Le portaerei britanniche classe Queen Elizabeth

Per quanto non sia così raro che importanti programmi di “procurement” siano oggetto tanto di grandi difficoltà quanto di feroci critiche, ciò che è accaduto rispetto alle nuove portaerei della classe Queen Elizabeth rappresenta, per certi versi, un caso a parte.

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Il combinato disposto delle (ambiziose) esigenze della Royal Navy, delle varie difficoltà tecnico-costruttive, di scelte non esattamente “smart” della politica e, infine, dei sempre presenti (nonché stringenti) vincoli finanziari hanno infatti prodotto una situazione particolare. Una situazione all’interno della quale, accanto agli indubbi punti di forza di queste nuove piattaforme, non si può fare a meno di prescindere dalle notevoli difficoltà che hanno attraversato le fasi di gestazione e realizzazione.

Insomma, uno sforzo sicuramente di rilevanti proporzioni (anche per la stessa industria britannica), portatore di grandi promesse dal punto di vista delle capacità operative (che riguarderanno in primo luogo la stessa Royal Navy, con importanti riflessi sull’intero strumento militare di Sua Maestà) ma che, in egual misura, ha finito anche con il presentare incertezze e passaggi a vuoto tali da influire sul giudizio complessivo nei suoi confronti.

 

La storia del programma

Quello che potremmo definire come il vero e proprio atto di nascita di queste portaerei è, a tutti gli effetti, rappresentato dalla «Strategic Defence Review» del 1998; avviata l’anno precedente dal neo-eletto Governo Laburista guidato da Blair, tale documento dedicò una particolare attenzione non solo alle nuove piattaforme ma anche a quello che sarebbe diventato il loro principale strumento operativo e cioè il nuovo aereo imbarcato.

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Tutto prendeva le mosse dalla necessità di sostituire le unità della classe Invincible ma, ed è questo l’elemento che fa la differenza, a cambiare in maniera profonda sono i requisiti operativi.

Mentre infatti queste ultime erano state concepite in primo luogo come unità portaelicotteri per specifici compiti nel campo dell’ASW (Anti-Submarine Warfare), e solo in una fase progettuale successiva adattate per far operare un numero ridotto di velivoli STOVL (Short Take-Off Vertical Landing) Sea Harrier, le nuove piattaforme sarebbero state delle portaerei d’attacco; capaci cioè di ospitare un numero consistente di velivoli, assicurandone al contempo il relativo supporto operativo e logistico.

Dunque, con il superamento di tutti limiti insiti nella formula delle Invincible; primo fra tutti quello dimensionale. A fronte delle oltre 20.000 tonnellate di dislocamento a pieno carico di quest’ultime, per le Future Aircraft Carriers (CVF) già si parlava di 30.000/40.000 tonnellate. Sennonché, visto che poi veniva indicato un ulteriore requisito inteso come capacità di imbarcare fino a 50 velivoli tra aerei ed elicotteri (contro i 22/24 delle prime), era parso chiaro a tutti gli osservatori che rispetto quella “forchetta” di dislocamento ci si sarebbe orientati verso la sua parte alta.

 

Le origini

Come detto, fin da subito viene posta una grande enfasi su 2 aspetti particolari, la capacità di proiettare potenza attraverso un «offensive air power» garantito dal reparto di volo imbarcato e, dall’altra, sul fatto che tale “potere aereo” avrebbe dovuto poter essere proiettato ovunque ve ne fosse stato bisogno.

In questo senso, la SDR recepiva i mutamenti del contesto strategico internazionale e registrava l’eventualità di non poter disporre di infrastrutture a terra in grado di ospitare e supportare velivoli. Dunque, le caratteristiche intrinseche di proiettabilità garantite da una piattaforma navale come la portaerei, rappresentavano (e rappresentano ancora oggi!) la migliore risposta a simili requisiti operativi.

Il progetto

Parallelamente alle considerazioni svolte per le CVF, prendeva corpo anche il progetto relativo al Future Carrier Borne Aircraft (FCBA); il velivolo cioè destinato a succedere agli Harrier.

Da notare che proprio la SDR del 1998 sancì la nascita dell’allora Joint Force 2000, destinata a cambiare poi nome in Joint Force Harrier; in pratica, un reparto interforze che avrebbe preso in carico i velivoli in dotazione sia alla Royal Navy (RN), sia alla Royal Air Force (RAF). Proprio la sua nascita, portò alla rivisitazione del requisito originale; dalla sola sostituzione dei velivoli in carico alla RN, il programma FCBA finì con il coinvolgere anche quelli in carico alla RAF, tanto che essere rapidamente ridenominato Joint Combat Aircraft (JCA).

Definito il quadro di massima all’interno del quale si sarebbero sviluppati tali concetti, da un punto di vista contrattuale il programma ha un suo avvio ufficiale il 25 gennaio 1999; in quella data, il Ministero della Difesa del Regno Unito invitò 6 diversi consorzi a competere per la «assessment phase» del progetto, una prima fase dedicata alla valutazione delle diverse proposte. A partecipare sono tutti i “big” dell’epoca (sia Europei che Americani), ciascuno dei quali a capo di consorzi composti da più aziende: British Aerospace, Marconi Electronic Systems, Thomson CSF, Boeing, Lockheed Martin e Raytheon.

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Il primo passaggio veramente importante si compie poi il 23 novembre dello stesso anno; il Ministry of Defence (MoD) annuncia infatti la scelta dei 2 consorzi destinati a proseguire nel lavoro di definizione e progettazione delle nuove portaerei.

A prevalere sono i team guidati da British Aerospace e Thomson CSF, che si spartiscono un contratto del valore di circa 30 milioni di sterline destinato a una fase di «design assessment» (di carattere più generale, destinata a valutare anche le scelte sul velivolo) e una più specifica di «risk reduction on preferred carrier design», concentrata sulle caratteristiche della piattaforma stessa.

E’ da notare, a margine, come proprio queste aziende europee saranno poi oggetto di diversi cambi di nome conseguenti a riorganizzazioni/accorpamenti/acquisti. In particolare, appena pochi giorni dopo l’annuncio dell’MoD, Marconi Electronic Systems sarà acquisita da British Aerospace per formare l’attuale BAE Systems; circa un anno dopo, si completerà invece la trasformazione di Thomson CSF in Thales Group. La scelta fu quella di non separare mai le valutazioni sull’aereo da adottare da quelle sulla piattaforma che lo avrebbe ospitato e fatto operare.

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Non a caso, è proprio la selezione del Joint Strike Fighter (JSF, cioè l’F-35 Lightning II) quale nuovo JCA a imprimere la svolta. Nello specifico, la scelta cade sulla versione B dello stesso velivolo americano; ne consegue che la configurazione adottata dalle nuove CVF sarebbe stata STVOL (Short Take-Off Vertical Landing).

Con un punto però ben specificato; quando infatti il 30 settembre 2002 arriva l’annuncio ufficiale da parte del MoD sulla scelta dell’F-35, subito si specifica che le future CVF sarebbero state comunque progettate fin dall’inizio per poter ricevere in un momento successivo eventuali catapulte e cavi d’arresto.

Alla luce della vita utile prevista, intorno ai 50 anni, una possibile conversione CATOBAR (Conventional Take-Off But Arrested Recovery) veniva vista come una risposta a possibili evoluzioni future. Del resto, proprio in quegli anni cominciavano a prendere forma negli Stati Uniti progetti come quelli relativi all’EMALS (ElectroMAgnetic Launching System) e AAG (Advanced Arresting Gear); laddove, soprattutto le grandi potenzialità del primo e cioè il sistema di lancio non legato alla presenza di catapulte a vapore, venivano tenute in grande considerazione.

Ancora pochi mesi, ed ecco giungere l’annuncio ufficiale della scelta della piattaforma; è il 30 gennaio del 2003 quando l’allora Defence Secretary Geoff Hoon comunica che a vincere la competizione è stato il progetto presentato da Thales Group, anche se il ruolo di “prime contractor” sarebbe stato affidato a BAE Systems.

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Lo stesso gruppo francese sarebbe diventato comunque un fornitore chiave dell’intero programma, entrando quindi a far parte della Aircraft Carrier Alliance (ACA), cioè quel soggetto formatosi proprio nel 2003 e destinato a coordinare gli sforzi a livello industriale nonché le relazioni con il committente.

