Sicurezza priorità uno? No, due! La specificità militare

Intendiamoci! La sicurezza dei lavoratori è una cosa seria, ma l’applicazione del DL 81/2008 “Salute e sicurezza sui luoghi di lavoro” alle Forze Armate è una boiata pazzesca. Il soldato, infatti, a differenza degli altri “lavoratori” le occasioni per rompersi l’osso del collo se le deve andare a cercare per contratto, anzi per giuramento, in operazioni e anche in addestramento.

Eppure, non è una battuta, un moto dello spirito di uno dei tanti professionisti della satira e del cattivo gusto di cui sono pieni i nostri palinsesti televisivi, ma i nostri Comandanti anche in operazioni sono investiti delle funzioni di “datore di lavoro” nei confronti dei propri uomini, come un qualsiasi capocantiere.

Conseguentemente, mentre con una metà del cervello dovrebbero continuare a pensare a come avere la meglio dei villosissimi talebani che stanno sparando sulla loro unità, o a come pianificare una complessa attività operativa multinazionale ed interforze, con l’altra penseranno ad evitare che i propri soldati si feriscano con ferri arrugginiti, a fare in modo che godano di adeguati periodi di riposo evitando i “temibilissimi” stress post traumatici, si muovano su itinerari sicuri che non li mettano a rischio di cadere in un burrone o in un corso d’acqua, non portino carichi che possano provocargli danni alla colonna vertebrale nel breve periodo o tra qualche lustro, respirino aria salubre e assumano cibi controllati.

In ogni caso, sarebbe opportuno fargli preventivamente firmare una dichiarazione di “consenso informato” circa i rischi del mestiere nel quale assicurino di essere a perfetta conoscenza delle norme di tutela della propria incolumità in cantiere, pardon in combattimento.

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Tale ricostruzione, per quanto apparentemente esagerata, non è comunque così lontana dalla realtà e, addirittura, era fino a poco tempo fa sul punto di peggiorare. Uno dei frutti velenosi della cosiddetta Commissione sull’Uranio Impoverito, fortunatamente non ancora passato, prevedeva infatti l’attribuzione all’USL e all’Ispettorato del Lavoro della competenza sugli accertamenti in caso di “incidenti” militari, in addestramento ma anche in operazioni, portando avanti quell’opera di smilitarizzazione delle Forze Armate che sarebbe stata salutata con soddisfazione da chi non le considera un’espressione lecita dello Stato. Prossima fermata, la sindacalizzazione, con buona pace per tutti!

Avremmo potuto vedere, quindi, un Ispettore del Lavoro controllare la postazione della base a Mogadiscio o Herat dove è avvenuto il fattaccio ed entrare nel merito della scelta tattica del Comandante nel momento dell’impiego? Forse, avrebbe voluto effettuare l’analisi granulometrica del materiale col quale sono stati riempiti gli Hesco Bastion e i sacchetti a terra della FOB, ovviamente senza considerare le condizioni tattiche nelle quali si provvide in tal senso, o lo spessore della piastra balistica della blindo forata dal colpo assassino?

O magari, in un sussulto di realismo si sarebbe limitato ad un controllo documentale per verificare le firme sul “progetto” del caposaldo o se il malcapitato aveva tutti i requisiti burocratici per farsi passare da parte a parte da un colpo di mitragliatrice? Mai dire mai. D’altronde, non si diceva che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai Generali?

Lasciando il campo delle ipotesi, anzi degli incubi, per considerare la realtà, già vediamo da anni Tribunali Ordinari entrare nel merito di questioni decisamente tecniche, intervenendo ad esempio per un banale infortunio a un paracadutista che ha sbagliato la capovolta o con la pretesa di stabilire durante il dibattimento quale debba essere la cadenza di uscita dal portellone dell’aereo, infischiandosene dell’esigenza di ridurre la dispersione sul terreno. L’apertura di un fascicolo, parola magica per la nostra sensibilità giudiziaria abituata a fascicoli aperti anche contro i terremoti, risolverà il problema alla base, certamente. Chissà se per Oetzi, l’uomo del Simulaun trovato con una punta di freccia conficcata nella carcassa 5000 anni dopo la morte è stata aperta qualche indagine.

