Afrin: il nuovo fronte del conflitto siriano

Non si può ancora parlare di guerra aperta tra Turchia e Siria ma la tensione ad Afrin è alle stelle. La decisione del regime di Bashar Assad di negoziare con le Unità di protezione del popolo curdo (YPG), legate al partito curdo-siriano dell’Unità democratica (PYD), l’ingresso nell’énclave di Afrin delle forze di Damasco ha scatenato una dura reazione da parte di Ankara che da un mese attacca in quel settore le forze curde definite “terroristi” alla stregua delle milizie dello Stato Islamico.

L’arrivo delle “forze popolari ad Afrin per sostenere i suoi abitanti contro l’attacco del regime turco” era stato annunciato il 20 febbraio dalla stampa governativa siriana, aggiungendo che le truppe di Assad “si uniranno alla resistenza contro l’aggressione turca” e precisando che si tratta di “difendere l’unità territoriale e la sovranità della Siria”.

La tv al-Manar degli Hezbollah libanesi, alleati di Damasco, riferiva di “gruppi di forze popolari siriane” che cominciavano “a entrare nella regione di Afrin nel Rif settentrionale di Aleppo” mentre le immagini diffuse dalla tv libanese al-Mayadin (filo-iraniana) hanno mostrato mezzi con le bandiere siriane, con miliziani a bordo e carichi di armi, mentre entravano nell’area di Afrin.

Nello scorso fine settimana erano trapelate indiscrezioni su un accordo che sarebbe stato raggiunto tra Damasco e i miliziani curdi per il dispiegamento di unità delle forze filo-Assad ad Afrin.

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La risposta turca non si è fatta attendere e colpi di mortai pesanti avrebbero bersagliato le postazioni lungo il confine occupate dalle forze di Damasco che si sarebbero ritirate a una decina di chilometri dalla frontiera. Fonti siriane hanno parlato di “fuoco contro le posizioni” mentre per i turchi si sarebbe trattato solo di “colpi di avvertimento” che avrebbero indotto le forze sirianee a ripiegare.

Oggi il giornale governativo al Watan e la tv panaraba al Mayadin hanno annunciato che altri “500 combattenti” di Damasco (a quanto sembra milizie scite filo-iraniane) sono giunti ad Afrin.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, aveva annunciato che le Forze Armate turche assedieranno la città di Afrin e la regione omonima per evitare che le forze curde possano ricevere sostegno dall’esterno e far sì che “il gruppo terroristico non abbia più l’opportunità di negoziare con nessuno”. Un chiaro messaggio rivolto a Damasco.

Il rischio che i curdi di Siria costituiscano un pretesto per scatenare un nuovo “sotto-conflitto” nell’ormai parcellizzata guerra siriana ha indotto Mosca, alleato di ferro di Assad e partner strategico della Turchia, a proporsi come mediatore per una soluzione del conflitto.

Turkish-backed Free Syrian Army fighters prepare a TOW anti-tank missile north of the city of Afrin, Syria February 18, 2018. REUTERS/Khalil Ashawi

“La Russia non vuole imporsi su nessuno. Ma se ci viene chiesto, siamo pronti a fare una buona azione per fermare il bagno di sangue e trovare denominatori comuni”, precisando che la cosa più importante per Mosca è “il rispetto dell”integrità, della sovranità e unità della Siria” aveva detto il 20 febbraio l’inviato del Cremlino per il Medio Oriente e l’Africa Mikhail Bogdanov.

“Raccomandazione” già espressa nei giorni scorsi nei confronti della presenza militare statunitense al fianco delle milizie curdo-arabe (le Forze Democratiche Siriane -FDS) e delle incursioni aeree israeliane in Siria, entrambi illegali per il diritto internazionale. Del resto è difficile ipotizzare che le forze di Assad si muovano in armi senza il via libera da Mosca e in proposito il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, si è espresso in modo chiaro.

“Abbiamo ripetutamente affermato che sosteniamo pienamente le legittime aspirazioni del popolo curdo. Riteniamo sbagliato che qualcuno approfitti delle aspirazioni del popolo curdo per i suoi giochi geopolitici che non hanno nulla a che fare con gli interessi dei curdi e della sicurezza regionale”.

L’operazione “Ramoscello d’ulivo” varata da Ankara ha finora portato a occupare 300 chilometri quadrati di territorio siriano provocando la morte di oltre 1.700 “terroristi” (secondo fonti turche) mentre i soldati turchi uccisi sono ufficialmente 32 (oltre 200 secondo i curdi) e sconosciuto è il numero di perdite subite dalle milizie filo-turche dell’Esercito Siriano Libero (ESL), “carne da cannone” per gli interessi di Ankara.

FILE - This Jan. 28, 2018 file photo, Turkish troops take control of Bursayah hill, which separates the Kurdish-held enclave of Afrin from the Turkey-controlled town of Azaz, Syria. Nearly a month into Turkey's offensive in the Syrian Kurdish enclave of Afrin, hundreds of thousands of Syrians are hiding from bombs and airstrikes in caves and basements, trapped while Turkish troops and their allies are bogged down in fierce ground battles against formidable opponents. (DHA-Depo Photos via AP, File)

Al di là degli aspetti tattici è il contesto strategico che desta le maggiori preoccupazioni, specie tenendo conto che la guerra siriana è ormai composta da diversi confronti armati in cui il contrasto allo Stato Islamico è quasi scomparso dopo la caduta di Raqqa e Deir Ezzor.

