Verso un confronto USA-Russia “per procura” in Siria e dintorni?

Le notizie degli ultimi giorni relative alla Siria e agli incidenti che hanno coinvolto assetti israeliani ed iraniani sono abbastanza preoccupanti, non tanto per gli incidenti in sé quanto per ciò che potrebbero indicare.

Il raid aereo USA dell’8 febbraio contro forze siriane filo-Assad a Deir Ezzor può essere messo a sistema con le incursioni aeree israeliane condotte in profondità nel territorio siriano il 10 febbraio. Raid condotto inizialmente per colpire basi siro-iraniane da cui sarebbe partito un drone (comunque abbattuto da un elicottero Apache israeliano) e successivamente per rappresaglia contro l’abbattimento di un F-16I (impegnato nel primo raid) da parte siriana.

Sia i raid USA che quelli israeliani colpiscono le forze fedeli a Assad o i suoi alleati. Di conseguenza, colpiscono, per interposta persona, Iran e Russia da cui Assad è supportato politicamente e militarmente.

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Non è difficile vedere come il raid statunitense non risponda ad alcuna logica di contrasto ai gruppi jihadisti e islamisti (che anzi ne sono stati avvantaggiati), ma abbia avuto come effetto principale (e probabilmente come unico obiettivo) di elevare il livello del confronto con la Russia.

Quanto a quelli israeliani, l’entità del raid, il numero di velivoli impegnati e la profondità degli obiettivi colpiti in pieno territorio siriano (12 di cui 3 batterie anti-aeree siriane e 4 obiettivi militari iraniani in Siria) che ha visto gli aerei israeliani giungere sino a Palmira, al centro della Siria, potrebbe apparire forse sproporzionato all’offesa subita.

Per quanto la ritorsione sia una procedura cui Israele deve inevitabilmente fare ricorso, in questo caso forse le Forze di Difesa Israeliane non avrebbero colpito così duramente se Gerusalemme non avesse ricevuto preventive assicurazioni dagli USA di supporto politico ed eventualmente militare se le cose dovessero andare male. Il sospetto è quindi che potrebbe esserci stato una specie di  “mandato” USA a colpire la presenza iraniana in Siria.

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Potrebbe essere significativo che questi eventi siano stati preceduti dalla recente reiterazione di accuse USA ad Assad per presunto uso di munizionamento al cloro. Al riguardo, non si può non ricordare come anche il presunto uso di armi chimiche a Khan Sheikhoun, lo scorso anno, non sia mai stato dimostrato e l’accusa fosse probabilmente strumentale a giustificare il massiccio lancio di missili Tomahawk dalle unità dell’US Navy contro la base aerea russo-siriana di Shayrat.

L’impressione, insomma, è che tutti questi “incidenti” siano indicatori della possibile scelta della Siria come  scacchiere” in cui continuare condurre (anche dopo la sconfitta dello Stato Islamico) una  guerra per procura che poco o nulla ha a che fare con gli elementi di instabilità che già travagliano il martoriato paese.

Come tutti sappiamo, in Siria si combattono diversi scontri di potere a diversi livelli, su piani più o meno paralleli, ma interconnessi. A livello di superpotenze, lo scontro è tra USA e Russia mentre a livello regionale, le potenze in campo sono Turchia, Iran, Arabia Saudita e Israele è che finora ha giocato in difesa della propria sopravvivenza più che per estendere la propria influenza in una regione che le è ostile. Vi sono poi varie entità locali (Curdi, regime siriano, milizie siriane anti-governative, ecc. che operano e combattono battaglie spesso su scala locale.

Lo scontro tra potenze regionali è quasi fisiologico mentre le superpotenze globali (gli USA lo sono ininterrottamente da più di un secolo, la Russia è tornata ad esserlo con Putin) sembrano aver individuato il campo di battaglia siriano come terreno di un loro confronto a distanza che ha le potenzialità per destabilizzare ulteriormente l’intera area mediorientale, con ripercussioni anche sull’Europa e, soprattutto, sulla regione mediterranea.

