Riflessioni afghane

I recenti attentati in Afghanistan rivendicati dai Taleban e dallo Stato Islamico, hanno riportato l’attenzione della pubblica opinione sull’annosa conflittualità nell’area centro-asiatica – che ha polarizzato le posizioni dei combattenti, nonché eroso la fiducia della popolazione – e sta diventando endemica.

Nessuna delle principali forze coinvolte nella intricata crisi sembrava finora intenzionata a provare approcci diversi, ricercando la via della mediazione, come avvenuto nel passato, anche se nelle ultime settimane sembra prendere piede l’avvio di un processo negoziale tra Usa, governo di Kabil e Talebani proposto dagli insorti stessi.

Negli anni scorsi vale la pena ricordare l’efficace “modello” di un appropriato comprehensive approach (approccio integrato) tra le componenti militari e civili adottato dall’Italia nel marzo/settembre 2003 in Afghanistan, provincia di Khowst – attuato con l’impiego del contingente italiano della Task Force Nibbio.

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Alle nostre Forze Speciali nazionali- per le quali l’organizzazione e la condotta della guerriglia ““integrata” ed il contro terrorismo costituiscono la “palestra”, in termini di formazione, ed esclusive peculiarità indispensabili nonché “dotazione e patrimonio” appartenenti ai soli incursori per affrontare i conflitti asimmetrici – fu affidato il compito di condurre attività di controllo del territorio e di interdizione nella propria Area di Responsabilità. Inoltre furono incaricate di concorrere alla neutralizzazione/distruzione di sacche di terrorismo, di possibili basi logistiche e di centri di reclutamento e di formazione di Al Qaeda e Talebani.

L’obiettivo era quello di realizzare le condizioni di sicurezza e stabilità necessarie alla “riedificazione della Nazione” (State Rebuilding). In sostanza, riprendere il controllo del territorio di una delle province più sensibili dell’Afghanistan, provincia altresì diffusamente “frequentata” da Talebani e da miliziani di al-Qaeda. Questi ultimi, prevalentemente di notte, attraversavano il confine, assai poroso, con il Pakistan, vestendo il tipico abbigliamento afghano al fine di integrarsi più agevolmente con la popolazione locale per acquisirne il consenso, imparare/perfezionare la lingua e sviluppare attività di Intelligence.

FATA

Confine caratterizzato da numerosi e accessibili attraversamenti provenienti dalle FATA (Federally Administered Tribal Areas – aree tribali ad amministrazione federale) e dalle NWFP (North-West Frontier Province – ora Khyber Pakhtunkhwa Province – provincia della frontiera del nord ovest), entrambe in territorio pakistano e pertanto comodi rifugi per terroristi.

Nel quadro delineato, le nostre Forze Speciali impiegate a Khowst sono state in grado, grazie anche allo specifico concorso fornito ininterrottamente dai vari operatori civili confluiti nell’area – sanitari, veterinari, agronomi, etc. – di acquisire il consenso della popolazione, obiettivo prioritario del conflitto asimmetrico.

La loro preziosa opera ha concorso a supportare efficacemente quella dei militari che – in tempi ragionevolmente brevi – hanno “bonificato” progressivamente il territorio, rendendo sicura la Provincia di Khowst e predisponendola alla fase successiva (poi non adempiuta), cioè l’intervento del Provincial Reconstruction Team (PRT-Squadra di Ricostruzione Provinciale) per avviare la riedificazione del Paese. Con analogo modus operandi si sarebbe potuto proseguire nelle altre Province, con obiettivo strategico finale – a lavori ultimati – di far “certificare” alla “Loya Girga” (Consiglio Nazionale), la formazione di un governo interetnico in grado di procedere alla riedificazione del Paese e di restituire, infine, l’Afghanistan agli Afghani. Paese da circa quaranta anni in conflitto, senza soluzione di continuità.

