Afghanistan: il gasdotto della pace?

da Il Mattino delò 1° marzo 2018

Più delle armi poté il gasdotto. Il moltiplicarsi dei segnali che indicano la disponibilità dei talebani afghani a negoziare la pace nel paese asiatico martoriato da quasi 40 anni di guerra sembra legato strettamente allo sviluppo del gasdotto TAPI, che prende il nome dalle iniziali di Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India.

La pipeline, progettata oltre 20 anni or sono e mai realizzata proprio a causa del conflitto afghano, è destinata a portare in Pakistan e India il gas estratto nei giacimenti turkmeni attraversando da nord a sud l’Afghanistan, è stata completata nel tratto iniziale che raggiunge la città afghana di Herat e dovranno ora prendere il via i lavori che riguardano lo sviluppo dell’infrastruttura verso Farah, la provincia di Helmand e Kandahar fino a raggiungere il confine pakistano.

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Si tratta delle terre dove viene prodotto gran parte dell’oppio afghano, roccaforti talebane in gran parte controllate dagli insorti islamisti che hanno inaspettatamente annunciato il sostegno al progetto. I

l portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha dichiarato il 22 febbraio che “il TAPI è un importante progetto economico per l’Afghanistan” ricordando che “il primo contratto per la sua costruzione fu firmato quando eravamo al governo dell’Emirato islamico dell’Afghanistan (1996-2001)” e aggiungendo che “nelle aree sotto il nostro controllo annunciamo l’appoggio al progetto”.

Il TAPI avrà un costo di oltre 10 miliardi di dollari finanziati dalla Asian Development Bank, unendo lungo 1814 chilometri di tubazioni i giacimenti turkmeni di Galkynysh alla città indiana di Fazilka (appena oltre il confine pakistano) consentendo al Turkmenistan di esportare, a partire dal prossimo anno, 33 miliardi di metri cubi di gas all’anno preziosi per le economie di Pakistan e India.

Imponenti le misure di sicurezza che hanno protetto la cerimonia per l’avvio dei lavori del tratto afghano del gasdotto, tenutasi ad Herat il 23 febbraio alla presenza del presidente afghano Ashraf Ghani, di quello turkmeno Gurbanguly Berdymukhamedov, del primo ministro pakistano Shahid Khaqan Abbasi, di una delegazione indiana, del comandante supremo delle forze Nato in Europa, generale Curtis Scaparrotti e di quello delle forze alleate in Afghanistan, generale John Nicholson.

Cornice di sicurezza dei militari italiani durante l'incontro della delegazione NATO con il Presidente Ghani_ (002)

Misure che hanno coinvolto 3mila militari e poliziotti afghani e 400 militari italiani del contingente schierato a Herat incentrato attualmente sulla Brigata Sassari.

“Il dispositivo italiano ha offerto la propria consulenza per garantire le condizioni di sicurezza necessarie allo svolgimento dell’incontro, avvenuto ad Herat successivamente alla cerimonia, fra il Presidente Ashraf Ghani ed il Gen. Curtis Scaparrotti, Supreme Allied Commander Europe (SACEUR), accompagnato da 4 ambasciatori presso la NATO (italiano, statunitense, tedesco e turco) e dal Gen. Nicholson” recita il comunicato del comando dell’operazione Resolute Support a Gerat (TAAC-W).

“Il duro lavoro del contingente italiano su base Brigata “Sassari” ha consentito, mediante un supporto concreto ed aderente alle richieste espresse dalle Forze di Sicurezza locali, lo sviluppo regolare e pianificato delle celebrazioni, che ha guadagnato l’unanime apprezzamento dei massimi Vertici politici internazionali e degli Alti Comandi della NATO”.

Cornice di sicurezza dei militari italiani durante l'incontro della delegazione NATO con il Presidente Ghani (002)

Il gasdotto “porterà sviluppo e cooperazione ai quattro paesi, e finalmente collegherà l’Asia centrale a quella meridionale attraverso l’Afghanistan dopo oltre un secolo di divisioni” ha detto il presidente afghano Ashraf Ghani. Un ottimismo che, per una volta, sembra giustificato anche da quanto accaduto nelle ultime 48 ore.

