E’ Pechino a godere nella lite sul “bottone più grosso”
da Il Mattino del 4 genbaio 2018
Surreale e allusiva, la sfida a distanza tra Kim Jong-un e Donald Trump continua anche nel nuovo anno sui binari del grottesco linguaggio a cui ci aveva abituato l’anno precedente. Dopo il confronto a “chi ce l’ha più lungo” (il missile balistico) ora siamo al “chi ce l’ha più grosso”, il bottone rosso che simbolicamente lancia le armi atomiche.
“Sulla mia scrivania c’è un pulsante atomico, la nostra forza nucleare è stata completata” ha detto il dittatore nordcoreano aggiungendo che “l’intera area degli Stati Uniti continentali è sotto il raggio d’azione nucleare”.
Kim ha poi ribadito che l’arsenale nucleare nordcoreano ha un ruolo di deterrenza, “queste armi verranno usate solo se la nostra sicurezza verrà minacciata” ma dall’altra parte dell’oceano l’inquilino della Casa Bianca non poteva sottrarsi alla “sfida dialettica”.
Con un tweet Trump ha infatti risposto che “ho anch’io un pulsante nucleare, ma è molto più grande e più potente del suo e il mio pulsante funziona”. Un duello tra “bulli” a cui ha replicato da Mosca il senatore Frants Klintsevich, presidente della commissione Difesa della Camera alta del Parlamento, invitando i due leader a competere su chi è più ragionevole piuttosto che su chi ha il bottone nucleare più grande.
Trump ha voluto ricordare al leader asiatico che l’arsenale nucleare statunitense è enormemente più potente, versatile ed efficiente di quello della Corea del Nord, ultima entrata nel ristretto “club” atomico internazionale.
Alle 20/40 testate che secondo le stime compongono l’arsenale di Pyongyang, in parte sganciabili sul bersaglio con bombe d’aereo e in parte imbarcabili sulle testate dei missili balistici, Washington contrappone oltre 7mila armi nucleari (più altre migliaia stoccate in riserva) di cui 1.800 di pronto impiego.
Si tratta di un arsenale diversificato che passa dalle testate termonucleari affidate ai missili balistici intercontinentali basati negli Usa o a bordo dei sottomarini, ad armi di potenza più limitata imbarcate su bombardieri, missili da crociera, aerei da combattimento, navi e in grado di distruggere una città o anche solo di annientare un bunker dopo essere penetrate per decine di metri in profondità, rilasciando limitate dosi di radioattività.
Armi nucleari strategiche, tattiche e “mini nukes”, pensate queste ultime per bersagli di alto valore strategico quali i laboratori sotterranei delle armi di distruzione di massa nordcoreane.
Trump ha “il bottone più grosso”, cioè ha il potere di autorizzare l’impiego di un arsenale atomico enormemente più potente, numeroso ed efficace di quello di Kim ma che non offre sufficienti garanzie di “vittoria accettabile”, poiché neppure lo strapotere di Washington può garantire di riuscire a impedire ai nordcoreani di compiere rappresaglie atomiche o chimiche contro Seul (oltre 20 milioni di abitanti), che si trova a poche decine di chilometri dal confine de 38° Parallelo.
Entrambi i presidenti hanno la possibilità di autorizzare l’uso di armi atomiche ma per Kim come per Trump l’unica vittoria possibile è non farvi ricorso poiché un attacco atomico porterebbe gli Usa a cancellare la Corea del Nord ma a perdere ogni fiducia da parte degli alleati nella regione del Pacifico.
Come su queste pagine sosteniamo da molti mesi, il braccio di ferro tra Kim e Trump sembra infatti fare il gioco di Pechino nonostante le voci che indicano una profonda crisi nei rapporti tra Pechino e Pyongyang.
Eppure le provocazioni nordcoreane non possono non avere il secreto via libera cinese perché stanno mettendo a dura prova gli alleati degli USA, sempre più consapevoli che Washington non può stroncare con un attacco preventivo la minaccia nordcoreana.
Anzi, un’azione del genere determinerebbe rappresaglie di Pyongyang su Seul e forse anche su Tokyo aprendo un aspro confronto tra la strategia Usa e gli interessi dei paesi alleati.
Del resto non è un caso che gran parte dei sudcoreani non vogliano lo schieramento del sistema antimissile americano Thaad che dovrebbe proteggerli dai missili del Nord ma che molti considerano una provocazione nei confronti di Pechino.
Del resto, se non fosse per il duello sul “bottone più grosso”, nelle ultime ore avrebbero avuto maggiore risalto due notizie davvero rilevanti. Innanzitutto la ripresa dei colloqui tra le due Coree in vista delle olimpiadi invernali che si terranno nella città sudcoreana di Pyeongchang il mese prossimo.
Una distensione “benedetta” da Pechino e Mosca che hanno tutto l’interesse a separare gli USA dai loro alleati regionali. L’altra notizia, non meno importante, giunge da Pechino e riguarda la nomina a viceministro degli Esteri di Kong Xuanyou, diplomatico di lungo corso responsabile dei rapporti tra la Cina e Nord Corea.
La promozione di Kong, 58 anni, secondo il South China Morning Post, riflette gli sforzi di Pechino nella stabilizzazione della regione, ma in realtà sembra premiare il successo conseguito nel fornire a Pyongyang un appoggio superiore a quello di facciata per generare una crisi che mettesse in difficoltà l’asse Seul-Tokyo-Washington. Un contesto che ben spiegherebbe la recente esplosione d’ira di Trump nei confronti della Cina, accusata di approvare ufficialmente sanzioni economiche che poi non applica davvero ai nordcoreani.
Foto: CNN, Shutterstack e Mercury News
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.