 

Heartland e Rimland

Quasi sicuramente un così articolato ed efficace concetto operativo non era né è funzionale alle strategie delle potenze interessate all’area, che vede comunque a confronto sempre le due super potenze nel “nuovo grande gioco”. Fin dal periodo della guerra fredda (1947-1991) le stesse hanno sviluppato un serrato confronto ideologico sostenuto dalle nuove teorie geopolitiche – Hearthland e Rimland – che hanno surrogato quella tedesca dello Spazio vitale (lebensraum).

Heartland

La teoria dell’Hearthland individuava, nel possesso dell’area euro-asiatica, la potenza che avrebbe dominato il mondo. Per contro quella del Rimland individuava, nella fascia dei Paesi rivieraschi – sempre dell’area euro asiatica – la potenza che ne avrebbe contenuto lo sviluppo attraverso il controllo dei mari.

Peraltro l’importanza strategica del mare era già stata sottolineata nel 1823 nella dottrina Monroe che sembrò sostanzialmente già una spartizione del mondo, cioè l’America agli Americani e l’Europa agli Europei. Per il resto del mondo libertà d’azione, pur con qualche binario preferenziale: l’Asia Orientale e il Pacifico per gli Stati Uniti, l’Asia Occidentale e l’Africa alle potenze europee. Era la nuova visione politica del mondo, delle grandi potenze, in zone di influenza che iniziò a sfruttare i fattori geografici per giustificare le scelte politiche e coloniali, degenerata poi nel concetto di “spazio vitale”.

Sulla base delle teorie del Rimland e dell’Heathland, l’URSS avviò:

  • prima il Comintern (Internazionale comunista, associazione costituitasi a Mosca nel 1919, cui aderirono numerosi gruppi e formazioni politiche di orientamento comunista);
  • poi il Cominform (Ufficio d’informazione dei partiti comunisti, per la conquista ideologica dell’est europeo e dell’area centro-asiatica).

Gli USA, per contenerne l’espansione, costituirono:

  • prima la NATO (1947);
  • poi la SEATO – South East Asian Treat Organization – organizzazione di difesa per il sud est asiatico, nata nel 1954. Sottoscritta da Francia, Australia, Filippine, Nuova Zelanda, Pakistan, Regno Unito, Stati Uniti d’America e Thailandia. Disciolta nel 1977;
  • infine la CENTO (che rappresentava l’anello di congiunzione tra la NATO e la SEATO) – Central Treaty Organization, già Middle East Treaty Organization (METO) – trattato nato nel 1955 e firmato nel 1959 tra Pakistan, Iran, Iraq, Turchia e Regno Unito. Non più operativo dal 1979, di fatto ha smesso di funzionare nel 1974 (invasione di Cipro da parte della Turchia).

L’Africa fin da allora restò negletta e completamente trascurata, dimenticando il binario preferenziale che la vedeva geopoliticamente collegata all’Europa.

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L’Europa, benché disastrata dalla 2^ guerra mondiale, ricevette nell’aprile 1949 dal Presidente americano Truman i cardini della geopolitica antisovietica – che tra l’altro perorava la costituzione di un’Europa unita e governata democraticamente – per impedire la rinascita della potenza prussiana e naturalmente proiettata verso l’Africa.

Nei primi “vagiti” della Comunità Europea si tentò, nel 1963, con la Convenzione di Yaoundé (capitale del Camerun), l’associazione di diciotto Stati dell’Africa e del Madagascar – tutti ex colonie di Stati membri della Comunità – in un sistema di cooperazione. Questo, però, fu poi snaturato dall’ingresso – nella Comunità – del Regno Unito che condusse alla Convenzione di Lomé (capitale del Togo) del febbraio 1975, allargata fino al Pacifico e completamente inconcludente. Ora, assaliti da ondate migratorie africane, “piangiamo sul latte versato” e ricerchiamo aiuto dalla sponda africana ormai preda di ben altri appetiti.