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Insomma, dopo aver impedito alla Polizia di usare mezzi coercitivi nei confronti di chi minaccia l’ordine pubblico, definendo “tortura” ogni atto di legittima violenza che dovesse esercitare, tocca ora ai militari il tritacarne ideologico di chi pare preso da un cupio dissolvi che ci trasformi in una repubblichetta delle banane, in barba al nostro retaggio storico e culturale ed alla posizione strategica che occupiamo geograficamente.

 

A prescindere dalla buona fede che forse (molto forse) ha spinto qualche fantasioso legislatore a promuovere un provvedimento di tale portata (con la “t”), è un po’ come chiedere ad un chirurgo di non versare il sangue del paziente o a un contadino di non infangarsi le scarpe grosse. Quello militare è, infatti, un impiego intrinsecamente pericoloso nel quale il Comandante può addirittura trovarsi a dover scegliere di sacrificare le vite dei propri uomini, nonché la sua, in vista di un vantaggio tattico o strategico che lo giustifichi, o semplicemente per obbedire agli ordini ricevuti.

Una realtà cruda ma ovvia, che forse faremmo bene a ricordare mentre ci apprestiamo a commemorare i cento anni dalla Vittoria della Prima Guerra Mondiale, un’inutile strage, come la definì Papa Benedetto XV, che però ebbe l’utilità di completare il processo della nostra unificazione nazionale. Non un dettaglio della nostra storia, quindi.

Tale Decreto, insomma, prevede una sostanziale identità tra militari e civili, dando ragione a quanti negano ogni specificità agli uomini con le stellette, da considerare “lavoratori” e basta. Viene così dato corpo ad un chiaro e paradossale impianto ideologico teso a banalizzare la funzione delle Forze Armate in ossequio ad una tradizionale e trasversale avversione della nostra classe politica per la militarità in genere, da sfrondare dei suoi supposti “privilegi” ed alla quale far abbassare finalmente la cresta. Basta con tutte ‘ste arie; un po’ di sobria ed informale razionalità, perbacco!

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Anche coloro che, infatti, vorrebbero dimostrarsi più vicini ad esse per una residua memoria di quello che è stato, o semplicemente perchè ingolositi dal modesto bacino elettorale che ancora rappresentano, non nascondono la loro ignoranza per quello che sono, limitandosi a obbligatori e scontati fervorini per le “Forze dell’Ordine” quando richiesti di esprimersi a favore delle “divise”. Nella testolina di questi esperti da salotto, infatti, in questa casistica può rientrare anche la realtà militare, senza andare troppo per il sottile, evitando di far trangugiare alla nostra opinione pubblica un prodotto al quale si è disabituata, complice anche la fine della coscrizione obbligatoria. Il tutto, in ossequio al principio che chi fa la guardia alla saracinesca del negozio di famiglia avrebbe una dignità decisamente superiore a quella di chi opera fuori dalla nostra vista, semplicemente per l’interesse della Patria, un concetto troppo lontano dal sentire generale.

E in un Paese come il nostro – che alcuni malpensanti ci vorrebbero convincere a considerare delinquenziale per costruzione, sull’onda di ottimi e certamente non casuali successi editoriali e televisivi di chiaro stampo salvianesco – non ci sono difficoltà a confermare l’esigenza di Forze di Polizia cospicue ed efficienti (purchè non durante le manifestazioni dei Centri Sociali, ovviamente), mentre per le Forze Armate, basta che respirino! C

i sarà sempre la possibilità di “accontentare” i nostri professionisti con le stellette impiegandoli in piantonamenti a basso costo nell’operazione “Strade Sicure” o in corvè di bassa lega come “Strade Pulite” a Napoli o Roma, magari concedendogli l’onore di ospitare in qualcuna delle loro poche aree addestrative residue qualche decina di migliaia di tonnellate di ecoballe non smaltibili nei contestatissimi termovalorizzatori.