Con l’intervento a presidio del confine turco, Assad punta a riprendere il controllo di un ulteriore lembo del territorio nazionale, gestito finora in autonomia dai curdi, ma offrirebbe anche ad Ankara quelle garanzie di sicurezza della frontiera che hanno determinato il via all’operazione “Ramoscello d’ulivo” l’offensiva turca il cui nome suono quanto mai sarcastico dopo che le forze di Ankara sostengono di aver ucciso 1.715 “terroristi” occupando 300 chilometri quadrati di territorio siriano.

Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, che ha fatto erigere un “muro” difensivo lungo tutta la frontiera, non ha mai nascosto  i voler costituire una zona cuscinetto di almeno 30 chilometri nel nord della Siria per impedire ai miliziani curdi di colpire il territorio nazionale e appoggiare i combattenti curdo-turchi del Pkk.

Una pretesa che ha visto Ankara entrare in rotta di collisione con gli Stati Uniti (che schierano ufficialmente 5.800 uomini tra Iraq e Siria e in quest’ultimo paese sono al fianco delle forze curde,armate e addestrate dai consiglieri militari di Washington) che hanno risposto picche alla perentoria richiesta di Erdogan di ritirarsi dal settore di Manbji e cessare ogni il supporto ai curdi dell’Ypg.

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Una crisi nei rapporti tra i due membri della Nato che neppure l’incontro dei giorni scorsi tra il segretario di Stato americano Rex Tillerson e il ministro degli esteri Mevlut Cavusoglu sembra aver dipanato.

L’apertura del nuovo fronte contro Bashar Assad complica ulteriormente la situazione per Ankara che, al di là dei proclami bellicosi di Erdogan, rischia di trovarsi sola contri tutti mettendo a repentaglio anche le intese finora raggiunte con Mosca, dall’acquisto di armi inclusi i sistemi di difesa aerea a lungo raggio S-400 agli accordi per stabilizzare la crisi siriana.

La Russia da un lato si è proposta come mediatore nella crisi nel settore di Afrin ma dall’altro ha ribadito il suo disappunto per l’offensiva turca e soprattutto, come già ricordato, la necessità di rispettare la sovranità territoriale dello Stato siriano.

Ieri Mosca ha nuovamente rinforzato la sua presenza militare in Siria inviando almeno 11 aerei nella base di Hmeymim (Latakya) tra i quali un velivoli radar A-50, 4 aerei da attacco Sukhoi Su-25,  4 cacciabombardieri Sukhoi Su-35 e, a quanto sembra, anche 2 nuovissimi Sukhoi Su-57 realizzati finora in 12 esemplari che dopo aver superato i test iniziali sono ora impegnati in quelli che riguardano l’impiego operativo e di combattimento. La Russia aveva dimezzato la presenza di aerei da combattimento a Hmeymin dopo la liberazione di Deir Ezzor.

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Per Erdogan sarebbe quindi un azzardo porsi in contrasto contemporaneamente con Mosca e Washington rischiando inoltre di trovarsi pesantemente invischiato in quel conflitto siriano di cui è stato promotore fin dal 2011 (organizzando i ribelli anti-Assad), ma nel quale finora si è astenuto da interventi militari su vasta scala al di là delle zone di confine.

Il punto debole di Assad è legato al fatto che non può concentrare ampi sforzi militari ad Afrin perché le sue truppe sono già impegnate su altri fronti, in particolare nella liberazione della zona di Ghouta, nei sobborghi di Damasco (dove arabi e occidentali premono sull’ONU per instaurare una tregua che dia respiro alle forze ribelli ormai allo stremo), e della “sacca di Idlib”: gli unici settori in cui resistono, circondate, le residue milizie di al-Qaeda e di altre formazioni islamiste.

Il tentativo di rianimare le milizie islamiche anti-Assad è evidenziato anche dal leader di al Qaeda, Ayman al-Zawahiri, che ha fatto appello all’unità dei combattenti jihadisti in Siria, chiedendo ai miliziani e ai musulmani di prepararsi a una guerra “lunga decenni”.

In prospettiva quindi, il ritorno della fascia di confine sotto il controllo di Damasco converrebbe sia ad Assad che a Erdogan.

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Il presidente siriano amplierebbe la già consistente porzione di territorio nazionale sotto il suo controllo e scongiurerebbe le derive indipendentiste del Kurdistan siriano (Rojava) coltivate invece da Washington che sta costituendo e armando sotto le bandiere delle FDS una forza combattente di 30mila uomini.

Erdogan incasserebbe il risultato di mettere in sicurezza il confine siriano senza dover pagare il prezzo in vite umane e denaro determinati da operazioni militari logoranti, a lungo termine e senza sbocchi vittoriosi certi, contribuendo anche a rendere più complicata la presenza militare americana al fianco dei curdi.

Possibile quindi che Ankara, dopo aver dimostrato con un nuovo esercizio muscolare che non si fa intimidire dai soldati di Assad, dia luce verde alla mediazione di Mosca che ha il triplice obiettivo di proteggere l’alleato siriano, mantenere l’intesa faticosamente raggiunta con Ankara e allargare il solco che divide gli Usa dalla Turchia, anche nell’ottica della crescente tensione tra Mosca e la Nato che va ben oltre il sempre più caotico scenario siriano.

Foto: LaPresse, AP, Ansa, Ria Novosti e Reuters

 

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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