Trump mostra i muscoli in Siria
da Il Mattino/Il Messaggero dell’11 aprile
Per ora è solo guerra di parole tra gli Stati Uniti con gli alleati anglo-francesi e il governo di spalleggiato da Russia e Iran ma l’escalation della crisi generata dalla determinazione di americani ed europei a dare credito alle accuse rivolte dai ribelli jihadisti a Bashar Assad di aver usato armi chimiche contro i civili a Douma potrebbe portare presto a raid “punitivi”.
Donald Trump ha parlato di azioni militari da decidere entro 48 ore (ormai scadute) e il suo ambasciatore alle Nazioni Unite, Nikky Haley, ha aggiunto che gli Stati Uniti “risponderanno” senza tenere in considerazione se il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite deciderà di agire o meno.
Anche la Francia sta coordinandosi con Washington per partecipare ai raid sulla Siria mentre pressioni vengono esercitate sul governo britannico affinchè si unisca alle operazioni belliche riconfigurando la stessa alleanza che nel 2013 era pronta ad attaccare Damasco dopo le accuse ad Assad di aver impiegato gas nervino contro i civili a Ghouta.
All’epoca l’attacco venne scongiurato da Mosca, che mediò ottenendo la consegna all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche di tutti gli arsenali di gas siriani ma questa volta la Russia, schierata con ingenti forze militari in Siria, potrebbe venire coinvolta nei combattimenti.
Sul piano militare entrambi gli schieramenti stanno posizionandosi. Gli Usa e i franco-britannici schierano aerei nelle basi nel Golfo e navi nel Mediterraneo. La Siria ha posto in allarme le sue difesa aerea coordinata da consiglieri militari russi che hanno ammodernato radar, contromisure elettroniche e missili antiaerei.
In allarme anche le forze russe, che schierano a Latakya decine di velivoli, batterie di missili antiaerei a lungo raggio S-400 e diversi sistemi per la guerra elettronica in grado di disturbare in un raggio di centinaia di chilometri la guida di droni e missili e accecare i radar avversari, inclusi quelli di navi e aerei.
Strumenti probabilmente già impiegati un anno fa per deviare una parte dei missili da crociera lanciati da due cacciatorpediniere della Marina statunitense contro la base aerea di Shayarat anche in quel caso per “punire” un attacco chimico attribuito ai jet di Assad nella zona di Idlib. Secondo fonti militari russe, dei 59 missili lanciati dalle due navi americane solo 23 hanno colpito il bersaglio.
Dati impossibili da verificare ma le stesse contromisure elettroniche russe potrebbero aver neutralizzato una parte dei missili israeliani lanciati dai jet F-15 contro l’aeroporto siriano T-4, nei pressi di Palmyra: sempre secondo i fonti militari russe, non smentite, degli 8 missili lanciati solo 3 hanno colpito l’obiettivo.
L’efficacia dell’ombrello difensivo missilistico ed elettronico costituito in Siria dalle forze di Mosca sembra confermato dall’abbattimento, il 10 febbraio scorso, di un caccia israeliano colpito dai missili di Damasco mentre rientrava da un’incursione sulla Siria.
Inoltre il raid di domenica ha visto gli F-15 israeliani colpire la base siriana con missili lanciati dall’interno dello spazio aereo libanese, senza quindi esporre i jet al fuoco difensivo siriano.
Beirut ha protestato per la violazione del suo spazio aereo e Teheran ha annunciato che l’attacco (in cui morirono 7 militari di Teheran) non resterà impunito ma a Washington come a Gerusalemme sembra maturata la convinzione che condurre raid su vasta scala contro la Siria comporterebbe un elevato rischio di perdite e contro-rappresaglie che potrebbero colpire Israele o i 2mila militari americani schierati in Siria con le forze curde.
Non a caso Israele ha schierato ieri lungo il confine siriano del Golan batterie del sistema Iron Dome in grado di intercettare razzi e persino proiettili d’artiglieria con cui e forze di Damasco potrebbero cercare di colpire lo Stato ebraico.
Proprio il rischio di subire perdite sembra costituire la carta migliore per scongiurare un massiccio intervento statunitense. In due anni e mezzo di operazioni in Siria i russi hanno perso circa 200 uomini tra militari e contractors mentre i turchi hanno registrato almeno 50 caduti in un mese di battaglia contro i curdi ad Afrin.
Ben difficilmente americani ed europei potrebbero sopportare perdite anche più limitate, specie dopo che Trump ha annunciato ripetutamente la volontà di ritirare le truppe americane dalla Siria, osteggiata dal Pentagono.
Probabile quindi che un’eventuale risposta militare occidentale contro Assad sarà limitata all’uso di armi guidate a lungo raggio, cioè missili da crociera lanciati da aerei o più facilmente da navi che si manterranno a distanza di sicurezza dalla Siria.
Il cacciatorpediniere americano Donald Cook è posizionato nelle acque tra Cipro e la Siria con a bordo 90 missili da crociera Tomahawk mentre i jet statunitensi sono basati in Giordania, Kuwait e Qatar.
Anche gli anglo-francesi potrebbero colpire con missili da crociera imbarcati su navi o sottomarini Scalp Naval e Tomahawk o con gli Scalp/Storm Shadow in dotazione ai Rafale francesi basati nel Golfo e ai Tornado britannici schierati a Cipro.
Gli obiettivi dipenderanno dall’intensità che si vorrà attribuire all’attacco. Nel mirino potrebbero finire basi aeree, postazioni di missili e radar antiaerei, centri di comando e caserme (scelti prioritariamente nell’area di Damasco) ma anche esponenti di spicco del regime di Assad e delle sue forze armate. Se invece Trump opterà per un’azione “simbolica” i raid potrebbero essere concentrati su un solo bersaglio.
L’attuale crisi militare indicherà se le potenze Occidentali intendono realmente dare il via a un conflitto che coinvolgerebbe anche i russi oppure se si limiteranno a “fare ammuina”, come accadde un anno or sono in occasione dell’attacco missilistico a Shayrat. In quella circostanza gli statunitensi allertarono Mosca dell’attacco imminente per dare loro il tempo di evacuare il personale russo dalla base aerea sulla quale vennero distrutti o danneggiati 9 vecchi aerei Su-22 e Mig 23 delle forze siriane, in parte già inservibili.
Foto AP, Stars and Strips, EMA, TASS, US Navy e AFP
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.