La difesa dell’interesse italiano: per un nuovo “concetto strategico” Nato

 

di Guglielmo Picchi*

Sono passati ormai oltre sette anni dal vertice di Lisbona di 2010 con cui i capi di Stato e di governo dell’Alleanza Atlantica approvarono l’allora nuovo Concetto Strategico. Per la settima volta nella sua storia, l’alleanza militare che presiede alla sicurezza dell’Occidente rivedeva le sue linee programmatiche indicando tre missioni fondamentali:

  • la «difesa collettiva», che riaffermava il principio sancito nell’articolo 5 del Trattato sul mutuo soccorso in caso di attacco a un Paese membro;
  •  la «gestione delle crisi», che sottolineava l’importanza della prevenzione dei conflitti ma anche della presenza sui territori negli scenari post-conflict;la «sicurezza cooperativa», che riguardava il partenariato con Stati e organizzazioni esterni all’Alleanza.

Molte crisi internazionali si sono susseguite da allora, spesso in teatri geopolitici prossimi al nostro Paese, mettendo seriamente alla prova l’implementazione di quelle linee guida.

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Le primavere arabe e l’intervento in Libia; la guerra civile siriana e i molti attacchi terroristici che hanno flagellato l’Europa; il conflitto in Ucraina e l’emergere della minaccia cibernetica quale forme di guerra ibrida.

Perché la difesa dell’Occidente ha mancato di coordinazione e dove quelle linee guida meritano oggi di essere approfondite, aggiornate e in qualche caso corrette?

La risposta sta nella crisi di legittimità che ha investito le istituzioni dell’Occidente. Proprio come sui temi dell’economia e della critica ai «poteri forti» sovranazionali, anche nella politica estera e di difesa i singoli Paesi hanno ripreso ad affermare a gran voce i propri interessi, spesso però agendo più di testa propria che concertando azioni comuni.

La mancanza di un piano per la Libia da parte dell’Amministrazione Obama, insieme a un eccesso di protagonismo francese, sono tra gli esempi che maggiormente hanno penalizzato il nostro Paese.

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Il problema è che un’alleanza internazionale funziona bene se rappresenta la somma proporzionata degli interessi dei singoli membri, non se alcuni di essi demandano all’organizzazione la quasi totalità delle decisioni, con il risultato inevitabile di privilegiare i Paesi più assertivi.

Affinché l’Italia sia protagonista attiva delle scelte che contano nei settori esteri e difesa, si impone un cambio di rotta che riguarda non solo la definizione tecnica degli obiettivi, ma prima di tutto la visione politica che ne è a monte. Riportare al centro della politica estera e di difesa l’interesse nazionale dell’Italia non implica affatto un disimpegno verso l’Alleanza Atlantica, ma al contrario prelude ad un suo rafforzamento.

Prima di essere un patto militare, la NATO è appunto un’alleanza politica che nei suoi testi fondativi richiama i comuni valori dell’Occidente, quei valori di cui la sovranità nazionale è parte integrante. Ma è un valore denigrato da tutti coloro che da noi considerano demagogia populista il principio «prima gli Italiani».

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E le prime vittime di questo clima sono spesso proprio i nostri militari – dai soldati in prima linea agli ufficiali generali – che malgrado l’estrema professionalità dimostrata in tutti i teatri operativi non si vedono sostenuti quanto meritano nei consessi politici internazionali e multilaterali.

Qualche mese fa, commentando su Analisi Difesa la mancata nomina del Capo di Stato Maggiore della Difesa Claudio Graziano al vertice del NATO Military Committee, il generale in Ausiliaria Giorgio Battisti lamentava giustamente «la scarsa pianificazione e lungimiranza» nella tutela degli interessi della Nazione, che così ha perso l’occasione di avere un maggior peso nelle scelte strategiche dell’Alleanza Atlantica.

E non c’è da stupirsi: chi denigra il principio «prima gli Italiani» difficilmente può promuovere il punto di vista del nostro Paese in un contesto cruciale per la nostra difesa quale l’Alleanza Atlantica.

L’agenda di chi mette al primo posto la sovranità e gli interessi italiani è invece in linea con un sentire diffuso negli ambienti militari, sia nazionali che alleati, e consentirà di lavorare con profitto su questioni chiave per la nostra sicurezza.

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Un caso su tutti: mentre i buonisti nostrani continuano a negare sino all’evidenza il legame tra l’immigrazione incontrollata e la minaccia terroristica, tra i vertici militari dell’Alleanza il problema è ben presente.

