Alleati ma rivali: la disputa tra russi e iraniani in Siria
Nel corso del suo ultimo viaggio in Vicino Oriente, l’11 dicembre Vladimir Putin ha fatto tappa in Siria annunciando dalla base di Hhmeimm il ritiro delle truppe russe. Trova così conferma la previsione di Roger McDermott, uno dei più informati esperti di affari militari russi, che con quasi due mesi di anticipo aveva ipotizzato tale scenario, ventilato pubblicamente per la prima volta il 10 ottobre a Tel Aviv in un incontro tra il Ministro della Difesa russo Shoigu e il suo omologo israeliano Avgdor Lieberman.
Se l’entità effettiva e le proporzioni del ritiro di Mosca sono tutte da verificare (la Russia ha pur sempre siglato con Damasco un accordo che prolunga la sua presenza militare), il significato politico dell’annuncio appare chiaro. Accanto alla dimensione trionfalistica della mission accomplished anche in vista delle elezioni presidenziali di marzo prossimo, Putin cercherà di concentrarsi sempre più sul versante diplomatico per accreditarsi come honest broker della transizione e della pacificazione in Siria.
Se portato avanti con coerenza, tale sforzo potrebbe implicare per Mosca la necessità di allontanarsi dall’Iran: uno scenario che ormai diverse fonti anche di orientamento opposto iniziano a ritenere sempre più probabile o necessario.
Secondo l’arabista russo Leonid Isaev, ad esempio, nella fase post-conflict la Russia si trova nella necessità di cercare «nuovi interlocutori, anche fra gli avversari di ieri». Nella visione di un buon conoscitore della politica russa in Medio Oriente, l’ex ambasciatore israeliano in Russia Tzvi Magen, tra Mosca e Teheran esiste una divergenza di fondo sugli obiettivi di lungo periodo destinata ad accrescersi.
Oltre ad apparire saltuariamente su alcuni media arabi, tale percezione si è fatta ormai strada anche presso i vertici militari occidentali: l’estate scorsa il Generale Joseph Dunford, Capo di Stato Maggiore congiunto delle Forze Armate USA, ha dichiarato che – pur non potendo determinare chi fra Iran e Russia abbia ottenuto maggior influenza su Damasco – tra i due Paesi sussistono senz’altro delle priorità non conciliabili e il loro matrimonio di interesse in Siria non è destinato a durare.
Sul piano strategico, non vi è dubbio che le finalità di Mosca e Teheran siano differenti e che la cooperazione militare abbia rivestito una funzione tattica congiunturale. Soltanto Teheran è infatti interessata a mantenere saldamente Bashar al-Assad al potere nel quadro di una «iranizzazione» il più possibile capillare della Siria, funzionale a garantire il rafforzamento di Hezbollah in Libano e a consolidare il peso degli sciiti in Iraq, il tutto nel quadro dell’estensione di un arco pan-sciita a guida persiana di cui lo stesso sostegno agli Houthi in Yemen costituisce parte integrante.
L’obiettivo di Mosca in Siria era invece triplice: conservare e ampliare le proprie basi militari nel Mediterraneo; contrastare e prevenire l’islamismo sunnita in grado di colpire la stessa Russia; porsi come negoziatore e regista della pacificazione nel dopoguerra. Ed è proprio su questo ultimo punto che i nodi del problema iraniano della Russia vengono al pettine.
La competizione russo-iraniana durante la guerra
Un risvolto poco noto della guerra siriana è la sotterranea concorrenza tra Mosca e Teheran al fine di garantirsi il maggior grado di influenza sugli apparati politico-militari di Damasco. Si può parlare in tal senso di una «cooperazione tattica nel quadro di una competizione strategica» in cui i due attori hanno cercato di ritagliarsi il ruolo preminente.