Infatti, nella sua configurazione iniziale, l’ACA comprendeva oltre a BAE Systems e a Thales (attraverso il proprio “braccio operativo” nel Regno Unito) anche lo stesso MoD. Nel corso del 2005 vi entrarono a far parte anche altri partner industriali; Babcock e VT Group. A seguito però della successiva dismissione delle proprie attività (alla stessa BAE Systems, soprattutto, e Babcock), qualche tempo dopo si registrò l’uscita della VT Group e la successiva stabilizzazione della stessa ACA nella sua attuale configurazione, con i già citati 3 gruppi industriali e il Ministero della Difesa britannico.

È inoltre da ricordare come sempre nel 2005, in questa compagine fece la sua comparsa anche la Kellog, Brown & Root (KBR) nel ruolo di «phisycal integrator». La scelta però della KBR non è mai stata particolarmente gradita dagli altri partner, tanto che un paio di anni dopo sarà esclusa da ogni ruolo.

 

Ritardi e problemi

Nel frattempo però, il programma comincia ad accumulare qualche ritardo; nel 2004 è sempre l’MoD ad annunciare lo slittamento di un anno nell’assegnazione dei contratti per la fase successiva. Da risolvere sono sia questioni tecniche, sia economiche.

Si deve attendere così il dicembre dell’anno successivo per l’avvio di una nuova «assessment phase» della piattaforma, relativa questa volta a una puntuale progettazione di dettaglio; un altro passaggio importante è dunque compiuto.

Tra l’altro, è proprio in questo frangente che si materializzerà in maniera concreta l’interesse da parte Francese per il programma e per i suoi possibili risvolti sulla PA2 (Porte Avions 2), cioè la seconda portaerei da affiancare alla Charles de Gaulle. Tra la fine del 2005 e l’inizio del 2006, la sensazione diffusa è che ci si trovi di fronte a un momento favorevole; Francia e Regno Unito si accordano infatti sulla partecipazione della prima alla «assessment phase». Facendo perno su di un lavoro di progettazione in comune, Parigi intendeva derivare una unità per le proprie esigenze, soprattutto nell’ottica di un suo adattamento in configurazione CATOBAR.

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Allo scopo, era prevista anche una partecipazione finanziaria pari a un terzo dei costi sostenuti in questa fase. La collaborazione però non ebbe una vita particolarmente lunga, visto che nel giugno del 2008 fu proprio l’Eliseo ad annunciare la sospensione della cooperazione con Londra; una sospensione che, di fatto, ha significato la fine di questa esperienza.

Da qui in poi, i vari passaggi si succedono con regolarità; nell’aprile del 2006 si registra l’assegnazione di una serie di contratti alle aziende allora coinvolte nell’ACA per ulteriori attività di progettazione. È tuttavia il luglio del 2007 a segnare un altro passo fondamentale, con il MoD che annuncia l’approvazione del cosiddetto «Main Gate» e cioè quel preciso momento che segna il superamento della fase di «Assessment» e l’ingresso in quella di «Demonstration and Manifacture».

Si dovrà però attendere ancora un anno per registrare il più importante degli annunci; è il 3 di luglio del 2008 quando lo stesso Ministero della Difesa annuncia in Parlamento la firma di una serie di contratti per l’avvio delle attività di costruzione di entrambe le unità. Un annuncio che, peraltro, arriva immediatamente dopo il consolidamento delle attività di VT Group in BAE Systems, andando a formare quella BVT Surface Fleet che poi diventerà interamente di proprietà della stessa BAE.

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Sul (delicato) fronte dei costi, a quel momento l’importo complessivo per l’intero programma era stimato in 4,085 miliardi di sterline mentre l’ingresso in servizio della prima delle 2 portaerei, ora diventate la classe Queen Elizabeth (composta dall’unità eponima e dalla Prince of Wales), era fissato a luglio 2015. Insomma, il programma stesso sembrava avviato verso una fase di maggiore (sia pure relativa) tranquillità. Sennonché, di lì a breve le cose cominceranno invece ad andare maniera un po’ diversa…

Già nel dicembre dello stesso 2008 giunge infatti comunicazione che le attività di costruzione sarebbero state rallentate; gli effetti della crisi economica si facevano sentire sempre di più e, d’altra parte, si manifestava la volontà di combinare l’ingresso in servizio delle nuove unità con quelle degli aerei destinati a operare su di essi; si ricorda infatti che lo stesso programma relativo agli F-35 stava già cominciando ad accumulare ritardi significativi. In pratica si puntava a differire le date originariamente previste di circa un anno. Come sempre accade però, certe scelte non sono a “somma zero”; questo ritardo e le prime revisioni sul fronte dei costi avevano già fatto salire a oltre 5 miliardi di sterline l’impatto finanziario del programma. E si era ancora ai primi del 2010.

 

LA SDSR del 2010

Anno, quest’ultimo, che si rivelerà piuttosto “complicato”; quando il 19 ottobre il Governo Britannico annuncia infatti i risultati della nuova «Strategic Defence and Security Review», la sorpresa è davvero grande. Sono 2 le decisioni che riguardano le CVF; una più importante dell’altra.

La prima rappresentata dalla conferma che le entrambe le portaerei saranno completate ma, solo la seconda delle 2 sarebbe entrata sicuramente in servizio con la Royal Navy. Il destino della prima era invece destinato a rimanere avvolto dall’incertezza. Da un lato si ipotizzava di porla in una condizione di “extended readiness”, in pratica destinata a diventare operativa solo nel momento in cui l’altra non fosse stata disponibile. D’altra parte, non veniva neppure escluso di porla addirittura in vendita; comunque, una decisione finale era rimandata alla successiva SDSR del 2015.

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L’altra decisione di enorme rilievo, comunque collegata alla prima, era rappresentata dal cambio di configurazione: da STOVL a CATOBAR, con conseguente imbarco di catapulte (ovviamente, EMALS) e cavi d’arresto. Una scelta giustificata con la decisione di adottare non più l’F-35 nella sua versione B ma in quella C; tale cambio di direzione si spiegava con le superiori caratteristiche, soprattutto in termini di autonomia, del secondo rispetto al primo e con una maggiore interoperabilità futura con le portaerei della US Navy.

Scelte a dir poco “cervellotiche”, con non pochi elementi di ambiguità; si pensi al fatto che alla fine solo l’unità destinata a entrare in servizio (la Prince of Wales) sarebbe stata sicuramente convertita in CATOBAR. Questo avrebbe, di fatto, esclusa l’altra (cioè la Queen Elizabeth) da ogni possibilità di essere poi impiegata in caso di necessità; fatta salva una teorica possibilità di un successivo “retrofit”. Ancor meno credibili le previsioni circa il fatto che una simile conversione avrebbe comportato un aumento dei costi “gestibile”.

 

Dietro front

Ma il 10 maggio del 2012 quando l’allora Segretario di Stato alla Difesa Hammond annuncia di fronte alla House of Commons un dietro-front completo: tutte e 2 le portaerei sarebbero state (probabilmente) completate come previsto ed entrambe in configurazione STOVL. Il tutto per effetto del ritorno alla versione B dell’F-35.

La spiegazione di quanto annunciato è molto semplice; la prevista conversione di una sola unità sarebbe costata qualcosa come (almeno) 2 miliardi di sterline, a fronte dei 950 milioni inizialmente previsti. Il ricorso all’EMALS si dimostra infatti una sfida tecnologica ed economica impossibile; anche per i tempi, visto che adesso la piena operativa della portaerei dotata di “cat and traps” sarebbe stata raggiunta, come minimo, nel 2023. Per un Paese che aveva appena deciso con la SDSR del 2010 di smantellare la Joint Force Harrier vendendone tutti i velivoli, e quindi di ritirare dal servizio le ultime 2 portaerei in servizio, rimanere così a lungo senza una “carrier-strike capability” era davvero eccessivo.

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Insomma, un disastro completo. Ovviamente, non poteva mancare l’elemento d’incertezza; con la decisione finale su entrambe le unità da immettere in servizio, o meno, rimandata (ancora una volta) alla SDSR del 2015.

Questo lungo intervallo di oltre un anno e mezzo, oltre a far perdere altro tempo prezioso finisce anche col comportare un ulteriore aumento dei costi.

Tanto che nel novembre del 2013 è lo stesso Segretario Hammond a informare il Parlamento che la nuova stima, aggiornata e basata su un’analisi più rigorosa anche rispetto ai passaggi futuri, conduce a un importo complessivo di 6,2 miliardi di sterline.

