il Califfato per tre anni e mezzo, quando nemici ben più consistenti vennero annientati in poche settimane.

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Washington ha alimentato le cosiddette “primavere arabe” che hanno scosso e rovesciato regimi con rivolte e guerre, ha destabilizzato la Libia e il Medio Oriente e, in Europa, l’Ucraina, Stato legittimo e democratico attraversato però dai gasdotti che portano in Europa il gas russo.

Tutto diventa più chiaro se si accetta il fatto che, da quando hanno raggiunto l’autosufficienza energetica, gli USA non sono più una potenza stabilizzatrice e non hanno più interesse a fare i gendarmi di un mondo che possono invece destabilizzare con minore sforzo e ridotti investimenti.

La politica di Washington, indipendentemente dal presidente in carica, risponde sempre agli interessi dell’America che oggi sembrano focalizzati sulla destabilizzazione delle aree energetiche a discapito dei suoi maggiori competitor, tra i quali l’Europa. Non è superfluo sottolineare a questo proposito che secondo alcune analisi gli Usa saranno già nel 2020 grandi esportatori di gas e petrolio.

La dichiarazione di Trump su Gerusalemme va forse considerata nell’ambito di questa tendenza a favorire il caos. Pochi hanno fatto caso che essa riaccende i fuochi in Medio Oriente proprio a pochi giorni dalla sconfitta definitiva dello Stato Islamico che, pur dopo tante lacerazioni interne al mondo arabo e islamico e in un confronto acceso tra sciti e sunniti, poteva offrire spiragli per una progressiva stabilizzazione della regione.

@GianandreaGaian

Foto AFP, Reuters e AP

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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