Aquarius e porti chiusi: qualche considerazione operativa

Ci abbiamo messo sei anni. Ci siamo fatti raggiungere da centinaia di migliaia di immigrati, soprattutto africani, sui quali è pressoché impossibile un controllo efficace. Abbiamo lasciato che alcune zone del nostro paese fossero ridotte a campi profughi nei quali la legge della repubblica fatica ad entrare.

Ci siamo abituati a scene di degrado degne del terzo mondo nei salotti delle nostre città. Abbiamo creduto alle parole delle anime belle che ci dicevano che l’invasione è ineluttabile e addirittura auspicabile.

Abbiamo alzato le mani, umiliati, di fronte alla protervia dei paesi europei che si sono rifiutati di spartire con noi l’onere di un flusso migratorio che loro stessi avevano innescato con le loro improvvide iniziative militari.

Ci siamo rassegnati a considerare i diritti di chi raggiungeva le nostre coste analoghi se non superiori a quelli dei nostri connazionali, anche di quelli che colpiti da un terribile terremoto lasciamo da anni in condizioni di precarietà e indigenza assoluta.

Abbiamo assistito con impotenza e sgomento a fatti di cronaca incredibili, protagonisti i nostri “ospiti”, in nome di un’accoglienza che tale non è: si tratta infatti semplicemente di resa.

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Poi, improvvisamente, ci siamo svegliati. O meglio, si è svegliato un governo che definire incredibile è dir poco, vista l’eterogeneità dei suoi componenti, ma che a fronte di alcune nostre sfide nazionali sta dando prove di determinazione imprevedibili. Consolatorie.

Fatto sta che per la prima volta da anni e dopo innumerevoli annunci rifiutiamo, per bocca del nuovo Ministro dell’Interno, l’attracco ad un nostro porto da parte di una delle tante navi ONG che da anni si occupano di traghettare in Italia coloro che partono dalla costa libica.

Come andrà a finire ancora non si sa, anche se pare che la faccia feroce di Salvini abbia convinto la Spagna – quella che protegge le enclaves spagnole in Marocco di Ceuta e Melilla con  altissime recinzioni e con un presidio armato a prova di “migrante” – a consentire l’attracco a Valencia; pare che anche la Corsica, non si sa se a nome della stessa Francia che blocca i migranti a Ventimiglia, si sia fatta avanti, mentre Malta, l’isola che respinge sistematicamente e da anni tutti i clandestini, ci accusa di infrangere le leggi internazionali.

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Ma un risultato pare comunque conseguito: non è più scontato l’approdo in Italia da parte di tutti gli enti volontaristici che auspicano una società italiana multirazziale in tempi brevi e che in tale progetto hanno evidentemente investito fior di risorse.

E sarà difficile convincere l’opinione pubblica italiana della bontà di un passo indietro, che ci faccia tornare ad essere un approdo per tutti.

Se le cose continueranno ad andare così, ne trarranno le conseguenze prima di tutto gli scafisti che da anni si erano abituati ad una vita facile e senza rischi eccessivi per sè stessi. La presenza di un’attivissima flottiglia di ONG convenuta da tutta Europa sotto le coste libiche, infatti, non gli richiedeva più le problematiche traversate fino a Lampedusa per portare a destinazione il loro carico di povera gente, col rischio di perdere imbarcazione e libertà se intercettati dalla Guardia Costiera; ma dovremmo trarne le conseguenze anche noi per prepararci a quello che potrà seguire.

Non parlo di drammi come quello che nell’ottobre del 2013 vide la morte di poco meno di 400 esseri umani a poche centinaia di metri da Lampedusa e che potrebbero mettere alla prova anche la più stolida delle determinazioni alla fermezza; ragion per cui, speriamo di no, forse più d’uno sta gufando.

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Faccio invece riferimento ad un possibile cambiamento operativo che porterebbe all’abbandono da parte dei trafficanti dei semplici gommoni ora sufficienti per fare le poche miglia dalle coste libiche alle navi delle ONG, per tornare all’impiego dei barconi, pilotati da scafisti veri e propri che così dovrebbero rischiare la galera, per coprire tutta la tratta per la costa italiana più vicina: Lampedusa.

L’isola, infatti, di fronte ad una conferma della chiusura dei nostri porti alle ONG tornerebbe a rappresentare la meta principale di imbarcazioni che autonomamente farebbero rotta verso di lei con partenza dalla Tripolitania, affrontando però una traversata di circa 180 Miglia tutt’altro che agevoli. Ora, invece, l’isola è di fatto cortocircuitata da un flusso che viene intercettato all’origine e dirottato in Sicilia direttamente.