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Ciò detto, non v’è dubbio che la sicurezza del personale sia un importante dovere al quale si deve attenere ogni dirigente. E’una regola eticamente fondamentale, che però trova alcune eccezioni che, nel mondo reale al riparo dalle isterie ideologiche di qualcuno, devono essere considerate con attenzione. E’ il caso, ad esempio, dei Vigili del Fuoco che, nell’assolvimento della loro missione, si espongono consapevolmente a rischio della propria incolumità per prestare la propria opera.

In questo caso, il loro dirigente si troverà sempre combattuto tra la necessità di non esporli ai pericoli e l’esigenza di salvare le vittime di frane, alluvioni e incendi, assolvendo al compito del Corpo. Il riproporsi di episodi nei quali questi soccorritori di professione si incuneano arditamente negli stretti pertugi delle rovine causate dal terremoto, senza attendere che le scosse si fermino magari dopo mesi, è sotto gli occhi di tutti; ed è il motivo per il quale la categoria dell’Eroismo viene così frequentemente tirata in ballo, anche in un’attualità nazionale come la nostra, nella quale è assordante la retorica di chi afferma la brechtiana beatitudine di chi non ha bisogno di Eroi.

Insomma, esistono situazioni nelle quali la salvaguardia della propria incolumità e di quella dei propri dipendenti cede il passo ad altre priorità e in molti casi è un ineludibile dovere morale e sociale affrontare rischi che un qualsiasi ispettore dell’USL non esiterebbe a condannare. Avere paura è un diritto, quindi, ma vincerla è un dovere.

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Se questo è vero per le organizzazioni di soccorso, è ancor più vero per i militari.

Per essi, infatti, la situazione è ancora più “radicale” in quanto non si trovano a fronteggiare la banale incidenza del caso o della sfortuna, ma intelligenze avverse, in alcuni casi superiori alle loro, determinate a ucciderli per avere la meglio, semplicemente. Il pericolo principale che si trovano a fronteggiare, insomma, non consiste nella negligenza, nell’imprudenza e nell’imperizia di qualche dirigente o datore di lavoro, come avviene troppo frequentemente nei cantieri. Al contrario, il pericolo consiste nell’esistenza di una volontà “assassina” che esercita coraggio, professionalità, intelligenza e spirito di sacrificio spinto spesso fino all’eroismo al solo scopo di colpirli.

Può sembrare banale, ma non è inutile ricordare che tale realtà, che dall’ambito dell’impiego reale si riverbera pesantemente anche nelle esigenze dell’addestramento, è il motivo principale per cui il soldato in operazioni cerca la sicurezza nell’occultamento e non nella manifestazione visibile.

Non indosserà quindi giubbotti catarifrangenti che ne consentano l’individuazione da parte di improbabili soccorritori, ma tute mimetiche che ne confondano colore e forma nel paesaggio.  Durante i movimenti privilegerà gli itinerari meno battuti e più impervi, quindi intrinsecamente più impegnativi e pericolosi, in modo da sottrarsi alle offese altrui, accettando il rischio di incidenti comunque meno pericolosi di una cannonata avversaria.

Nel momento dell’azione “cinetica”, per usare un termine diventato di gran moda con la guerra in Afghanistan, non potrà limitarsi a sottrarsi all’azione avversaria portandosi fuori tiro, magari indossando un bel paio di scarpe antinfortunistiche e un caschetto giallo da cantiere; non gli basterà dichiararsi incompetente ad affrontare la situazione e non potrà appellarsi ad una norma che lo protegga presso qualche tribunale del lavoro. Dovrà, invece, cercare di mettersi in condizioni di colpire a sua volta, avvicinandosi a distanza di tiro delle proprie armi, anche a costo di subire perdite.