La prassi di Teheran si è articolata in due direttrici: in primo luogo, l’invio di milizie sciite anche di differenti nazionalità, tra cui si possono menzionare la Brigata Abu al-Fadl al-Abbas, composta da sciiti siriani, le forze paramilitari irachene come Asa’ib Ahl al-Haq e Harakat al-Nujaba’, tutte supportate ed equipaggiate dal corpo dei Guardiani della Rivoluzione, da membri dell’Hezbollah libanese o dalle brigate Al-Quds del Generale iraniano Qasem Suleimani; o ancora la Brigata Liwa Fatemiyoun («Brigata dei Fatimidi»), composta da combattenti sciiti di provenienza afgana o pakistana.
Nel 2015 aveva suscitato scalpore la misteriosa morte di Rustum Ghazaleh, alto ufficiale siriano sunnita ucciso in circostanze mai chiarite e riconducibili, secondo alcune fonti, proprio alla sua opposizione all’eccessivo coinvolgimento dell’Iran nella pianificazione tattica. In diverse fasi del conflitto, ufficiali iraniani o libanesi avrebbero avuto accesso quasi esclusivo alle sale operative, con piena facoltà di trasferire dal fronte i soldati siriani e persino di passarli per le armi in caso di collaborazione col nemico. In particolare, la 9a Divisione dell’Esercito siriano sarebbe stata sotto il comando diretto degli Iraniani, almeno stando ai racconti di alcuni disertori.
Proprio per controbilanciare tale processo di «sciitizzazione» delle forze sul campo, oltre al supporto aereo Mosca ha progressivamente intensificato la propria presenza diretta, in particolare con la costituzione del 4° Corpo d’Assalto (provincia di Latakia, ottobre 2015) o del 5° Corpo d’Assalto (Damasco, novembre 2016), reparti dell’Esercito siriano ma con funzioni di comando e controllo gestite da Russi.
Tra le milizie irregolari, invece, i Russi hanno tentato di assumere la leadership di gruppi armati sunniti pro-Assad: fra i casi riusciti, si può menzionare quello della Brigata palestinese Liwa al-Quds, inizialmente sostenuta dallo stesso Iran ma poi finita sotto controllo di Mosca, come mostrano anche diverse fotografie che ritraggono militari russi accanto ai combattenti della brigata.
Il Cremlino ha deciso inoltre di inviare alcune forze d’èlite dal Caucaso per gestire la sicurezza al fine di frenare l’influenza sciita e «conquistare i cuori» della popolazione locale. L’operazione è stata avviata a fine 2016 con l’invio di un reparto di 500 uomini ad Aleppo, provenienti dai battaglioni ceceni «Vostok» e «Zapad», con compiti di polizia militare e distribuzione di aiuti umanitari; poi raggiunto da un altro battaglione proveniente dall’Inguscezia. Le zone interessate hanno riguardato la provincia di Daraa, la parte orientale di Ghouta e la città di Rastan, con l’installazione di check-point ed assegnazione di incarichi di humint ed infiltrazioni nell’ISIS.
Le visite in Cecenia di leader religiosi siriani, così come gli annunci sulla futura creazione di un campus dell’Università di Damasco a Grozny, sembrano indicare che il fine dell’iniziativa fosse appunto quello di aumentare il proprio credito presso la popolazione, facendo leva sul background religioso e sottraendo influenza all’Iran.
Un’altra importante zona d’ombra che ha caratterizzato la cooperazione militare russo-iraniana è costituita dalle operazioni israeliane in territorio siriano avvenute successivamente all’intervento di Mosca.
Oltre ai ripetuti attacchi ai convogli e ai depositi di munizioni ai Hezbollah nella regione di Qalamun, al confine siro-libanese, tra 2015 e il 2016 Israele ha compiuto con successo alcune operazioni mirate a Damasco, come l’eliminazione dei suoi leader Samir Kuntar e Mustafa Badreddine (sebbene in entrambi i casi l’attribuzione sia controversa). A ciò si aggiungono decine di attacchi aerei perpetrati anche all’interno della MEZ (Missile Engagement Zone) coperta dalle batterie anti-missile S-300VM Antey-2500 e S-400 Triumf schierate dai Russi.