A mettere quindi fine a questa intricata “vicenda” provvedono poi 2 nuovi passaggi; dapprima, nel settembre 2104 in occasione del vertice NATO in Galles, l’annuncio ufficiale del Primo Ministro David Cameron in base al quale entrambe le unità in costruzione sarebbero entrate in servizio. Successivamente, è la SDSR del 2015 a sancire “nero su bianco” il tutto, specificando che la Prince of Wales sarebbe stata oggetto di alcuni interventi al fine di incrementarne le capacità nell’ambito di operazioni anfibie. L’obiettivo di fondo era comunque quello di poter conservare la capacità di poter disporre sempre di almeno una portaerei. Insomma, la lunga “saga” gestazionale di queste nuove piattaforme si era conclusa!

 

Gli aspetti industriali e costruttivi

Tratteggiate a grandi linee le tappe fondamentali del programma, è arrivato il momento di affrontare i non meno interessanti aspetti legati alla compagine di industrie che (oltre a quelle facenti parte della ACA) svolgono comunque un qualche ruolo. Anzi, in alcuni casi, svolgevano.

Questo perché, il notevole arco di tempo all’interno del quale si sta sviluppando questo stesso programma (il lavoro di progettazione, di fatto, era infatti iniziato già nel 1999) ha finito con il produrre non pochi cambiamenti.

Comunque sia, accanto alle aziende già citate e a quelle che ricoprono il ruolo di fornitori (approfonditi in seguito), si ricorda che le fasi di progettazione/industrializzazione hanno visto coinvolte diverse aziende: BMT Defence Services (progettazione), Lockheed Martin (gestione del programma), EDS Engineering (valutazione/gestione del supporto logistico) e QinetiQ (attività di simulazione, prove e valutazione).

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Alla fine, il programma per la realizzazione di queste navi impegna, nel complesso, circa una novantina di aziende diverse e 10.000 persone; 7.000 delle quali direttamente impegnate nella costruzione delle 2 piattaforme.

Esso fa inoltre leva, da una parte su tecniche comunque collaudate sia nelle attività di progettazione (ricorso alla tecnologia CAD/CAM), sia in quelle costruttive (riproponendo quella a blocchi, già impiegata per i cacciatorpediniere Type 45); dall’altra, su novità assolute (con il riferimento alle recenti «Rules and Regulations for the Classification of Naval Ships» dei Lloyd’s).

Tuttavia, il dato più importante è e rimane quello legato al fatto che le 2 portaerei in questione sono le più grandi navi da guerra mai costruite nel Regno Unito; talmente importante da condizionare ogni scelta in campo costruttivo.

Fin da subito si comprende infatti che nessun cantiere Britannico sarebbe stato in grado di realizzare da solo e in unico sito le navi per intero; la conseguente necessità di impegnare quindi più cantieri nella costruzione viene così vista come un modo per allargare quanto più possibile la base industriale. Da ciò ne derivano delle modalità di realizzazione a dir poco particolari.

Facendo per l’appunto ricorso alle più moderne tecniche di costruzione a blocchi, questi ultimi sono per l’appunto realizzati (contemporaneamente) in più siti produttivi, per essere poi inviati in un ultimo cantiere dove si svolge l’assemblaggio finale.

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Così, alla fine, sono ben 7 i cantieri coinvolti nella costruzione. Nel dettaglio poi, per realizzare le Queen Elizabeth sono necessari 52 blocchi; anche se quelli di maggiori dimensioni e importanza sono di meno: i Lower Blocks (LB) 01÷05 che formano lo scafo, i Centre Blocks (CB) 02÷06 sostanzialmente corrispondenti alla zona hangar e ponte di volo, le 2 isole anteriore e posteriore identificate come UB 07 e UB 14 e, infine, gli Sponson (SP) che vanno dallo 01 al 12.

Al netto di alcune differenze registrate tra gli schemi produttivi adottati per le 2 unità, alla fine quello adottato è il seguente:

  • BAE Systems Maritime – Naval Ships è impegnata con i propri cantieri di Portsmouth nonché le 2 strutture sul fiume Clyde e cioè Scotstoun e Govan. Qui sono stati realizzati gli LB dallo 02 allo 05 e le 2 isole, contribuendo inoltre alla costruzione di un CB;
  • Cammel Laird, a Birkenhead, responsabile per la consegna del CB02 (in collaborazione con BAE);
  • A&P Tyne, presso Tyne and Wera, incaricata della costruzione del CB03,

e, infine,

  • Babcock Marine che nelle proprie strutture di Appledore e Rosyth realizza l’LB01, oltre ai CB05 e 06 nonché tutti gli Sponson.

Dato ancora più importante, nello stesso cantiere di Rosyth avviene inoltre l’importante fase dell’assemblaggio finale di entrambe le unità. A tale scopo, esso è stato oggetto di una serie d’interventi di adeguamento, il più evidente (e caratteristico) dei quali è rappresentato dall’installazione della gru da 1.000 tonnellate nota come “Goliath”, che si è rivelata fondamentale per molte delle operazioni d’assemblaggio dei blocchi più piccoli; laddove per quelli più importanti si è proceduto tramite accoppiamenti avvenuti in bacino. Il tutto cadenzato da 3 differenti fasi («Assembly Cicle A, B e C»), che hanno comportato, oltre all’assemblaggio dei blocchi principali e di altre strutture (come lo “ski-jump”), anche l’imbarco/installazione delle componenti dell’impianto propulsivo nonché dei sensori.

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Per quanto riguarda le tappe fondamentali della costruzione, il primo taglio di lamiera per la Queen Elizabeth (distintivo di fiancata, R08) si è svolto il 7 luglio del 2009, con i primi blocchi completi (di ogni parte: dalle cabine dell’equipaggio ai diversi sistemi di bordo) che sono cominciati ad arrivare a Rosyth nell’agosto del 2011. Il varo, anche se tecnicamente si dovrebbe parlare di allagamento del bacino e conseguente galleggiamento dell’unità attraverso un’operazione di “floating out”, è avvenuto il 17 luglio del 2014; pochi giorni dopo la cerimonia ufficiale di battesimo, avvenuta in presenza della Regina Elisabetta stessa. La nave, infine è stata consegnata alla Royal Navy il 16 agosto del 2017, in coincidenza del suo arrivo presso la base navale di Portsmouth. Il vero e proprio ingresso in servizio è avvenuto il 7 dicembre scorso.

Per quanto riguarda l’unità gemella, la Prince of Wales (R09), il taglio di lamiera per il primo blocco si è avuto il 26 maggio del 2011; i blocchi hanno poi iniziato ad affluire a Rosyth nei primi giorni di settembre del 2014. Il varo o “floating out” è avvenuto il 21 dicembre scorso; con un certo anticipo rispetto a quelle che erano le previsioni iniziali. Nel frattempo, il 4 settembre del 2017 si era tenuta la cosiddetta «naming cerimony». Più sfumate le tappe successive, con un inizio delle prime prove in mare fissato per metà del 2019 e un ingresso in servizio nei primi mesi dell’anno successivo.

 

La piattaforma

Come già accennato in precedenza, quello delle dimensioni imponenti di queste 2 portaerei è il tratto maggiormente distintivo. Una considerazione molto meno banale di quanto si potrebbe pensare perché, ovviamente, proprio quello dimensionale è un aspetto determinante per le capacità di una piattaforma del genere.

Nel dettaglio, le Queen Elizabeth presentano una lunghezza di 280 metri e una larghezza massima dello scafo pari a 39 metri, laddove però quella riferita al ponte di volo raggiunge il valore di ben 70 metri. Infine, per quanto riguarda il dato relativo al pescaggio si segnala un dato pari a 11 metri.

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Ne risulta un dislocamento a pieno carico che, ufficialmente, viene indicato in circa 65.000 tonnellate; è tuttavia opinione diffusa che esso abbia già superato le 70.000 tonnellate o che, comunque, lo raggiungerà al conseguimento dell’operatività. Considerando inoltre il fatto che la componente aerea imbarcata (secondo la configurazione prescelta) potrà raggiungere una notevole consistenza e considerando il “naturale” aumento di dislocamento nel corso della vita utile dell’unità, giungono già indicazioni circa la possibilità che questo possa raggiungere e superare le 75.000 tonnellate.

Resta comunque un dato: queste portaerei sono grandi 3 volte le precedenti unità della classe Invincible. Una differenza enorme, che si riflette non solo sul numero/tipo di velivoli che saranno imbarcati quanto, piuttosto, sulle capacità complessive che un tale “pacchetto” (nave più, per l’appunto, velivoli) sarà in grado di offrire.