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Gli USA stanno mettendo in campo diverse misure tendenti a limitare la crescente influenza russa in Medio Oriente e a ciò si aggiunge l’ostilità statunitense nei confronti dell’Iran, sicuramente connessa sia con il fatto che Teheran e Mosca sono alleati sia con le potenzialità nucleari iraniane fortemente criticate da Trump.

La comune contrapposizione con l’Iran cementa ulteriormente lo storico legame tra USA e Israele che potrebbe vedere le Forze di Difesa Israeliana delegate a condurre azioni militari limitate e dimostrative contro la Siria e l’Iran, con l’appoggio di Washington ma senza impegnare direttamente assetti militari a stelle e strisce.

Gli Usa potrebbero così perseguire due obiettivi:

  • Contrastare la crescita di influenza russa nella regione. A tale scopo gli USA sembrano persino tentare di vanificare i positivi risultati di Mosca nella lotta ai vari movimenti jihadisti e terroristici operanti nella regione e a protrarre indefinitamente la situazione di instabilità in Siria.
  • Ostacolare sempre e comunque Teheran il cui programma nucleare continua ad essere descritto da Trump come una delle grandi minacce globali garantendosi l’amicizia dei Sauditi.

Gli schieramenti sono abbastanza espliciti. Da una parte la filiera Mosca-Teheran- Damasco, dall’altra quella Washington – Gerusalemme, con il supporto discreto di Riad e del blocco sunnita, perché per la monarchia saudita un appoggio troppo esplicito agli USA di Trump (colui che ha riconosciuto Gerusalemme Capitale di Israele) e allo Stato Ebraico sarebbe difficile da spiegare sia al mondo arabo sia all’Islam più radicale.

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È chiaro che, da una situazione di conflittualità per procura nella regione siriana (che non potrà non inglobare anche il Libano), trarrebbe sicuramente vantaggio il “sultano” Recep Tayyip Erdogan, che potrebbe continuare a offrire il proprio supporto di volta in volta ad entrambi gli schieramenti (in relazione ai benefici che ne può trarre),

Inoltre aAnkara approfitterebbe della situazione fluida per regolare (indisturbato) i tanti conti che in sospeso con opposizioni interne e curdi

Infine Erdogan continuerebbe a rinforzare il proprio ruolo regionale (si pensi al recente accordo con il Sudan per la realizzazione di una base militare turca nell’isola di Suakin, che sembra preoccupare seriamente sia Egitto sia Sauditi).

Quanto all’Italia e all’Europa, avere alle porte di casa il campo dove si continui a combattere una guerra per procura tra super-potenze non  è piacevole sia per l’instabilità che rischia di proiettare  in maniera ancora più acuta in tutto il Mediterraneo Orientale e Centrale sia per l’inevitabile “spill-over” di problemi connessi con l’esportazione del terrorismo islamista e  ’incremento di un fenomeno migratorio che né l’Italia né l’Europa appaiono capaci di gestire.

Ancora più preoccupante, però, è il fatto che la “partita” geo-politica tra Washington e Mosca che si giocherebbe in Medio Oriente non rappresenterebbe l’impegno prioritario per gli USA (distratti anche da altre partite in altri scacchieri). Per gli Stati Uniti si tratterebbe in realtà di quello che in termini militari viene definito “sforzo secondario” cui verranno comprensibilmente dedicate risorse politiche, economiche e militari ridotte.

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Col rischio concreto del protrarsi temporale della crisi e l’incancrenirsi  di una situazione di instabilità permanente nella regione.

Purtroppo, si è visto sia in Afghanistan (intervento iniziato a fine 2001) sia in Iraq (intervento iniziato nel 2003) che gli USA non sono in grado di garantire in questo tipo di teatri un impegno politico, economico e militare adeguato alle esigenze e soprattutto costante nel tempo.

L’impegno politico, economico e militare statunitense (almeno dopo il 2001) è stato determinato non tanto dalla comprensione e valutazione della situazione del paese in cui intervenivano, bensì prioritariamente dalle scadenze elettorali biennali in patria (quelle presidenziali e quelle di “mid-term”) che spesso hanno privato il Presidente del supporto della maggioranza in Congresso.