 

L’instabilità dell’Asia Centrale

Ma tornando al grave problema dell’instabilità centro asiatica, ricordiamo che l’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979 tendeva a superare il cordone sanitario del Rimland e richiese, di conseguenza, l’impegno statunitense nel sostenere la guerriglia dei mujaheddin. Sostegno lasciato alla completa gestione di un paese islamista, il Pakistan, guidato da militari imbevuti di teorie wahhabite e deobandi – in merito alle quali molti incontrano difficoltà, per la notevole affinità, nel rilevarne la differenza – nonché ciecamente diretti da un apparato informativo che ha fatto dell’ambiguità la propria rispettabile facciata.

Militari italiani in osservazione durante il PTAA a Qal'ha-ye Now (002)

I successivi interventi degli USA nell’”arena” afghana – dopo l’attentato delle Torri Gemelle (11 settembre 2001) – hanno solo privilegiato l’aspetto militare senza tenere in alcuna considerazione quello etnico-tribale che, nel contesto di conflitti asimmetrici, risulta alla lunga vincente. Carenza abbondantemente sottolineata, peraltro, dal Gen Petreus. La conoscenza del terreno e del linguaggio culturale – fattori completamente sconosciuti dai soldati americani – ha tenuto sotto scacco quelle forze armate, come già avvenuto nel Vietnam e come ha fatto esperienza diretta la stessa URSS con l’invasione afghana.

Inoltre, le modalità di condotta delle missioni statunitensi, unitamente al ruolo marginale assegnato alla NATO ed ai loro alleati – dagli Statunitensi stessi – hanno evidenziato che la dottrina Monroe (in sostanza le premesse per affermare l’egemonia statunitense sull’intero continente, con successive evoluzioni) ha solo subito un rafforzamento strategico. Rafforzamento ottenuto spostando il baricentro geopolitico – ovvero l’area Pivot – negli States in funzione degli esclusivi interessi di questi ultimi, ma non dei loro alleati appartenenti o meno alla NATO.

 

Il mancato consolidamento in Afghanistan

Di conseguenza le opinioni altrui e i tentativi di mediazione conflittuale contano poco o nulla. L’esperienza di Khowst poteva essere tranquillamente proseguita con il PRT e poi replicata anche in altre province così da condurre l’Afghanistan ad un consolidamento statuale. Ma non si è voluto procedere oltre.

Occorre inoltre aggiungere che la mancata soluzione della conflittualità afghana ha un vizio di origine con l’esclusione della rappresentanza talebana nella c.d. Conferenza di Bonn – 5 dicembre 2001 – ove erano presenti delegati dei seguenti quattro gruppi afghani: Alleanza del Nord (11 delegati), pashtun del “Gruppo di Peshawar” (3 delegati), hazeri del “gruppo di Cipro” (3 delegati) e monarchici fedeli a Zahir Shah (11 delegati). La mancata presenza di talebani al tavolo di tale conferenza – definita futile, dai talebani stessi – riteniamo sia stato un errore strategico. Venivano esclusi, infatti, soggetti appartenenti alla popolazione afghana, in particolare all’etnia (pashtun) più numerosa.

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Soggetti, altresì, profondi conoscitori del territorio i quali avevano maggiormente contribuito a sedare la lunga guerra civile ricercando – pur attraverso la rigorosa applicazione della sharia – l’unità del Paese. Appare significativo sottolineare che i talebani del mullah Omar – ancorché sostenuti nella loro avanzata da Pakistan e Arabia Saudita – erano, come sopra indicato, afghani nonché imbevuti di ideologia nazionalista, assai rilevante e significativo “collante” del popolo afghano. Ideologia che ha sempre impedito, con successo, le conquiste ad opera di altri Paesi, sia inglesi sia russi/sovietici, nonché mirata alla ricostituzione del noto Pashtunistan – regione storica, abitata dal popolo pashtun già dal primo millennio a.C., politicamente divisa nel 1893 dalla Linea Durand, un confine di 2.640 km – ovviamente da sempre avversato dal Pakistan.