È implicito che Mosca abbia volutamente tollerato molte incursioni di Israele in Siria contro Hezbollah, in cambio della neutralità di Tel Aviv all’insieme dell’operazione russa in sostegno di Assad. Tale può essere stato il contenuto del deconfliction talk tra il Capo di Stato Maggiore russo Valerij Gerasimov e il suo omologo israeliano Gadi Eizenkot avvenuto a Mosca poco prima dell’avvio dei bombardamenti russi, il 21 settembre 2015, e ufficialmente dedicato a prevenire incidenti aerei in vista dell’inizio dell’operazione russa.
Alcune fonti datano invece al marzo 2016 la formalizzazione dell’accordo con cui Israele ha garantito alla Russia neutralità nel conflitto siriano, come contropartita all’impegno del Cremlino a non rifornire di armi russe Hezbollah oppure a non ostacolare raid mirati dei caccia israeliani contro i clienti del suo alleato iraniano.
Tra forze russe e iraniane non sono mancati neppure attriti sul versante operativo: nell’estate 2016, Teheran ha prima concesso e poi improvvisamente revocato l’utilizzo straordinario della base di Hamadan, nell’Iran occidentale, da cui partivano i bombardieri strategici russi TU-22M3 per colpire le postazioni nemiche.
L’eccessiva pubblicità di Mosca all’operazione, finalizzata ad accreditarsi come protagonista assoluto della lotta all’ISIS, è stata recepita come un «tradimento della fiducia» da parte iraniana.
Anche alcuni atti simbolici vanno nella medesima direzione: nell’agosto 2017 il Generale Suheil Al-Hassan, comandante dell’unità speciale siriana «Forze Tigre» (e in alcuni frangenti indicato come un papabile per la successione ad Assad), ha ricevuto una spada cerimoniale direttamente dal Generale Gerasimov, quale onorificenza «per il coraggio e il sacrificio nel combattere i terroristi nel Paese».
Diffuso pubblicamente in rete, il video della premiazione è un chiaro tentativo di mettere il cappello russo ai successi militari, oscurando il ruolo iraniano in quella competizione per il controllo degli apparati siriani che ha avuto riscontri anche molto più concreti.
Secondo un’inchiesta de «Le Figaro», che cita fonti anonime di diplomazia e intelligence, i Russi avrebbero cercato senza successo di promuovere uomini di fiducia persino all’interno della guardia personale di Assad, composta da membri siriani e iraniani del corpo Al-Mahdi. Il principale referente di Mosca nelle relazioni con i vertici siriani non sarebbe né Ali Mamlouk, consigliere speciale di Assad indicato in passato come filo-russo, né il capo del servizio informazioni delle Forze aeree Jamil Hassan, bensì Mohammed Dib Zeitoun, a capo della Direzione Generale per la Sicurezza.
Altro target di interesse di Mosca è stata la Guardia Repubblicana: sempre secondo il quotidiano francese, Mosca avrebbe sponsorizzato il generale Talal Makhlouf, convincendo Assad a promuoverlo in sostituzione del generale Badi al-Maali.
Che Makhlouf possa essere uomo vicino a Mosca sembra asseverato da una fonte egiziana, che parla della sua ulteriore promozione al vertice della Guardia a novembre scorso (al posto di Maher Assad, fratello di Bashar) come dell’avanzamento di un Russian-backed commander, benché non risulti chiara l’effettiva posizione attualmente occupata ai vertici dell’organizzazione.
Le incognite del dopoguerra
Alla luce della competizione strategica russo-iraniana per il controllo degli apparati siriani, un effettivo ritiro di Mosca suona come un segno di debolezza, in un periodo in cui si moltiplicano i rumors circa l’installazione di basi militari iraniane permanenti su territorio siriano (ad esempio ad Al-Kiswah, 14 km a sud di Damasco).
In definitiva, mentre proclama missione compiuta con la vittoria sull’ISIS e ambisce a farsi regista della pacificazione, Mosca lascia una situazione sul terreno dove l’influenza dell’Iran continua ad accrescersi e ciò rende problematico gestire una transizione che accontenti anche gli avversari regionali di Teheran.
Israele – che reclama una zona demilitarizzata di 40 chilometri al confine e l’uscita di pasdaran iraniani e libanesi dalla Siria – non sembra molto soddisfatta delle promesse russe e a inizio dicembre ha già colpito la base iraniana ad Al-Kiswah.