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Sceglierà di operare soprattutto di notte, per non essere individuato e si addestrerà a lungo ad operare in contesti difficili dai quali cogliere di sorpresa l’avversario. Quando incaricato di presidiare il territorio, sceglierà postazioni difficilmente accessibili, dalle quali dominare il suo settore, limitando gli apprestamenti di vita allo stretto indispensabile alla sopravvivenza, senza appesantirsi con opere che ne vincolino le possibilità di operare in un contesto conflittuale.

In caso di ferite, dovrà accontentarsi del soccorso prestato in condizioni igieniche precarie da altri operatori come lui, che potrebbero essere costretti ad interventi nei suoi confronti che in condizioni normali vengono riservate a professionisti di provata esperienza. Nel caso estremo di impiego o presenza di materiale radioattivo, chimico o biologico si dovrà accontentare di equipaggiamenti che ne assicurino il più a lungo possibile la sopravvivenza ma che non ne vincolino la capacità di continuare a correre, saltare, sparare fino a quando avrà assolto al suo compito. Insomma, dovrà continuare a operare; a combattere se necessario.

Quanto al suo dirigente, che non a caso si definisce Comandante, non potrà considerare la sicurezza la sua “priorità uno”, come recitava una formula retorica di qualche decennio fa e alla quale non ha mai creduto nessuno, nemmeno ai tempi della leva. La priorità uno sarà invece l’assolvimento del compito, pur con tutta la sicurezza possibile sulla base della situazione.

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Una ricchissima cinematografia di guerra ci ha abituato a queste realtà, che non è semplicemente virtuale o di fantasia, o riferita a mitici “altri” come qualcuno potrebbe pensare, ma che fa parte del vissuto quotidiano di molti nostri soldati in operazioni.

Nei capisaldi afghani di Bala Murghab, o di Farah, o di Buji, ad esempio, il rischio quotidiano era rappresentato dalle frequenti azioni di fuoco dei Talebani, per fronteggiare i quali era necessario interrarsi materialmente in profonde trincee scavate in qualche maniera nella polvere compressa, a rischio di collasso in caso di pioggia, e nelle quali i pasti non venivano assicurati da improbabili ditte di catering a norma HACCP, ma da qualche razione confezionata da un fuciliere a turno in cucine improvvisate e non migliorabili a meno di rischiare qualche raffica avversaria.

Tre lustri prima, semplici militari di leva affrontavano situazioni analoghe in Somalia, sottoponendosi a rischi dovuti a un ambiente naturale difficile, nel quale strisciavano velenosissimi serpenti, ed igienicamente impegnativo, con guerriglieri determinati a contrastare sanguinosamente le attività del contingente internazionale, sia nella Capitale che nel bush circostante.

Presso l’aeroporto di Herat, o la diga di Mosul, le esigenze di vigilanza attorno alla base non possono essere assicurate da droni che col vento non volano o da fantascientifiche videosorveglianze attestate in asettiche sale operative, ma richiedono ancora che un soldato si arrampichi su alte torrette, in modo da sfruttare ampi campi di vista e di tiro.

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E se suonerà l’allarme a causa di qualche razzo “atterrato” nella base di notte, bisognerà correre, senza viali illuminati che attirino il fuoco avversario, per raggiungere le proprie postazioni il più velocemente possibile, anche a costo di inciampare e finire in una buca o in una trincea non vista.

Non servirà a niente imporre regole ferree di prudenza, studiate da qualche esperto in antinfortunistica: verranno ignorate alla prima raffica, costringendo i militari ad una disobbedienza logica ed obbligatoria. Sacrosanta!

A queste attività il soldato si prepara in guarnigione con l’addestramento che non può limitarsi ad una buona fase di formazione, ma che rappresenta il “pane quotidiano” di sempre. Addestrarsi è la principale misura di sicurezza, l’unica capace di assicurare la sopravvivenza in combattimento, quindi sul suo “luogo di lavoro” per antonomasia.