In termini di configurazione generale sono 2 gli aspetti più evidenti: la superficie del ponte di volo (a dir poco importante!) e la doppia isola.

Per ciò che riguarda il primo aspetto, sarà sufficiente ricordare un solo dato: circa 13.000 m², che si traducono nella presenza di 20 «slots» per il parcheggio di velivoli diversi e di un massimo di 10 «spot» di atterraggio per elicotteri medi. Oltre, ovviamente, a una “pista di decollo” lunga 167 metri, comprensivi di uno ski-jump lungo una sessantina di metri e con un’inclinazione di 13°. Ancora una volta, il confronto con le precedenti unità della Royal Navy si fa persino impietoso, alla luce delle maggiori possibilità offerte da aree così ampie.

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Prima di affrontare il tema delle 2 isole, può essere utile proseguire nella descrizione di altre caratteristiche salienti a livello di piattaforma. A cominciare dall’hangar che, con i suoi circa 4.730 m² (155 metri di lunghezza x 33,5 di larghezza massima) costituisce un altro valore aggiunto in virtù del fatto che garantisce una capacità di ricovero per un numero consistente di aeromobili: fino a 24 F-35B o una combinazione di questi e altri elicotteri. Ciò anche in virtù di altezze (fino a 10 metri) tali da consentire lo svolgimento delle varie attività di manutenzione.

Hangar e ponte di volo sono collegati poi da 2 ascensori MacTaggart Scott che grazie alle proprie dimensioni (24 x 15 m) permettono di movimentare insieme 2 F-35B in appena 60 secondi fra i 2 ponti.

A proposito di ponti, sotto quello di volo se ne trovano altri 9; laddove l’hangar situato in posizione centrale ne occupa 2 in altezza. Nella zona prodiera si trovano così le cabine per l’equipaggio, con gli annessi locali ricreativi.

A tale proposito, è da sottolineare come gli standard “abitativi” sulle Queen Elizabeth siano particolarmente elevati; le cabine presenti a bordo sono 470 e, al massimo, esse ospitano 6 persone. Inoltre, sono numerosi i locali che contribuiscono a migliorare gli standard abitativi: dalla palestra al cinema, passando per le 4 cucine e le altrettante sale mensa (per i Comuni, i Sottufficiali e gli Ufficiali).

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Il totale dei posti-letto disponibili è così pari a 1.600; nel dettaglio, 680 circa fanno parte del personale della nave in quanto tale e 920 sono destinati al “Air Group” imbarcato; rispetto a questo dato, è da tenere tuttavia presente che vista la flessibilità dei reparti di volo imbarcabili, nonché delle varie configurazioni implementabili, questo secondo numero può essere modificato secondo le necessità.

E questo è esattamente il caso di una delle configurazioni possibili, quella cioè per le quali è previsto l’imbarco di un contingente dei Royal Marine Commandos per una cosiddetta Embarked Military Force (EMF) di 250 uomini, ai quali aggiungere altri 650 uomini circa per un reparto di volo che nel caso specifico sarebbe interamente composto da elicotteri (da trasporto, da attacco e da ricognizione). Le annotazioni sul fronte dell’equipaggio si concludono ricordando che le cabine e i locali dedicati a Sottufficiali e Ufficiali si trovano nella zona poppiera.

Tra tutti i ponti, il numero 5 è quello al cui interno sono incluse 3 fra le aree più importanti di tutta la nave; qui trovano infatti posto la “Operations Room” (la sala operativa della nave), le attrezzature ospedaliere composta da una sala operatoria, un gabinetto dentistico e un reparto di degenza con 8/12 posti nonché, infine, lo «HQ1 and Ship-control centre» e cioè la zona dedicata alla gestione della piattaforma.

Un’analisi più puntuale la merita sicuramente poi lo ”IEP system” (Integrated Electric Propulsion system). Occorre subito dire che la Royal Navy è tra le Marine che più di altre sta puntando su questo tipo di sistemi integrati di propulsione e generazione dell’energia elettrica. Prova ne sia che anche i cacciatorpediniere Type 45 adottino uno schema simile. Nel caso delle Queen Elizabeth si introducono ulteriori elementi distintivi; questo anche per le caratteristiche specifiche di una portaerei.

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Nel dettaglio, la configurazione scelta per queste navi prevede 2 turbo-alternatori su turbine a gas Rolls Royce MT-30 da 36 MegaWatt, 2 diesel-alternatori su motori Wärtsilä 16V38 da 11,6 MW e, infine, altrettanti diesel-alternatori sempre della Wärtsilä ma questa volta del tipo 12V38 da 8,7; a questi si aggiunge un generatore di emergenza del tipo 12V200, ancora della Wärtsilä, da 2 MW. Ne risulta che la potenza massima installata sia pari a quasi 110 MW, 70 dei quali provenienti dai 2 turbo-alternatori e quasi 40 dai diesel-alternatori (per la precisione: 39,2). Una potenza che viene così inviata sia ai 4 motori elettrici di propulsione AIM (Advanced Induction Motor) da 20 MW ciascuno della GE Power Conversion, sia a un sistema di distribuzione a basso voltaggio che fornisce energia elettrica a tutta la nave.

Prima di continuare ad approfondire il tema con ulteriori particolarità, un rapido cenno alle prestazioni delle piattaforme: la velocità massima è ufficiosamente indicata in 26,5 nodi, anche se in realtà nel corso delle prime prove (avvalendosi dei dati provenienti dall’AIS, Automatic Identification System) sono stati raggiunti valori superiori ai 29 nodi.

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Per quanto riguarda l’autonomia, evidenziato il dato relativo alle 6.200 tonnellate di carburante imbarcate, le indicazioni sempre ufficiali la fissano in circa 10.000 miglia alla velocità di crociera di 15 nodi; forse troppo ottimistico, tanto che altre stime restituiscono un valore di circa 8.000 miglia.

Sempre in tema di autonomia, questa volta nell’accezione anglosassone di “endurance”, il termine di riferimento è di un massimo di 45 giorni; valore riferito a condizioni di normale operatività della piattaforma laddove, nel momento in cui entra in gioco la linea di volo, le esigenze in termini di rifornimento del carburante e/o di munizionamento possono richiedere intervalli molto più brevi.

Per continuare nella descrizione dello ”IEP system”, occorre però tornare al già citato elemento della doppia isola; argomento su cui ci sarà modo di tornare in seguito per analizzare le ragioni che hanno portato a questa scelta. Una di queste, però, deve essere affrontata subito, proprio con specifico riferimento al sistema in questione. Con la configurazione adottata infatti, è stato possibile separare fisicamente i locali che ospitano i turbo- e i diesel-alternatori; in pratica, è venuto a mancare il vincolo di convogliare tutte le condotte di gas di scarico in un’unica struttura.

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Da ciò ne consegue che immediatamente sotto l’isola di prua è ricavato un locale che ospita una delle 2 MT-30 con relativo alternatore; più in basso, all’altezza del penultimo ponte (il n° 8), il locale motore prodiero che ospita i 2 diesel-alternatori 12V38. Lo stesso schema si ripropone in corrispondenza dell’isola poppiera, che vede ricavati al proprio interno gli spazi per le condotte di scarico della seconda MT-30 e del locale motore poppiero con i propri 16V38.

Ribadita l’ovvietà in base alla quale i pesanti motori diesel con i relativi apparati sono ospitati in basso (al contrario delle ben più leggere TAG), è altrettanto evidente che una simile scelta comporta degli innegabili vantaggi in termini di sicurezza/sopravvivenza; in caso di incidenti o colpi a bordo, tale separazione fisica costituisce un innegabile vantaggio, minimizzando i rischi di eventi catastrofici. Soluzione che, peraltro si ripete anche sul fronte dei 4 motori elettrici; sebbene operino in tandem su ciascun dei 2 assi, essi sono fisicamente posizionati in 3 locali diversi.

A livello industriale, rispetto al sistema IEP ma non solo, deve essere sottolineato il ruolo svolto soprattutto da 2 aziende leader nel loro settore; Rolls Royce e GE Power Conversion.

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La prima, oltre a fornire le MT-30, ha anche realizzato componenti importanti: l’impianto di timoneria, le 2 linee d’assi, le 2 eliche a passo fisso nonché le 2 coppie di pinne stabilizzatrici (retrattili). Inoltre, si è occupata del sistema di distribuzione dell’energia elettrica, in questo caso in collaborazione con la stessa GE Power Conversion la quale, inoltre, ha realizzato tutta la parte legata agli alternatori (installati sia sulle TAG, sia sui diesel) nonché i 4 motori elettrici.