Se a ciò si aggiunge che la posizione stessa del Presidente Trump a Washington è considerata non proprio solida, non ci si può aspettare un impegno risolutivo, ma solo azioni politiche ed eventualmente militari sporadiche e spesso scoordinate, dettate non da una visione a lungo termine, ma dall’impellente il bisogno di far vedere che si interviene sempre e tempestivamente (la politica dei tweet!)

Putin, per contro, ha saputo ritagliarsi il ruolo credibile sia di negoziatore sia di “pacificatore” in relazione alla crisi siriana ed è oggi percepito come punto di riferimento forte e credibile anche in Egitto e in Libia.

Damasco, 27 giu. (askanews) - Il presidente siriano Bashar al-Assad ha effettuato oggi la sua prima visita ufficiale nella base militare russa di Hmeimim, nell'Ovest della Siria. Lo ha reso noto la presidenza siriana sui propri account Telegram e Twitter. L'ex base aerea siriana, situata a Sud della città costiera di Latakia, è stata ceduta ai russi all'inizio del loro intervento in Siria, il 30 settembre 2015. Assad ha passato in rassegna carri armati e mezzi blindati e ha discusso gli alti gradi russi. In un video si vede Assad, in giacca e cravatta, salire al posto del pilota su un Sukhoi 35. Domenica scorsa, in occasione della festa islamica Eid al-Fitr, Assad si è recato nella città di Hama. E' la prima volta, dall'inizio del conflitto nel 2011, che il presidente si assenta per così tanto tempo da Damasco. (fonte Afp)

È noto che gli interessi russi nella regione sono molteplici (geo-politici, energetici e militari). Soprattutto la Russia sembra aver dato qualche buona prova in più degli USA nel sapersi impegnare a fondo a favore degli alleati che combattono sul terreno e di essere “costante” in tale impegno (tra l’altro, Putin verosimilmente resterà ancora per alcuni anni al Cremlino e chi rischia la vita sul campo sembra fidarsene più di quanto non possa fare dell’inquilino di turno della Casa Bianca).

Senza interrogarci troppo in merito ai veri motivi per cui le due grandi potenze si stiano oggi confrontando in Siria con l’eventuale coinvolgimento anche dei vari attori regionali da un lato o dall’altro, potrebbe essere per noi più utile incominciare a porsi qualche domanda e elaborare alcune valutazioni.

Innanzitutto cosa potrebbero fare l’Italia e soprattutto l’Europa, per disinnescare, fino a ché si è in tempo, l’evoluzione dell’attuale situazione di crisi?  È chiaro che l’Italia isolatamente non ha voce in capitolo. Con gli Alleati potrebbero comunque essere attivati canali di consultazione politico-diplomatica “interni” alla NATO al fine di esercitare pressioni (che comunque non potrebbero da sole avere effetti significativi) sugli USA e sulla Turchia.

L’Unione Europea non solo non sarebbe comunque in grado di tentare di svolgere un ruolo di mediatore tra USA e Russia, ma difficilmente potrebbe persino trovare una posizione unitaria sull’argomento.

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Poi occorre chiedersi come, eventualmente, far fronte alle conseguenze di una conflittualità che potrebbe perdurare molto a lungo (flussi migratori difficili da controllare, incrementate attività terroristica anche a casa nostra)? Su questo punto, forse si potrebbe trovare una posizione condivisa con alcuni Alleati europei.

Infine porsi la domanda su che posizione assumere perché stare a guardare e mantenere un olimpico distacco non ci sottrarrà alle conseguenze negative di una tale conflittualità, se non si dovesse essere in grado di disinnescarla. Oggi siamo alleati (in ambito NATO) di USA e Turchia, ma tale schieramento sarebbe nel nostro interesse anche in relazione ad una perdurante conflittualità per procura in Siria? Il discorso su questo punto sarebbe abbastanza complesso, ma meritevole sicuramente di un esame non partigiano e scevro da posizioni ideologiche precostituite.

Foto: Mikhail Klimentyev/AFP/Sputnik/Getty Images, AFP, Israeli Defence Forces, AP, US DoD e SANA

 

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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