E si tratta di una funzione “viva”, in continua evoluzione, che si deve adattare continuamente alla mutevolezza e alla crescita della minaccia: se un secolo fa era possibile limitarsi ad insegnare lo sfruttamento del terreno per ripararsi dal fuoco terrestre e per lo più frontale e da breve distanza, ora è necessario preparare i nostri soldati a fronteggiare il fuoco aereo e quello terrestre a giro d’orizzonte, di giorno e di notte, erogato da lontano da sistemi e tiratori capaci di vedere al buio, col bello e col cattivo tempo.

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Per questo, il primo dovere del Comandante che ha a cuore la sicurezza del proprio personale è quello di sottoporlo ad un addestramento credibile e realistico, ricreando situazioni più vicine possibile allo scenario operativo, in modo che impari ad affrontare con sicurezza ed automatismo situazioni altrimenti insuperabili. Insomma, anche l’addestramento, per essere tale, deve implicare una seppur più limitata dose di rischio, che non può essere eliminata a meno di renderlo inutile

Se così non fosse, i paracadutisti non si lancerebbero in addestramento, gli alpini non camminerebbero in montagna se non in sentieri del CAI e i bersaglieri non salterebbero a terra dai mezzi se non su materassoni di gommapiuma predisposti da qualche Comandante poco incline alle responsabilità. Nessuno andrebbe in poligono a sparare e le esercitazioni a fuoco si farebbero con sistemi audiovisivi e virtuali; con la Play Station insomma.

Qualche bontempone, non credo in buona fede, sta provvedendo in tal senso, rendendo praticamente indisponibili gli indispensabili poligoni di tiro e le aree addestrative, con motivazioni risibili ma difficili da contrastare da parte di chi deve fare i conti con l’antipatia viscerale di cui gode da parte di una generazione di politici militaresenti per vocazione.

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Per concludere, occorrerebbe ritrovare un po’ di buon senso, e di senso dello Stato, ricordando a tutti, politici, militari ed amministratori della cosa pubblica che non è lecito alterare quella che è la natura delle Forze Armate a suon di provvedimenti che di innovativo hanno soltanto l’assurdità.

Le stesse non appartengono a nessuno in particolare, se non al popolo; e non parlo di quello che vota o che, annoiato o disperato, se ne va al mare, ma di quello che ha gioito delle vittorie e pianto delle sconfitte dei nostri padri e dei nostri nonni, anche se purtroppo ininfluente, per ovvie ragioni, per formare qualche maggioranza in parlamento che consenta di tirare avanti la carretta per un altro paio d’anni.

Le Forze Armate sono l’espressione più palese ed emblematica di uno Stato indipendente e non meritano l’umiliazione sistematica inflitta a valenti Comandanti seppelliti sotto risme di carta scritta per ogni sbucciatura a cui vanno incontro i loro uomini, o ridotti a centellinare le risorse per poter assicurare agli stessi un livello minimo di addestramento che gli consenta di sopravvivere in operazioni e di non sfigurare di fronte agli alleati.

Vanno, insomma tutelate nella loro specificità, che non ammette assimilazioni a realtà rispettabili ma da esse profondamente diverse. Infine, un secolo dopo in 4 novembre 1918, vanno amate.

Foto: web, Isaf e Operazione Resolute Support

 

Marco BertoliniVedi tutti gli articoli

Generale di corpo d'armata, attualmente Presidente dell'Associazione Nazionale Paracadutisti d'Italia, è stato alla testa del Comando Operativo di Vertice Interforze e in precedenza del Comando Interforze per le Operazioni delle Forze Speciali, della Brigata Paracadutisti Folgore e del 9° reggimento incursori Col Moschin. Ha ricoperto numerosi incarichi in molti teatri operativi tra i quali Libano, Somalia, Balcani e Afghanistan.

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