Un sistema e, più in generale, una piattaforma così complessi non possono poi prescindere dalla presenza di un Integrated Platform Management System (IPMS). Sulle Queen Elizabeth, l’IPMS è fornito da un altro leader nel proprio campo, la L-3 Technologies ed ha il compito di assicurare diverse funzioni attraverso altrettanti sottosistemi dedicati alla gestione dell’IEP stesso così come al controllo/sorveglianza dei locali ospitanti i vari macchinari (anche in funzione della gestione di eventuali guasti e/o danni).

 

La “doppia isola”

Dopo averne così a lungo parlato ma solo a grandi linee, è giunto il momento di affrontare più nel dettaglio la scelta costruttiva della doppia isola.

Prima di tutto occorre ricordare come queste 2 strutture siano concepite per svolgere ruoli diversi; quella prodiera è destinata a ospitare i locali preposti al controllo/governo della nave mentre quella poppiera (non a caso denominata anche isola “FlyCo”, cioè Flying Control) è per l’appunto demandata al controllo delle operazioni di volo.

Una soluzione originale che però risulta ben ragionata in quanto garantisce diversi vantaggi; rispetto alla configurazione con una sola isola, essa assicura un minore ingombro complessivo (questo grazie alla maggiore flessibilità originata da condotte di scarico dei motori meno “invasive”), una riduzione della turbolenza sul ponte di volo, un più razionale utilizzo della superficie di quest’ultimo nonché, in fase di costruzione una maggiore semplicità/rapidità nella loro realizzazione.

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Nonostante dunque la separazione fisica che si viene a creare tra l’”Officer on the Watch” (l’Ufficiale al comando della nave in un dato momento) e il responsabile delle operazioni di volo, il maggior campo visivo offerto garantisce inoltre una maggiore sicurezza in tutte le operazioni.

Scendendo ancora più nel dettaglio, il “cuore” della struttura di prua è rappresentato dal «Navigation Bridge» (o ponte di navigazione); da qui si assicurano le fondamentali operazioni di governo e controllo della nave, potendo contare sui sistemi più sofisticati quali (ad esempio) l’Integrated Bridge Navigation System (INBS)/Electronic Chart Display Integrated System (ECIDS) della Northrop Grumman Sperry Marine. Tra le particolarità di questa isola, la presenza (appena sotto il Navigation Bridge) di locali destinati a ospitare un Ammiraglio nella funzione di Comandante di un “Carrier Group”.

Ancora più “spinte” le specifiche novità introdotte nella FlyCo. In posizione ottimale per garantire la massima assistenza ai velivoli in fase di atterraggio (ma non solo), quest’isola si caratterizza per le enormi finestrature che consentono una visuale di 290°; laddove questo aspetto costituisce anche un valido aiuto per tutte le operazioni sul ponte di volo, spesso complesse nonché pericolose per il personale presente sul ponte stesso (anche con riferimento alle fasi di movimentazione/parcheggio dei velivoli).

Avvalendosi sia di sistemi di comunicazione vocali che visivi sotto forma di pannelli a led installati sull’isola stessa, l’Air Controller svolge dunque tutte le funzioni sopra descritte e, al tempo stesso, interagisce con la sala di controllo dell’hangar per la predisposizione dei velivoli prima che siano portati sul ponte di volo. Sempre nell’ottica di assicurare la massima ridondanza/sicurezza possibile, in questa isola è inoltre presente una sorta di replica del “Navigation Bridge”, utilizzabile in caso di messa fuori uso di quello principale.

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Come era del tutto ovvio nonché naturale che fosse per piattaforme dei nostri tempi, le Queen Elizabeth sono poi (a tutti gli effetti) delle vere e proprie “fully networked ship”, cioè navi all’interno delle quali ogni singolo sistema risulta interconnesso.

Nel caso specifico di queste unità, il “cervello” è rappresentato dall’Integrated Mission System, cioè un sistema che a sua volta integra (attraverso una rete a fibra ottica e, novità di rilevo, connessioni “wireless”) tutti gli altri sistemi divisi in 3 grandi aree funzionali; i cosiddetti “real-time systems”, gli “ship’s communication systems” e gli “ship’s information systems”.

Perno di quelli appartenenti alla prima area è il Combat Management System (CMS), laddove su queste portaerei la scelta è caduta (inevitabilmente) su una versione dedicata del prodotto di punta della BAE Systems e cioè il CMS-1. Attraverso di esso sono svolte funzioni vitali come la gestione dei sensori, quella dei sistemi d’arma nonché un importante ausilio in termini di decisioni da prendere.

Ma l’importante flusso di informazioni/dati elaborati e a loro volta restituiti dal CMS non potrebbe essere adeguatamente sfruttato senza la presenza di interfacce che lo collegano ad altri sistemi fondamentali per la conoscenza, in tempo reale, della situazione complessiva della piattaforma; oltre infatti a quelli già citati (come l’IPMS e l’IBNS), un ruolo fondamentale è svolto anche dal Visual Surveillance System (VSS).

Si tratta di un sistema TV a circuito chiuso dotato di 220 telecamere che monitorano costantemente gli spazi interni e quelli esterni della nave, con particolare riferimento a quelli più sensibili; anch’esso contribuisce a incrementare il livello di consapevolezza della situazione nonché di sicurezza, soprattutto in funzione di contrasto degli incedi a bordo o di contributo alla gestione di incidenti quali falle o guasti importanti.

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Di fatto, quindi, i “real-time systems” consentono di avere tutte informazioni necessarie e costantemente aggiornate: dalla propria posizione a quella delle forze amiche e nemiche, dalle condizioni meteorologiche alle scelte in fatto di navigazione, dallo stato della piattaforma a quello delle armi e dei sistemi di difesa, il tutto passando dal controllo del traffico aereo (dei propri velivoli e non). Tutto ciò significa una continua valutazione delle eventuali minacce, la definizione delle migliori risposte in caso di attacco e, in estrema sintesi, tutto ciò che riguarda la condotta, la sicurezza nonché il mantenimento in efficienza della piattaforma.

Al centro della seconda area troviamo il Fully Integrated Communication System (FICS) realizzato da Thales; grazie a esso sono garantite tutte le comunicazioni (in voce, video o altro) sia verso l’esterno, sia all’interno della nave stessa. Una suite articolata, che dispone di apparati su più frequenze e che, soprattutto quando si deve occupare dell’essenziale funzione di scambio dei dati si avvale della presenza di sistemi Link 11, 22 e 16, oltre che di sistemi satellitari.

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In questo senso, e in funzione dell’ampia gamma di potenziali missioni affidabili alle Queen Elizabeth, fin dall’inizio è stata prevista la realizzazione di una Generic Command Facility (GCF), cioè un’area dedicata allo svolgimento di eventuali funzioni di comando (di gruppi navali più complessi, di operazioni anfibie, di missioni specifiche) è in grado di ospitare uno staff che può raggiungere le 74 persone.

La terza area infine, è fisicamente costituita dalla infrastruttura che collega sensori, apparati di comunicazione, e tutto ciò che consente alle Queen Elizabeth di condurre la propria missione come portaerei o, eventualmente, portaelicotteri; nell’ambito comunque di quel concetto operativo che risponde al nome di “Carrier-Enabled Power Projection” (CEPP) e sul quale ci sarà modo di tornare più avanti. Questo significa essere collegati alla rete interna del Ministero della Difesa britannico (la Defense Information Infrastructure, DII) ma anche, se non soprattutto, di gestire la ”Air Group Management Application”.

Una specifica applicazione che non solo fornisce informazioni nonché indicazioni sui movimenti dei velivoli stessi tra l’hangar e il ponte di volo; di più, essa risulta costantemente aggiornata sul livello di prontezza operativa/disponibilità degli aeromobili stessi così come dei loro piloti e, infine, sul numero/tipo di relativo munizionamento presente a bordo.

Ecco allora che diventa più chiaro lo scopo degli “ship’s information systems”: conseguire la capacità di pianificare e condurre le varie attività operative, non solo della nave in quanto tale quanto piuttosto considerata nel suo insieme con il gruppo di volo imbarcato/gruppo navale assegnato, rispetto alle diverse missioni previste.