Nel marzo 2016, ad esempio, è toccato al generale USA Philip Breedlove, già comandante supremo della NATO in Europa, dichiarare pubblicamente che l’ISIS si stava diffondendo «come un cancro» in mezzo alle ondate di rifugiati, provocando non poche polemiche.

E tuttavia gli attentati dell’anno successivo a Londra e Amburgo organizzati o realizzati da rifugiati e richiedenti asilo hanno tristemente confermato la sua diagnosi.

In Italia, gli ultimi governi hanno colpevolmente trascurato la partecipazione del nostro Paese alle decisioni dell’Alleanza Atlantica, pur essendo noi i più esposti a questa minaccia. E in un momento in cui il burden sharing (la condivisione delle spese militari) è tra le priorità che vengono richieste in particolare dagli Stati Uniti, chi parla oggi di «riqualificazione verde» di caserme dismesse o di riduzione degli investimenti nelle «armi offensive» (sic!), dimostra di non avere la più pallida idea né della valenza economica e strategica dell’industria nazionale della difesa, né di come gestire il rapporto transatlantico.

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Tra i compiti che il prossimo governo sarà chiamato a implementare c’è invece appunto quello di promuovere gli interessi italiani in sede NATO, lavorando anche con l’obiettivo di ripensare e aggiornare il Concetto Strategico. In particolare, di grande importanza è orientare le due mission, «gestione delle crisi» e «sicurezza cooperativa», all’interno dell’area di interesse privilegiato dell’Italia: il Mediterraneo.

La lotta al terrorismo e all’immigrazione illegale – da attuarsi attraverso cooperazione con i Paesi del Medio Oriente più impegnati contro l’islamismo radicale, politiche di sorveglianza delle frontiere esterne e respingimenti assistiti – sono tutti ambiti dove l’Italia ha da giocare un ruolo in prima linea.

Su questi temi, nel quadro dell’Alleanza i nostri interlocutori primari sono l’Amministrazione USA guidata da Trump e i Paesi del gruppo di Visegrad, che condividono un medesimo approccio critico sul controllo dei flussi migratori e la prevenzione del jihadismo.

Una proposta concreta attraverso cui collegare l’interesse nazionale alle strutture dell’Alleanza Atlantica è rafforzare il peso dell’Italia all’interno del nuovo «hub di direzione strategica NATO per il Sud» (Nsd-S Hub).

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Inaugurata da pochi mesi nella base di Lago Patria (Napoli) e attualmente sotto comando statunitense, tale struttura è sorta proprio per concentrarsi sulle regioni di Medio Oriente, Nordafrica e Sahel.

Per la sua collocazione sul nostro territorio nazionale, essa costituisce un’occasione fondamentale per prevenire e combattere le minacce asimmetriche di concerto con gli Alleati.

Dobbiamo puntare quindi ad aumentare la presenza italiana non solo in termini di personale, ma soprattutto nella pianificazione strategica e nella partecipazione alle decisioni, lavorando affinché l’hub NATO anti-terrorismo sia presto guidato da un alto ufficiale italiano.Gli strumenti tecnici, insomma, non mancano: deve imporsi però la volontà politico-strategica di difendere l’Italia dalle minacce esterne e conferirle il ruolo che le spetta nella comune politica estera dell’Occidente.

Questo cambio di rotta riguarda la mentalità con cui si guarda alla sfera della sicurezza nel suo insieme. Se la difesa personale dei cittadini è sempre legittima, quella dell’interesse nazionale è invece il dovere di chi ambisce a rappresentare l’Italia – anche nella decisiva interlocuzione con i nostri alleati della NATO.

Foto: Forze Armate italiane

 

*Guglielmo Picchi è Segretario della Commissione Affari Esteri e Comunitari della Camera dei Deputati, nonché presidente del Comitato permanente sugli Italiani nel mondo e la promozione del sistema paese.

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Dal 2008 fa parte della Delegazione parlamentare all’Assemblea dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), dove dal 2016 è vice-presidente del Comitato generale sugli affari politici e di sicurezza. Deputato della Lega, si occupa in particolare di politica estera, di difesa, sicurezza e cooperazione.

Laureato in Economia con lode all’Università di Firenze, ha un Master in Business Administration all’Università Bocconi e prima dell’impegno parlamentare ha lavorato per una banca di investimento inglese e per una multinazionale americana occupandosi in particolare di finanza strutturata per il mercato italiano. È Ufficiale di Complemento dell’Aeronautica Militare.

 

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