Di contro la dottrina strategica pakistana è sempre stata incentrata nello sfruttamento di qualsiasi situazione utile per fare dell’Afghanistan un suo docile satellite perché funzionale al suo eterno contenzioso con l’India. E – proprio per le finalità di tale disegno – è conseguente la “formazione” da parte del Pakistan, in chiave anti sovietica, dei giovani rifugiati e studenti afghani “maturati” in Taliban. Ma le responsabilità pakistane non finiscono qui, perché:

  • nel 1988, il capo dell’ISI (Inter-Services Intelligence, Servizio segreto pakistano) Hamed Gul, patrocinò la costituzione di Al Qaeda per l’avvio dell’embrione califfale nell’Asia centrale. Al riguardo, il governo talebano – una volta insediatosi nel 1996 – si proclamò Emirato Islamico dell’Afghanistan;
  • nel 1992, dopo il ritiro dall’Afghanistan – in preda alla guerra civile – dell’URSS, quando Hamid Gul (capo dell’ISI pakistano), interessato a sviluppare una rivoluzione islamica transnazionale (costituzione del califfato) nell’Asia centrale – ad iniziare dall’Afghanistan – continuò a sostenere i mujaheddin. Questi ultimi, sempre nel 1992 conquistarono Kabul e proclamarono la nascita dello Stato Islamico dell’Afghanistan. Ma la nuova Istituzione non poté svilupparsi né consolidarsi, nonostante l’Accordo di Peshawar – intervenuto nello stesso anno, per una condivisione del potere e un governo ad interim, al quale dovevano seguire le elezioni generali – tra le varie fazioni (i partiti politici e i gruppi mujaheddin che si erano ribellati alla precedente Repubblica Democratica, concordarono una pace – Accordo di Peshawar – per una condivisione del potere).

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La fazione Hezb-e Islami di Gulbuddin Hekmatyar, sostenuta dal Pakistan, riaprì i dissidi inter-etnici ed ideologici poiché non gradiva la prevalenza tagika di Ahmad Shah Massoud nella componente governativa. Hekmatyar, sostenuto dalle milizie pakistane, provocò lo scoppio di nuove violenze con bombardamenti contro Kabul ed iniziò una nuova fase della guerra civile contro l’Alleanza del Nord di Massoud, che alla vigilia dell’attentato alle Torri Gemelle venne assassinato in un attentato (09 settembre 2001);

  • nel 2000, sempre Hamid Gul favorì l’incontro fra Abu Musab al Zarqawi – “padre naturale e biologico dell’ISIS”, fuggito dalla Giordania e riparato in Pakistan, inizialmente fermato dalle autorità pakistane e successivamente dalle stesse rilasciato con un lasciapassare ed inviato in Afghanistan – con Osama bin Laden e sotto la stessa regia costituì AQI (al Qaeda in Iraq), poi diventata ISIS;
  • nel gennaio 2015, un gruppo sedicente scissionista dei Tehrik-i-Taleban Pakistan (TTP) – i cosiddetti talebani pakistani – ha aderito formalmente allo Stato Islamico (Isis) diventando una provincia del Califfato, la ““waliyat Khorasan”, sotto la guida di Hafiz Khan Saeed.

Quest’ultimo, prima del 2015, era un alto comandante dei TTP, con a capo Mullah Fazlullah e il suo vice, reale gestore del gruppo, Sheikh Khalid Haqqani, altro “dirigente” della meglio nota “Rete Haqqani” capeggiata dal noto Jalaluddin, responsabile militare della rete che fa capo alla sua famiglia nonché dal nipote Sirajuddin “amministratore” degli affari economico-finanziari del gruppo fondamentalista, in connivenza con l’Inter-Services Intelligence (ISI). Stranamente la costituzione avviene in sincronia subito dopo il settembre 2014, quando la coalizione anti ISIS, con l’intervento dell’Arabia Saudita, avviò efficaci bombardamenti contro lo Stato Islamico e il Fronte al-Nusra in Siria – in particolare contro una cellula di quest’ultimo denominata gruppo Khorasan – che hanno condotto al dissolvimento dell’Islamic State. Non va dimenticato che Jabhat al-Nusra li-Ahl al-Sham (“Fronte del soccorso al popolo della Siria”), venne costituito nel gennaio 2012 sotto la regia di Osama bin Landen rifugiato ad Abottabad, sotto la protezione pakistana.