 

Armi e sensori

Nella (doverosamente) articolata disamina dei sistemi di vario tipo, non poteva certo mancare la sezione dedicata ai sensori e alle armi installate; una dotazione, specie per quanto riguarda i primi, di tutto rispetto. Sulle Queen Elizabeth è infatti installato un potente Long Range Radar (LRR) 3D del tipo S1850 (prodotto da BAE Systems e Thales) per la ricerca e il tracciamento di bersagli aerei a grandi distanze; mentre questo sensore è posizionato sulla sommità dell’isola prodiera, su quella poppiera è invece installato un Medium Range Radar (MRR) 3D Type 997 ARTISAN (Advanced Radar Target Indication Situational Awareness and Navigation), prodotto a sua volta dalla BAE Systems è impiegato per la ricerca di bersagli aerei/di superficie nonché per compiti di controllo del traffico aereo. Restando nel campo dei radar, si segnalano anche i 2 Sperry Marine Vision Master FT (impiegati principalmente per la navigazione), oltre all’apparato AN/SPN-41 Instrument Carrier Landing System (ICLS) di origine americana e impiegato come ausilio per le operazioni di atterraggio dei velivoli.

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Nel campo dei settori elettro-ottici (Electro-Optical System, EOS), sono 2 gli apparati della Ultra Electronics (Series 2500) installatati, uno per ciascuna isola; impiegati per la sorveglianza passiva e per il controllo del tiro, l’EOS posto sulla FLYCO aggiunge anche specifiche funzioni di monitoraggio dei velivoli in fase di atterraggio.

In ossequio alla linea di pensiero che vede piattaforme così “pregiate” difese più dai velivoli imbarcati e dalle unità di scorta che non dai sistemi presenti a bordo, anche le Queen Elizabeth non possono certo dirsi “pesantemente armate”; al contrario. Su queste navi saranno infatti installate (non in fase di costruzione ma solo in un momento successivo) 3 impianti CIWS (Close-In Weapons Systems) Phalanx 1B, per la difesa di punto contro missili antinave (o bersagli volanti a bassa velocità) e piccole unità di superficie; a questi si aggiungeranno 4 torrette remotizzate DS30M Mk.2 con cannone da 30 mm. (ancora per il contrasto di piccole imbarcazioni), oltre a un numero imprecisato di “minigun” Mk.44 da 7,62 mm.

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Anche se la questione non è ancora del tutto chiarita, ci potrebbe essere spazio anche per l’installazione di 8 lanciatori a 6 canne ciascuno del sistema di lancio per “decoys” Outfit DLH della BAE Systems; un sistema che impiega diversi tipi di inganni (Mk.151 Siren attivi, Mk.214 “seduction chaff”, Mk.216 “distraction chaff” nonché Mk. 245 Infra-Rosso) per il contrasto dei missili antinave. È da aggiungere che, al momento, non vi sono ulteriori indicazioni nemmeno sulla presenza di analoghi inganni per la difesa nei confronti dei siluri; così come, non è trapelato nulla neanche sull’installazione di suite EW (Electronic Warfare).

A questo proposito, è da rilevare come non siano mancate le voci critiche rispetto a una dotazione di sistemi di difesa che appare modesta. Perché se da una parte è vero che la difesa della “piattaforma” in quanto tale deve tenere conto anche degli F-35B imbarcati e delle unità di scorta, altrettanto vero è che la presenza di diversi sistemi di difesa avrebbe comunque potuto garantire una difesa “multistrato” più efficace.

E ciò in considerazione di altri 2 fattori, la proliferazione di minacce (cioè di missili antinave) sempre più letali e la possibilità che una di queste piattaforme possa operare in determinati contesti priva dei propri F-35B.

 

I reparti di volo

Da ultimo, non certo per scarsa importanza quanto per la necessità di dargli il giusto risalto, l’argomento legato alla componente aerea imbarcata. Un ragionamento che non può non partire dal concetto operativo posto alla base di queste portaerei: il Carrier-Enabled Power Projection (CEPP).

Secondo la stessa definizione ufficiale (“liberamente” tradotta e condensata): una capacità interforze (e interoperabile con la NATO) che consente la proiezione di potenza sia in funzione di attacco, definita «Carrier Strike», sia di supporto alle operazioni anfibie, cioè «Littoral Manoeuvre». Non solo, la CEPP è concepita anche in funzione “duale”, in situazioni dunque di «Humanitarian Assistance», o anche come strumento di diplomazia, indicato come «Defence Diplomacy».

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Da questo breve ma significativo passaggio si evince già il tratto caratteristico di queste navi, concepite fin dall’origine non come “semplici” portaerei ma come piattaforme dalla grande flessibilità operativa.

E per spiegare meglio questo concetto, saranno sufficienti alcuni numeri.

In configurazione «Carrier Strike», in condizioni normali il Tailored Air Group (TAG) sarà composto da 12 F-35B e fino a 9 Merlin HM2 in configurazione ASW (Anti-Submarine Warfare) più altri 5 elicotteri HM2 dotati però del kit che, nell’ambito del programma Crowsnest, li trasformerà in piattaforme per l’Airborne Early Warning (AEW). Si tratta di uno schema di massima, rispetto al quale sono già possibili delle modifiche; ad esempio il parziale dispiegamento della forza (definita «Maritime Force Protection Package») di 14 Merlin complessivi nelle versioni descritte e una loro integrazione con altri Merlin ma in versione HC4 (cioè configurati per compiti “utility”).

In caso di necessità tuttavia, la configurazione in esame può facilmente vedere raddoppiato il numero degli F-35B presenti a bordo. I Lightning II imbarcati passano così a 24, ai quali si aggiunge il «Maritime Force Protection Package» su 14 Merlin. Proprio questa è la configurazione «Strike» tipica, quella cioè che sarebbe predisposta in caso di operazioni reali.

Qualora tuttavia le circostanze lo richiedessero, le stesse Queen Elizabeth possono essere portate allo standard «Full Strike»; in questo caso, il numero massimo di F-35B può arrivare a 36 mentre quello dei Merlin scende fino a non più di 4, da ripartire eventualmente per le missioni ASW e AEW.

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A questo punto, è possibile che qualche lettore sia attraversato da un dubbio sul rapporto tra le dimensioni dell’unità e la consistenza del gruppo aereo; soprattutto rispetto a quel numero di (soli) 12 F-35 B.

A questo proposito corre l’obbligo di precisare come tale scelta risponda principalmente a considerazioni di carattere economico; una sorta di compromesso tra un numero di velivoli comunque adeguato per le attività “normali” (utile dunque a mantenere l’operatività e il personale addestrato) ma, al tempo stesso, non troppo numeroso per non incidere eccessivamente sui costi.

Ma, soprattutto, è un altro il fattore da tenere ben presente; ancora prima che il numero dei velivoli imbarcabili, a fare la differenza è la capacità di generare un elevato numero di sortite aeree. Un aspetto questo che è sempre stato ben presente nella Royal Navy, fino a farlo diventare uno dei requisiti essenziali.

Nel caso specifico, le Queen Elizabeth sono in grado di generare un “surge” di 108 sortite nell’arco del primo giorno di operazioni, al quale farne seguire 72 per i successivi 10 giorni; un ritmo decisamente sostenuto; comunque rimodulabile secondo le esigenze. A tal proposito basta ricordare che i 3 milioni di litri di carburante avio imbarcato consentono mediamente circa 400 voli per i Lightining II o 900 per i Merlin.

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In definitiva, almeno 5 giorni di operazioni intense prima che si manifesti l’esigenza di effettuare un rifornimento e a tal proposito le nuove rifornitrici di squadra della classe Tide sono state acquisite tenendo conto dei requisiti operativi delle Queen Elizabeth.

Non sono noti i dati circa il munizionamento stoccato a bordo ma appare logico ipotizzare che anch’esso sia in linea con i numeri già visti a proposito del rateo di sortite aree esprimibili; e comunque, ancora rispetto al tema del rifornimento, sempre le Tide offrono adeguate capacità di rifornimento.

Nel frattempo, si segnala un’importante innovazione introdotta sulle Queen Elizabeth, l’installazione dell’Highly Mechanized Weapons Handling Systems (HMWHS); prodotto dalla Babcock, questo sistema altamente automatizzato consente lo spostamento del munizionamento tra i diversi livelli e nelle diverse direzioni attraverso una serie di carrelli (56 in totale) e ascensori (4 in tutto) che non richiedono la presenza dell’uomo. Quest’ultimo interviene così solo in poche fasi ed ha principalmente il compito di gestire il sistema stesso in remoto.