Nel momento in cui cominciano ad affluire in Afghanistan i 4mila rinforzi statunitensi annunciati da Donald Trump, che includono 800 uomini di unità combattenti destinate a raggiungere gli avamposti in prima linea per affiancare le truppe di Kabul, i Talebani hanno ufficialmente chiesto di aprire trattative con Washington.

In un comunicato del 26 febbraio i Talebani hanno invitato “i funzionari americani a parlare direttamente con l’Emirato islamico allo scopo di raggiungere una soluzione pacifica al dilemma afgano”.

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Si tratta di un’evoluzione rilevante tenuto conto che finora gli insorti avevano posto la precondizione del ritiro delle forze Usa e Nato che sostengono il “governo fantoccio” di Kabul per aderire a negoziati.

Ufficialmente Washington ha sempre rifiutato negoziati che non coinvolgessero anche il governo afghano, anche se con discrezione non sono mai mancati i contatti bilaterali nella sede diplomatica aperta dai Talebani in Qatar con il consenso degli Usa.

In gennaio la Casa Bianca aveva respinto ogni ipotesi di colloqui dopo le stragi compiute a Kabul da una serie di sanguinosi attentati suicidi ma a inizio febbraio, con una lettera “al popolo e al Congresso degli Stati Uniti”, i Talebani avevano aperto a negoziati diretti.

Difficile quindi ritenere che Trump si lasci sfuggire l’opportunità di essere il protagonista di una soluzione negoziata al conflitto che in 17 anni è costato centinaia di miliardi di dollari provocando oltre 2.400 morti tra i militari americani. Un successo che darebbe lustro a un presidente da sempre scettico circa l’impegno militare a Kabul ma che recentemente aveva accettato di potenziare i raid aerei e portare ad almeno 15mila unità le forze in Afghanistan.

Militari italiani all'imbarco per recarsi sul luogo della cerimonia_ (002)

Alla svolta negoziale dei Talebani hanno contribuito valutazioni di tipo economico, militare e politico. Da un lato il TAPI consentirà ricadute positive per le popolazioni pashtun (l’etnia afghano-pakistana che esprime il movimento dei Talebani) che vivono nelle poverissime regioni attraversate dal gasdotto mentre la pace consentirà di avviare lo sfruttamento delle ingenti risorse minerarie afghane garantendo sviluppo e molti posti di lavoro all’Afghanistan che svetta nella classifica mondiale della povertà.

Sul piano militare i successi conseguiti dagli insorti in questi mesi non sono risolutivi, le forze governative (nonostante le terribili perdite subite) riescono a difendere i grandi centri urbani e grazie ai rinforzi americani potranno migliorare le loro prestazioni.

Inoltre i Talebani devono fare i conti con la crescente concorrenza interna al fronte jihadista portata dallo Stato Islamico del Korashan (fazione afghana dell’IS) che secondo Mosca dispone di migliaia di combattenti mentre il comando Usa a Kabul ne stima non più di 1.500.

Militari italiani durante la bonifica esplosivi nel luogo della cerimonia (002)

In termini politici poi il supporto finora fornito dal Pakistan agli insorti islamisti avversi al governo di Kabul potrebbe venir meno ora che Islamabad deve fare i conti con lo stop agli aiuti militari decretato da Trump, che accusa i pakistani di sostenere i terroristi, e di fronte ai benefici offerti dal TAPI.

Benefici non solo economici dal momento che lo sviluppo del gasdotto avrà probabilmente un impatto distensivo anche nei rapporti tra Pakistan e India.

Una conferma delle aperture a trattative di pace dovrebbe giungere già nelle prossime ore da Kabul dove si apre oggi la seconda edizione della conferenza regionale di pace con i rappresentanti di 25 paesi tra cui tra cui Usa, Cina, Russia, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, India, Pakistan e Iran.

Non ci saranno gli insorti ma il presidente Ghani ha già preannunciato che “alla conferenza presenteremo un piano di pace globale per i Talebani e il Pakistan”.

Foto: TAAC-W. Tolo New e AP

 

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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