Insomma, per arrivare in Italia, senza rischiare di vedersi sbarcati da qualche altra parte, magari in Libia stessa se si riuscirà ad ottenere da Al Serraj o Haftar un permesso in tal senso, l’unica opzione possibile tornerà ad essere quella lampedusana, per la quale però le risorse in mano ai trafficanti saranno sempre più rade e preziose.

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Gli scafisti, infatti, dovrebbero impiegare parte del naviglio da pesca dei porti di Zwara e Sabratha, destinato però col tempo ad assottigliarsi a causa dei sequestri che sarebbero più facili e penalizzanti da parte delle navi militari europee di EUNAVFORMED nel Canale di Sicilia.

Queste, una volta ripiegate più a ridosso delle acque territoriali italiane e a distanza da quelle libiche, potrebbero infatti tornare con maggiore efficacia al loro compito iniziale, la lotta ai trafficanti di esseri umani, vista la scarsa economicità dell’impiego delle Marine da Guerra per sequestrare qualche gommone.

Ovviamente, resterebbe il problema della gestione di coloro che riusciranno a raggiungere Lampedusa, e che le leggi del mare e soprattutto quelle morali non consentono di “lasciare a mollo”, semplicemente, in attesa che se ne tornino indietro. Ma si tratterebbe di quantità certamente inferiori, dovute a difficoltà che scoraggerebbero molti dal tentativo, da avviare nella penisola o da reindirizzare al punto di partenza solo successivamente e a ragion veduta.

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Un problema a parte è quello riferito al flusso che ha visto picchi imprevedibili negli ultimi mesi dalla Tunisia, per il quale il passaggio da Lampedusa non è necessario, vista la vicinanza alla costa siciliana e a quella sarda.

Ma in questo caso, l’esistenza di un interlocutore credibile come il governo di Tunisi dovrebbe consentire il raggiungimento di un accordo col quale interrompere o comunque portare a livelli accettabili il fenomeno. La determinazione evidenziata dal nostro nuovo Esecutivo in merito farebbe ben sperare.

A parte queste facili considerazioni di carattere pratico, certamente non più ciniche del comportamento degli altri paesi europei di fronte al problema e alle nostre annose difficoltà, c’è un aspetto di carattere culturale interno alla nostra società da affrontare: quello della determinazione di una strategia che coinvolga tutte le nostre realtà politiche e sociali.

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Se, ad esempio, al “pugno di ferro” del Governo continuerà a corrispondere una specie di “chiamata” ai migranti, come quella operata da talune componenti sociali che non nascondono di considerare la migrazione illegale una risorsa anziché un problema, sarà difficile stabilire strategie di largo respiro che sopravvivano all’Esecutivo di turno; a qualsiasi Esecutivo di turno, anche se ormai è certo, persino ai più convinti sostenitori della bontà della scelta immigrazionista degli ultimi governi, che l’opinione pubblica nazionale è di tutt’altro parere.

Da segnalare, in tale contesto, l’affermazione di Emma Bonino stessa che ha rivendicato il supporto fornitole da decenni da Soros, lo stesso che con la Fondazione “Open Society” si rende protagonista da tempo di una critica serrata di molti tentativi adottati per interrompere o almeno contenere il fenomeno migratorio, senza aver avuto alcun mandato in tal senso dai nostri governi. Credo e spero.

Non c’è dubbio, infatti, che se un politico di alto “lignaggio” che è stato addirittura Ministro degli Esteri della Repubblica può ammettere di essere stata supportata da un’organizzazione privata che come quella in questione rifugge a qualsiasi ragione e controllo di Stato, del nostro Stato, il problema sussiste. E non è di poco conto.

Foto: Marina Militare, AP, Lapresse, SOS Mediterranèe ed EPA

 

Marco BertoliniVedi tutti gli articoli

Generale di corpo d'armata, attualmente Presidente dell'Associazione Nazionale Paracadutisti d'Italia, è stato alla testa del Comando Operativo di Vertice Interforze e in precedenza del Comando Interforze per le Operazioni delle Forze Speciali, della Brigata Paracadutisti Folgore e del 9° reggimento incursori Col Moschin. Ha ricoperto numerosi incarichi in molti teatri operativi tra i quali Libano, Somalia, Balcani e Afghanistan.

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