Anche per l’Arabia Saudita il nodo da sciogliere non è più la permanenza o meno di Assad al potere, bensì il ritiro degli Iraniani dalla Siria: nel riavvicinamento russo-saudita dell’ultimo anno, tra accordi sui tagli alla produzione petrolifera e commesse militari, tale questione è rimasta costantemente sul tavolo.
Il futuro assetto della Siria potrebbe dipendere in buona parte da come Mosca riuscirà ad attenuare l’influenza iraniana su Damasco, cercando magari di coinvolgere la comunità internazionale nella messa in sicurezza del Paese e di favorire l’afflusso di capitali occidentali o delle monarchie del Golfo nell’onerosa ricostruzione.
Con i colloqui di pace di Astana, che da gennaio a dicembre 2017 hanno avuto ben otto sessioni, la Russia è sicuramente riuscita a raggiungere risultati importanti, come la fissazione delle de-escalation zones e la mediazione tra Turchi e Iraniani.
Proprio l’indebolimento della Turchia, che dal fallito golpe contro Erdoğan ha ammorbidito di molto le sue posizioni cessando di sostenere le fazioni anti-Assad, è il fattore che ha consentito a Mosca di essere al contempo parte attiva del conflitto e organizzatore dei negoziati.
Ma la recente offensiva siriana su Idlib con il contributo delle milizie pro-Teheran (mentre già da tempo, secondo il «Guardian», l’Iran ha favorito il massiccio popolamento di comunità sciite nel sud per farne una continuazione geografica del Libano), sta provocando una nuova levata di scudi da parte turca: ciò dimostra quanto siano precarie le manovre di Mosca, non in grado di controllare gli alleati e sempre ambigua tra il sostenerli e il frenarli.
Sinora i Russi si sono mostrati anche capaci di notevoli giravolte diplomatiche. Ad esempio, per gran parte del 2017 hanno appoggiato l’ipotesi di una Repubblica siriana non più «araba» ma federale (abbozzando anche una proposta di Costituzione che prevedeva l’autonomia del Rojava curdo), mentre su pressione di Ankara e della stessa Teheran adesso sembrano sostenere l’«integrità territoriale» della Siria sacrificando proprio i Curdi.
A fine gennaio è previsto il Congresso per il Dialogo Nazionale Siriano a Soči, che si annuncia come il tentativo russo di avviare la riconciliazione. Per Mosca sarà molto difficile trovare la quadratura del cerchio, in quanto l’Iran rappresenta un partner essenziale in altri teatri (Afghanistan e Asia centrale) ma il suo peso in Siria è oggi fonte di problemi.
Per convincere Teheran a ridurre la sua presenza, Mosca potrebbe continuare a lavorare sul fronte interno siriano, o più probabilmente garantire a Teheran pieno appoggio contro gli Stati Uniti nella disputa sulla revisione dell’accordo nucleare in cambio di un sostanzioso ritiro iraniano.
Il dopoguerra ha ancora molte incognite, perché Teheran ha speso moltissimo in termini economici e di vite umane e vorrà capitalizzare tale sforzo sul piano del prestigio e dell’influenza geopolitica. La «missione compiuta» di Putin potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro, se il risultato finale fosse la trasformazione di gran parte della Siria in un feudo iraniano funzionale allo scontro di Teheran con i Sauditi e con Israele, d’ostacolo alla divisione in sfere d’influenza che la Russia si sforza invece di perseguire.
Foto: forze russe in Siria (RIA Novosti, TASS e Ministero della Difesa Russo)
Dario CitatiVedi tutti gli articoli
Laureato in Storia Contemporanea con un Ph.D. in Studi Slavi, è analista politico, interprete e traduttore specializzato sulle aree russofona e francofona. Ha lavorato presso il Ministero degli Affari Esteri e svolge incarichi di docenza sulla geopolitica dell'Eurasia per alcuni Master universitari. E' Ufficiale della Riserva Selezionata dell’Esercito Italiano con il grado di Tenente.