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Sempre rispetto alle esigenze della linea di volo imbarcata, particolare cura è stata scelta nella configurazione dell’hangar che può essere suddiviso in 3 zone separate da paratie tagliafuoco e che dispone di ampi spazi (anche in altezza) dedicati alle attività di manutenzione/riparazione. A prua dell’hangar stesso sono poi sistemate le officine e locali tecnici mentre a poppa c’è il complesso di uffici/sale briefing e locali per il supporto del reparto aereo imbarcato.

Il tema dei velivoli STOVL, e quello dell’F-35B, in particolare comporta poi la necessità di risolvere 2 questioni delicate. La prima riguarda in generale tutti quei velivoli ad ala fissa che adottano la tecnica dell’atterraggio verticale; questa comporta infatti diversi svantaggi, primo fra tutti l’impossibilità di effettuarla con carichi elevati di carburante e, soprattutto, munizionamento.

Per ovviare a questo problema, proprio la Royal Navy sta sviluppando una tecnica particolare, definita Shipborne Rolling Vertical Landing (SRVL). In termini molto semplici, si tratta di una specie di combinazione tra l’atterraggio verticale e quello tradizionale; sfruttando le doti di vettoriamento della spinta, il velivolo atterra comunque (quasi) in verticale ma a una velocità tale da consentire alle ali di generare ancora portanza e quindi effettuare un breve rullaggio.

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Tra l’altro, l’SRVL consente anche di rispondere parzialmente al secondo problema, il calore generato dai gas di scarico del reattore che vanno a investire il ponte di volo; fenomeno che, nel caso del Lightining II, si presenta particolarmente marcato visto che le temperature sviluppate sono nell’ordine dei 1.500 °C.

La principale soluzione per farvi fronte, ovviamente già adottata, consiste così nello spruzzare (se non “sparare”) una speciale pittura metallica composta di alluminio e titanio.

Una volta solidificato questo rivestimento raggiunge uno spessore di 2-2,5 mm che si lega in maniera permanente al ponte di volo, consentendo così di resistere a temperature elevate. Occorre peraltro dire che solo una piccola porzione del ponte di volo stesso risulta coperta da questo particolare rivestimento, noto anche come Thermal Metal Spray (TMS); nel dettaglio, circa 2.000 m².

 

Le (ridotte) capacità anfibie

Non meno interessante poi si presenta la configurazione «Littoral Manoeuvre» o «LitM», concepita per operazioni di elisbarco per una EMF di 250 uomini dei Royal Marine Commandos (in una tipica configurazione composta da una “Close Combat Company, una “Stand Off Company”, più elementi del “Landing Force HQ”). In questo caso, un pacchetto di velivoli tipico sarebbe costituito da 12 Merlin HC4 della Royal Navy ai quali si aggiungono 3 Chinook HC.5/6 della Royal Force; a questi velivoli sarebbero dunque affidati compiti “utility”.

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I compiti invece di attacco e ricognizione armata verrebbero affidati a un contingente del British Army’s Air Corps, composto da 8 elicotteri d’attacco Apache AH1 e da 6 Wildcat AH1; con questi ultimi che possono essere forniti anche da quella Commando Helicopter Force (CHF) della Royal Navy, che allinea anche i Merlin HC4. In una versione più “robusta” poi, fonti ufficiali sostengono che potrebbe esserci il margine di imbarcare un numero maggiore di elicotteri, per un numero finale di circa 40 velivoli.

E a dimostrazione di come questo concetto del «Littoral Manoeuvre» sia tutto fuorché di ripiego, la scelta di dimensionare l’hangar per accogliere i Chinook senza la necessità di dover intervenire sui rotori; gli stessi Chinook che, allo stesso tempo, possono essere movimentati liberamente dagli ascensori. Le stesse considerazioni valgono inoltre per il convertiplano V-22 Opsrey del quale, in un’ottica di interoperabilità con gli Stati Uniti, si sono comunque tenute conto sia caratteristiche che dimensioni. Di più, proprio in funzione dell’implementazione di questa capacità anfibia è stato deciso l’aumento degli spot di atterraggio/decollo per elicotteri a 10, partendo dai 6 originariamente previsti.

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In questo caso diventa tutto fuorché difficile immaginare quali possano essere le potenzialità delle Queen Elizabeth in ambito «Humanitarian Assistance»; la capacità di generazione di energia elettrica nonché di acqua potabile, le attrezzature medico/ospedaliere, gli ampi spazi a bordo e un consistente pacchetto di elicotteri “utility” sono tutti elementi di grande importanza.

Così come, in prospettiva appare chiaro che uno delle possibili direttrici di sviluppo di nuove capacità potrebbe essere rappresentata dall’introduzione in servizio di Unmanned Air System UAS. Il tema per ora è stato posto in maniera molto vaga, giusto quel basta per evidenziare come i margini per integrare simili sistemi su queste piattaforme ci siano tutti. Allo stesso tempo però, è da rilevare come a oggi non si sia andati oltre a simili (e generiche) dichiarazioni.

La descrizione delle principali caratteristiche si conclude con la rassegna delle imbarcazioni di servizio presenti a bordo delle Queen Elizabeth; un argomento solo all’apparenza poco rilevante. Nello specifico, si tratta di 3 Personnel Transfer Boat (PTB) della Alnmaritec (tutte posizionate in apposite baie poste sul lato sinistro) e 2 RIB Almatic del tipo Pacific 24 (1 per ciascun lato); con le prime che, in prospettiva, saranno rimpiazzate dalle nuove imbarcazioni della classe SEA, oggetto di un recente contratto con Atlas Elektronik UK.

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Perché dunque è importante menzionare anche questo aspetto? Perché esso pareva potesse legarsi a un altro tema che a oggi non riesce ancora a essere approfondito in maniera esauriente. Come si ricorderà, nella SDSR dl 2015 era stato stabilito che almeno una delle 2 nuove portaerei avrebbe ricevuto delle modifiche al fine di garantire maggiori capacità nel ruolo di supporto delle operazioni anfibie.

La scelta era, inevitabilmente, caduta sulla Prince of Wales per effetto di uno stato di avanzamento tale da consentire in maniera più agevole le eventuali modifiche. Nel corso del tempo poi, anche per effetto di ulteriori decisioni sulla propria consistenza futura, la Royal Navy sembra essersi orientata a implementare gli stessi interventi anche sulla Queen Elizabeth; sia pure in una fase successiva. Sennonché, di queste modifiche alla fine non si sa molto.

Tra le ipotesi avanzate, l’aumento da 250 a 750 gli uomini della EMF, interventi sulla zona poppiera per renderla compatibile con le operazioni di mezzi da sbarco e/o Mexifloat e, infine, sfruttare proprio lo spazio delle Personnel Transfer Boat per imbarcare degli LCVP Mk.5 (Landing Craft Vehicle and Personnel). Alla fine, in realtà pare che ci si limiterà a una razionalizzazione degli spazi (ivi compresi quelli destinati allo stoccaggio dei materiali) destinati alla stessa EMF; rimarranno dunque intatti tutti i limiti di queste piattaforme a svolgere compiti in operazione anfibie più “classiche”.

 

Conclusioni

Per concludere l’analisi di questa nuova classe di portaerei per la Royal Navy, occorre tornare in qualche modo al punto di partenza; cioè le tante difficoltà che tale programma ha già incontrato lungo il proprio percorso. Partire da qui, infatti, ma solo per aggiungere varie altre considerazioni che illustrano i rischi che dovranno essere ancora affrontati: rispetto al raggiungimento delle piene capacità operative nonché sul fronte dei costi nel loro insieme.

Insomma, per le sue dimensioni il programma relativo alle 2 Queen Elizabeth è destinato (nel bene e nel male) a condizionare pesantemente il futuro della Royal Navy.

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Procedendo con ordine, il primo tema da affrontare è quello dell’operatività; una questione a dir poco complessa. Da mettere nel conto, infatti, ci sono diversi fattori. È infatti del tutto evidente che il tutto non posso essere limitato a un ragionamento che si limiti alla piattaforma: una portaerei non può certo essere considerata in maniera separata rispetto ai velivoli che dovrà imbarcare e far operare.

In questa ottica, il 2020 sarà un primo anno potenzialmente di svolta; oltre infatti all’ingresso in servizio della Prince of Wales entro marzo, intorno a dicembre la Queen Elizabeth dovrebbe conseguire la IOC (Initial Operating Capability) nella configurazione «Carrier Strike».

