Siria: se Trump lascia spazio agli arabi

da Il Mattino del 23 aprile 2018

L’attuazione del piano annunciato più volte da Donald Trump per ritirare dal territorio siriano i 2mila militari statunitensi schierati al fianco delle milizie curdo-arabe delle Forze Democratiche Siriane (FDS) sta influenzando pesantemente gli sviluppi strategici del conflitto siriano e potrebbe costituire la reale posta in gioco dietro ai raid missilistici alleati del 14 aprile.

La Casa Bianca ha sollevato ormai da un mese la questione del ritiro dei militari dalla Siria, aspramente criticata da diversi ambienti dell’Amministrazione Trump e soprattutto dal Pentagono mentre tra gli alleati degli Usa viene osteggiata in modo particolare dall’Arabia Saudita.

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Le ragioni sono del resto evidenti: oggi il ruolo delle truppe statunitensi al fianco dei curdi costituisce un deterrente contro le offensive dell’esercito turco nel nord della Siria e contro le truppe di Bashar Assad e dei loro alleati russi e iraniani che vorrebbero spingersi a oriente del fiume Eufrate, regioni ricche di gas e petrolio.

Nelle operazioni contro lo Stato Islamico le FDS appoggiate dalle truppe americane hanno conquistato ampi territori ben al di là della regione abitata dai curdi (Rojava) con l’obiettivo prioritario di impedire ad Assad di completare la riconquista di gran parte del territorio nazionale.

La presenza di forze statunitensi non ha solo impedito alle truppe siriane di avanzare oltre l’Eufrate ma ha contribuito ad esercitare una forte deterrenza contro la presenza militare russa che ha visto l’uccisione in circostanze mai del tutto chiarite di diversi soldati e ufficiali di Mosca mentre in una battaglia verificatasi nel febbraio scorso potrebbero essere rimasti uccisi molte decine (secondo alcune fonti addirittura 200) di contractors russi arruolati da Assad.

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Il ruolo delle truppe americane non è certo legato al contrasto delle ultime sacche di resistenza delle milizie del Califfato ma ha l’obiettivo strategico (condiviso con Israele e le monarchie sunnite del Golfo) di interrompere la “mezzaluna scita”, cioè la continuità territoriale e strategica che si estende dall’Iran all’Iraq e alla Siria fino a raggiungere il Mediterraneo nel Libano meridionale controllato dalle milizie Hezbollah.

Evidente la battaglia in atto tra Trump e una parte rilevante della sua amministrazione e degli alleati circa il ritiro delle truppe dalla Siria è sotto gli occhi di tutti.

Il 15 aprile l’ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, ha precisato che gli Stati Uniti non ritireranno le loro truppe presenti in Siria finchè non saranno raggiunti tre obiettivi: la certezza che nessun tipo di arma chimica possa essere usata contro gli interessi degli Usa, la sconfitta dello Stato islamico e la capacità di sorvegliare le attività militari iraniane in Siria.

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In questo contesto non sfugge che la denuncia dell’attacco chimico attribuito (per ora senza prove) alle forze di Assad a Douma, è stata formulata dalla milizia filo-saudita Jaysh al-Islam pochi giorni dopo l’annuncio di Trump del ritiro imminente delle truppe.

Del resto arabi e turchi hanno giocato insieme alle potenze Occidentali un ruolo rilevante nella destabilizzazione del regime di Assad e nel sostegno ai ribelli che sotto diverse sigle e bandiere scatenarono la guerra civile a partire dal 2011.

Il tentativo di coinvolgere direttamente le potenze Occidentali nella guerra siriana sfruttando l’onda emotiva di ipotetici attacchi chimici ha però ottenuto un successo solo limitato e ai raid del 14 aprile non ha fatto seguito un’escalation del coinvolgimento bellico dell’Occidente.

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Il 5 aprile, dieci giorni prima i raid missilistici su Homs e Damasco, Trump non aveva nascosto l’irritazione per l’ostilità del suo entourage militare e della sicurezza nazionale (dal segretario alla Difesa, James Mattis, a Mike Pompeo ex direttore della CIA e neo segretario di Stato, al generale Joseph Dunford, capo degli Stati maggiori riuniti) al rientro dei 2mila militari schierati in Siria.

Trump continua a ritenere che gli USA investano in Medio Oriente risorse finanziarie e militari che non vengono compensate dagli alleati, dopo il fallito tentativo di far pagare a Riad i costi miliardari delle forze militari statunitensi schierate nel Golfo.

Il presidente sembrava però aver accettato, come soluzione di compromesso, di lasciare le truppe in Siria fino alla definitiva sconfitta dello Stato Islamico, non oltre sei mesi secondo indiscrezioni raccolte dalla Cnn.

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Un tempo sufficiente a raccogliere la disponibilità di altri alleati a rimpiazzare le truppe americane in territorio siriano con un’operazione che lascia aperti molti interrogativi.

Il ministro degli Esteri saudita, Adel al Jubeir, ha ribadito il 18 aprile la volontà del regno di schierare truppe in Siria ma la presenza di truppe arabe in territorio siriano costituirebbe non solo una violazione del diritto internazionale (come lo è di fatto la presenza militare statunitense, non richiesta da Damasco né autorizzata da una risoluzione dell’Onu) ma verrebbe vista come un atto di guerra dal governo siriano e dall’Iran, con il rischio di un confronto bellico tra Riad e Teheran che dal fronte siriano si allarghi al Golfo Persico in un conflitto totale tra sciti e sunniti che avrebbe conseguenze devastanti per l’intera regione.

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Le truppe saudite inoltre, a dispetto di spese militari faraoniche e dei moderni mezzi a disposizione, non hanno mai offerto grandi prove di valore ed efficacia sul campo di battaglia, come è emerso recentemente nella guerra in Yemen.

A metà aprile il presidente francese Emmanuel Macron ha rivelato di aver convinto Donald Trump a “mantenere a lungo termine” le truppe in Siria (dove sono schierate anche forze speciali di Parigi) ma il portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders ha replicato che “il Presidente è stato chiaro affermando che vuole un ritorno a casa delle forze americane in Siria”.

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Per gli europei, francesi e britannici in testa, restare militarmente in Siria senza la deterrenza espressa dalla presenza statunitense significa esporsi a rovesci militari umilianti e a perdite difficilmente giustificabili alle rispettive opinioni pubbliche.

A Washington il Congresso si interroga su quale sia la reale strategia di Trump in Siria con ampi settori del Partito Repubblicano contrari a “regalare la Siria ad Assad, Putin e all’Iran” come ha detto il senatore Lindsey Graham.

La situazione resta quindi molto fluida tenuto conto che la volontà di ritiro espressa da Trump può contribuire ad alimentare le accuse di voler favorire le ambizioni di Mosca anche sul fronte siriano e quel Russiagate che costituisce una vera e propria “spada d Damocle” sulla testa del presidente.

Foto: CBS, Reuters e AFP

 

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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