L’occupazione dell’area del Khorasan, come di quella irakena ad opera dell’Isis, era ed è comunque funzionale alla eliminazione della presenza, in quei territori, della popolazione di confessione sciita.

 

Lo scontro sciti-sunniti

Lo scontro fra sciiti e sunniti è atavico e risale già al 632 d.C., anno della morte di Maometto, epoca del confronto fra lo Shiat Ali (il partito di Ali, cioè gli sciiti) ed i seguaci della sunna (ovvero i sunniti), contenzioso che nel tempo si è caricato di odio che lo Stato Islamico ha espresso nei modi più cruenti: il padre naturale dell’IS, Abu Musab al Zarqawi, considerava gli sciiti “scorpioni velenosi, molto più pericolosi degli americani”.

U.S. Army Sgt. Micah Smith walks with his fellow Soldiers to the next objective during an air assault mission conducted by the 3rd Battalion, 187 Infantry Regiment, 101st Airborne Division in Mahmudiyah, Iraq, July 3, 2008. (U.S. Army photo by Spc. Richard Del Vecchio/Released)

La diffusione dell’ideologia sunnita presuppone comunque la ricostituzione del califfato, perché insita nella visione bipolare geopolitica-religiosa del radicalismo islamico, ove gli stati-nazione – che dividono la Umma musulmana – non sono riconosciuti ed i centri di diffusione del jihadismo, costituiti nel tempo nelle varie aree di crisi, esprimono il tentativo di ricostituirla al di sopra degli Stati nazionali.

Questa visione strategica equivale a riproporre lo scontro atavico fra sciiti e sunniti, ragion per cui a queste linee di espansione si è contrapposto e si contrappone l’Iran, rinsaldando costantemente la sua stretta alleanza con gli sciiti iracheni, quelli della penisola arabica e del Golfo persico, la Siria e la Russia. Quest’ultima interessata a contenere l’espansionismo jihadista verso il Caucaso, ove sono già stati provocati notevoli e allarmanti danni con la radicalizzazione della Cecenia e della confinante repubblica del Daghestan (Repubblica ubicata ad ovest del Mar Caspio – con una superficie di 50.300 km quadrati – ha una popolazione di circa due milioni e mezzo di abitanti. Questi ultimi “articolati” su una ventina di etnie e costituiti, intorno al 90%, da musulmani in maggioranza di confessione sunnita), obiettivo dei militanti che vorrebbero farne uno stato islamico indipendente da Mosca.

Nel quadro delineato, se l’Iran e la Russia in Siria stanno sostenendo Assad, ergo i suddetti sono i nemici ai quali occorre rivolgere tutta l’attenzione per impedire che realizzino una contiguità territoriale – e non solo ideologico-religiosa – nella fascia Siria, Iraq, Iran. E l’ISIS si pone proprio in mezzo per contrastare tale saldatura.

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La collocazione geopolitica del Pakistan nell’area del Rimland e la sua atavica alleanza con l’Arabia Saudita confermano il deleterio paternalismo degli USA nei suoi riguardi. Ciò ha provocato non solo il sostegno e l’alimentazione di gruppi terroristici, ivi compreso l’ISIS – dati i conclamati legami della Wilayat Khorasan, più o meno legati all’idea della restaurazione del califfato – ma anche una vasta proliferazione nucleare ad opera di Abdul Khan, padre dell’atomica pakistana, che ha confessato di aver ceduto tecnologie nucleari a Libia, Iran e Corea del Nord, ora diventata artefice della nuova MAD (Mutual Assured Destruction, Reciproca Distruzione Assicurata).

