Siria: ancora raid statunitensi sulle truppe di Assad

da Il Mattino del 9 febbraio 2018

Il raid aereo statunitense che ieri ha colpito le forze paramilitari siriane riapre inevitabilmente il dibattito sull’ambiguo ruolo di Washington in un intervento militare che doveva essere orientato a colpire lo Staro Islamico e sugli interessi che i diversi protagonisti di quella crisi hanno in ballo in Siria.

Le “forze popolari” di Damasco, cioè le unità paramilitari governative, sono state attaccate dal cielo dopo che avevano cercavano di strappare alle milizie curde delle Forze Democratiche Siriane (FDS) il controllo di un’area estrattiva petrolifera nella provincia di Deir Ezzor, recentemente liberata dalla presenza dello Stato Islamico dalle offensive contemporanee ma non certo coordinate tra loro di Damasco e delle SFDS.

Non è certo la prima volta che i jet americani colpiscono per rappresaglia le truppe siriane o le ile milizie scite loro alleate e raid del genere erano avvenuti nell’ultimo anno in più occasioni.

Lungo i confini giordani gli americani hanno cercato di proteggere milizie ribelli anti-Assad dall’inarrestabile avanzata dei governativi, nel nord i raid aerei di Washington hanno imposto alle truppe di Damasco di non avvicinarsi a Raqqa, capitale dello Stato Islamico poi liberata dalle FDS mentre a Deir Ezzor droni e caccia a stelle e strisce hanno persino appoggiato dall’aria un’offensiva dell’IS tesa a conquistare il locale aeroporto. Anche in quel caso i morti tra i soldati siriani furono un centinaio e il comando della Coalizione a guida Usa si giustificò riferendo di un errore nella localizzazione dei bersagli.

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Il regime di Damasco e soprattutto le forze russe in Siria hanno più volte accusato Washington di violare il diritto internazionale schierando illegalmente truppe sul suolo siriano e dimostrando anche in più occasioni le sinergie e cooperazione tra le forze statunitensi e dello Stato Islamico.

L’attacco di ieri conferma quindi un copione già noto ma si colloca in una fase molto delicata del conflitto siriano in cui la sconfitta dello Stato Islamico vede i protagonisti di quella guerra impegnati a consolidare le proprie posizioni. Le forze di Assad stanno cercando di chiudere il conto con i ribelli jihadisti che hanno rifiutato il dialogo mediato da Mosca e Teheran con un’offensiva che vede coinvolti anche i jet russi, uno dei quali abbattuto il 3 febbraio con il pilota, maggiore Roman Filipov, lanciatosi col paracadute e poi fattosi esplodere per non essere preso vivo dalle milizie qaediste.

Contemporaneamente i turchi hanno in atto la grande offensiva sui territori curdi di confine: ad Afrin hanno già ucciso un migliaio di combattenti curdi e si apprestano a colpire anche le zone dove le FDS sono affiancate dai militari statunitensi come a Mambji.

L’offensiva vede i soldati di Ankara affiancati sul campo da milizie dell’Esercito siriano libero, organizzato nel 2012 proprio dai turchi per combattere Assad e oggi rivelatosi in grado di offrire utile carne da cannone alla guerra turca contro i curdi.

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Nulla di sorprendente in un conflitto non certo privo di aspetti paradossali se si considera che negli anni scorsi Ankara aiutò lo Stato Islamico e le milizie qaediste contro Assad e i curdi che a Kobane respinsero lo Stato Islamico solo grazie all’aiuto della Coalizione a guida statunitense.

I curdi di Siria rischiano infatti di subire la stessa sorte di quelli iracheni che, una volta sconfitto il Califfato, sono stati privati da Baghdad di influenza e territori vedendo poi duramente stroncate con la minaccia delle armi le aspirazioni indipendentiste.

Una disfatta avvenuta in poche settimane senza che Usa e Coalizione muovessero un dito per aiutare i loro più fedeli alleati contro l’Isis. Aspetto quest’ultimo che spiega il disappunto e la delusione dei curdi iracheni ma che potrebbe presto allargarsi anche alla regione curda di Siria (Rojava).

L’appoggio statunitense ha permesso alle FDS di ampliare le terre siriane sotto il loro controllo andando ben oltre le zone abitate dall’etnia curda. Una “grandeur” utile a Washington, che senza schierare forze consistenti ma fornendo armi per un paio di miliardi di dollari, è riuscita a impedire ad Assad e ai suoi alleati russi e iraniani di liberare l’intero paese.

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Un obiettivo strategico per un’America preoccupata oggi più dal rafforzamento russo in Medio Oriente e dell’asse scita guidato da Teheran che dalla minaccia jihadista, ma che espone i curdi siriani a dure rappresaglie da parte di Ankara e Damasco, specie dopon che è stata rifiutata l’ampia autonomia offerta da Bashar Assad in cambio della fedeltà curda al modello di una Siria unica e indivisibile.

Benchè Recep Tayyp Erdogan escluda intese con l’ex amico e poi acerrimo nemico Bashar Assad, di fatto oggi Damasco e Ankara sono impegnate contro lo stesso avversario in base a interessi coincidenti. Il governo siriano vuole riconquistare gli ampi territori della provincia petrolifera di DeirEzzor, arbitrariamente occupati da americani e curdi che li hanno strappati al Califfato già in rotta.

I turchi vogliono invece impedire che si consolidi ai loro confini uno “Stato curdo di fatto” che favorirebbe il risorgere dell’insurrezione di quell’etnia nella Turchia meridionale. Una minaccia che Ankara ha visto concretizzarsi ulteriormente dopo l’annuncio che gli Usa avrebbero addestrato un corpo di 30 mila “guardie di frontiera” curde: numero così eccessivo da nascondere solo malamente la volontà americana di trasformare le FDS (che incorporano anche milizie tribali araba) in un vero esercito del Rojava.

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L’obiettivo evidente degli Usa, secondo il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, è la divisione della Siria: “gli Stati Uniti stanno corteggiando diversi gruppi della società siriana contro il governo, inclusi quelli armati, e questo porterà frutti molto pericolosi”.

La spregiudicata iniziativa statunitense potrebbe quindi far convergere contemporaneamente sulle FDS le offensive turche e siriane, senza bisogno che Ankara e Damasco appaiano alleati ma grazie al coordinamento che già oggi viene attuato dai russi. Un’ipotesi credibile anche se forse non imminente considerando le limitate forze siriane disponibili e la dura battaglia in atto in questi giorni a Idlib.

Ankara del resto è già ai ferri corti con la Casa Bianca per l’aiuto militare offerto ai curdi e anche se Washington ha confermato che la sua presenza militare in Siria non ha scadenze l’entità delle forze messe in campo dagli USA potrebbe non essere tale da scoraggiare gli attacchi siriani e turchi alle FDS. Difficile infatti al momento comprendere se gli Usa siano pronti a difendere i curdi anche al prezzo di una rottura definitiva con la Turchia e di una crisi militare con la Russia.

Foto: AFP e US DoD

 

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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