Oggi – dopo la quarantena in cui è stato collocato il Qatar – Arabia Saudita, Pakistan e USA sono tornati ad uno stretto coordinamento strategico-politico, per evitare:

  • la frammentazione del Rimland, che le iniziative dei Qatarioti in sostegno di al Nusra e di Isis stavano attuando, consentendo così ai Russi di egemonizzare Siria, Iran ed in parte Iraq, eliminando l’Isis;
  • il disallineamento del Qatar da una integrale dottrina wahhabita, il quale si è adoperato non solo per intese energetiche con l’Iran, ma anche per surrogare la supremazia religiosa wahhabita nel mondo islamico con quella meno intransigente esercitata dai Fratelli Musulmani.

Dopo la dissoluzione dell’ISIS ne consegue che il Pakistan è stato di nuovo delegato a riprendere in mano le redini dei resti di Talebani, Al Qaeda e Isis al fine di conquistare definitivamente l’Afghanistan ed espandersi verso l’Asia Centrale. Quanto sopra delineato allo scopo di raggiungere quelle Repubbliche mussulmane ex sovietiche che – attraverso nuove iniziative del Presidente Putin – stanno tornando nell’orbita della rinata superpotenza russa, per ampliare il Rimland a scapito dell’Hertland, oltre ad acquisire enormi risorse energetiche. In tale quadro:

  • nel 2017 c’è stato un rafforzamento della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Shanghai Cooperation Organization, SCO) – organismo intergovernativo costituito dal Gruppo dei 5 – fondato nel 1996 dai capi di Stato di Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e dell’Uzbekistan;
  • nel 2010 è stata costituita l’Unione doganale euro-asiatica con Russia, Bielorussa e Kazakistan, un’alleanza economica tendente a diventare più ampia per comprendere anche altri paesi ex-sovietici.

Conclusioni

In conclusione – sul piano strategico ideologico – IS, Talebani ed Al Qaeda sono probabilmente la risultante di una “joint venture”, realizzata nel decennio 2003-2013, tra wahabismo e Fratelli Musulmani rivoluzionari, entrambi permeati dal salafismo più retrivo e disumano. L’ideologia portante di questa nuova forma conflittuale non è laica bensì religiosa ed è più totalizzante rispetto a quella che caratterizzava la “guerra fredda” che per oltre mezzo secolo ha travagliato est ed ovest.

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Non si spiega diversamente la mancata soluzione del problema afghano, dopo oltre 18 anni di caos messo in piedi nell’area. E da qui la ripresa degli attentati in territorio afghano.

Dalle “lezioni apprese” l’Afghanistan è stato finora la scacchiera su cui si sono giocati gli interessi altrui ed anche i recenti attentati evidenziano che su quel territorio si stanno giocando gli interessi del TAPI – un gasdotto che coinvolge quelli di Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India – che potrebbe anche preludere a possibili trattative di pace, in particolare tra Talebani e Pakistan.

Non è facile uscire da un conflitto asimmetrico ove gli eterogenei interessi sono stati finora perseguiti mediante la guerriglia e il terrorismo – peraltro non sempre contrastati con modus operandi propri delle Forze Speciali – che hanno finito per radicalizzare la violenza di tutti contro tutti, senza un appropriato impiego della mediazione, che sembra ora intervenire con il TAPI. L’iniziativa potrebbe dare soluzioni al popolo afghano che ha finora risposto – a quanti hanno cercato di soggiogarlo – con il proprio linguaggio culturale, popolato di aforismi tra i quali: “…voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo….non si può combattere una guerriglia solo stando a guardare l’orologio”.

Foto: US DoD, ISAF, Difesa.it, Op. Resolute Support e TAAC-W

 

Luciano Piacentini, Claudio MasciVedi tutti gli articoli

Luciano Piacentini: Incursore, già comandante del 9. Battaglione d'Assalto "Col Moschin" e Capo di Stato Maggiore della Brigata "Folgore", ha operato negli Organismi di Informazione e Sicurezza con incarichi in diverse aree del continente asiatico. --- Claudio Masci: Ufficiale dei Carabinieri già comandante di una compagnia territoriale impegnata prevalentemente nel contrasto al crimine organizzato, è transitato negli organismi di informazione e sicurezza nazionali dove ha concluso la sua carriera militare.

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