E questo dopo che il 2018 e il 2019 saranno impiegati per avviare le prime operazioni con gli F-35B a bordo, nonché dopo aver affinato quelle con il “Maritime Force Protection Package” incentrato sugli elicotteri Merlin. È quindi del tutto evidente il ruolo rivestito dai velivoli imbarcati: Lightning II in primo luogo ma anche il Merlin HM2 con pod Crowsnest.

Nel frattempo, per la fine dello stesso 2018 sarà conseguita la IOC in configurazione LPH; ciò anche a seguito di sperimentazioni effettuate con diversi Chinook e Merlin, oltre a quelle con elementi del 42 Commando dei Royal Marines. Inoltre, tra le attività sperimentali già effettuate c’è anche quella di rifornimento in mare UNREP (Underway Replenishment) con la rifornitrice RFA Tidespring.

Lo “step” successivo di grande importanza è previsto nel 2023. Nei primi mesi dell’anno dovrebbe essere conseguita la FOC (Full Operating Capabilty) per la configurazione «Carrier Strike» per entrambe le unità; a quel punto, anche l’intero pacchetto di capacità previste dal concetto CEPP sarà prossimo al raggiungimento della piena capacità operativa.

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Come si evince da questa programmazione, in pratica la Royal Navy non disporrà di una minima capacità operativa con velivoli ad ala fissa fino alla fine del 2020; più probabilmente, fino ai primi mesi dell’anno successivo. Ù

Solo a quel momento la Queen Elizabeth dovrebbe essere in grado di schierare un gruppo di volo su 12 F-35B. Ugualmente, solo 2 anni più tardi dovrebbero essere disponibili un numero sufficiente di velivoli cosiddetti “frontline” (cioè i 24 effettivamente operativi/disponibili) per equipaggiare al completo una delle 2 portaerei con una completa capacità «Carrier Strike» su 24 aerei o, in alternativa, con il solito gruppo di volo di 12 Lightining II per entrambe le portaerei. Anche perché, già nel 2021, pure la funzione AEW dei Merlin dotati di Crowsnest sarà stata ormai implementata con il conseguimento della loro FOC.

A pesare su questo lungo percorso sono anche le vicissitudini di quello che una volta era noto come Joint Strike Fighter. E per capire meglio i termini della questione, è sufficiente introdurre un altro crono-programma; quello relativo proprio a questo velivolo.

Il primo dei 2 Squadron (appositamente ricostituiti) che andranno a comporre quella che sarà la configurazione iniziale della Lightining Force sarà il 617° Squadron “The Dumbsters” della RAF, il quale sta gradualmente vedendo affluire i propri velivoli sulla base di Marham.

 

È da rilevare che, quasi contemporaneamente, la Queen Elizabeth è salpata verso gli Stati Uniti per condurre un ciclo di prove (Westlant 18) nel corso del quale avranno anche inizio le prime (e “storiche”) operazioni di volo con gli F-35B. Al 617° Squadron, ma solo a partire dal 2019, si aggiungerà il 207° Squadron sempre della RAF, designato come OCU (Operation Conversion Unit) per la conversione operativa dei piloti.

Infine, ma si dovrà attendere il 2021, l’altro reparto della Lightining Force comincerà a prendere forma; l’809° Naval Air Squadron “Immortals” della Royal Navy assumerà in carico i primi velivoli (anch’esso presso la base di Marham).

Sullo sfondo, la prevista creazione di altri 2 Squadron operativi (uno ciascuno per la RAF e la Royal Navy) nell’ambito della stessa “Lightining Force”, per un totale di altri 48 velivoli; un passaggio che, però, si presenta con tempi decisamente lunghi (e incerti) poiché si parla del dopo-2030. Intanto, i primi 4 velivoli sono giunti a Marham il 6 giungo scorso provenienti dagli Stati Uniti.

Ma la “questione F-35” non è solo legata ad aspetti/problemi tecnici di questo cacciabombardiere o ai suoi ritardi; è anche, ancora una volta, una questione di costi.

Le ultime indicazioni ufficiali indicano in (esattamente) 6,212 miliardi di sterline il costo complessivo delle 2 unità; senza tener conto che l’Aircraft Carrier Alliance sostiene ancora che quello finale sarà ancora leggermente superiore (appena l’1 o il 2% in più), laddove comunque il Ministero della Difesa ritiene di non doversene fare carico.

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Poi c’è il capitolo F-35B, il cui impatto economico non è facilmente stimabile; a oggi il Ministero della Difesa è impegnato formalmente nell’acquisito dei 48 velivoli della “Lightining Force” (su un totale di 138 previsti), rispetto ai quali ha approvato fondi per 9,1 miliardi di sterline; laddove però in questa somma, oltre a quelli di acquisito, sono previsti anche i costi di sviluppo, quelli legati all’ammodernamento/preparazione delle basi e delle infrastrutture, il supporto logistico iniziale e anche costi amministrativi di varia natura. Sull’acquisto dell’F-35 è stata varata una commissione d’’inchiesta parlamentare che ha redatto il rapporto “Unclear for take-off? F-35 procurement” ben poco ottimistico.

Se è vero che i prezzi dei velivoli stanno gradualmente scendendo, d’altra parte è anche vero che la svalutazione della Sterlina sta provocando dei problemi sul fronte del “procurement” in caso di acquisiti di materie in valuta estera; con potenziali problemi sullo stesso programma F-35. Inoltre, la versione B continua a essere comunque meno “economica”.

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In un’interpretazione ampia dell’impatto economico finale delle Queen Elizabeth, sarebbero poi da mettere in conto anche i 300 milioni di sterline programmati per l’acquisizione dei kit Crowsnest. Ma il tema dei costi non si esaurisce qui; nel conteggio vanno infatti inseriti anche quelli legati all’adeguamento della HMNB (Her Majesty Naval Base) di Portsmouth, destinata a ospitare le 2 navi. Secondo il NAO (National Audit Office), questi ultimi e una serie di voci accessorie hanno pesato per altri 300 milioni di sterline.

Non meno preoccupante, infine, un altro tema sollevato dallo stesso NAO; quello dell’impegno finanziario legato al supporto delle navi, così come degli aerei. In totale, e solo per i prossimi 4/5 anni, s’ipotizzano cifre di svariate centinaia di milioni sterline; forse oltre il miliardo. Sempre il NAO però ammonisce circa il fatto che, essendo ancora lungo il percorso legato al raggiungimento dell’operatività da parte sia delle Queen Elizabeth che degli F-35, nuovi aumenti di costo non sono affatto da escludere.

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Su tutto aleggia poi il tema della presenza di personale qualificato a sufficienza, anch’esso denunciato dal NAO; i numeri in gioco per “armare” le 2 navi e il fatto che le professionalità richieste dovranno essere in linea con la complessità sia delle piattaforme sia dei velivoli imbarcati, non fanno altro che alimentare altri dubbi.

I quali, evidentemente, non devono essere poi così infondati; almeno a giudicare dalle mosse della stessa Royal Navy.

Dapprima la decisione di ritirare anticipatamente dal servizio 2 cacciamine nell’ambito della SDSR del 2015; dopo, quella ancora più “pesante” di ritirare in tempi ugualmente rapidi l’unica LPH presente tra le fila della Royal Navy e cioè la Ocean. Infine, un taglio di 200 uomini della Royal Marine Commandos. Tutte misure adottate allo scopo di risparmiare soldi e, soprattutto, recuperare personale da destinare proprio alle Queen Elizabeth.

Nell’ambito di una più ampia valutazione delle proprie capacità ai fini della sicurezza nazionale, è in fase di preparazione (tra mille difficoltà) una nuova revisione strategica, denominata “Modernizing Defense Program” e la cui conclusione viene continuamente rimandata, quale segnale di evidenti difficoltà. E tra le varie indiscrezioni circolate, alcune sono (per certi versi) “sconvolgenti”.

Tra la altre, il ritiro dal servizio di entrambe le LPD della classe Albion, di altri 2 cacciamine e di una nave da ricerca, il taglio di altri 1.000 dei Royal Marine Commandos e, infine, la vendita di tutti gli elicotteri Wildcat della Royal Navy. Di più, in dubbio sarebbe anche lo stesso requisito finale per 138 F-35.

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Al netto di quello che succederà effettivamente, il dato è evidente; sebbene non tutti i “mali” possano e debbano essere attribuiti al programma per le 2 Queen Elizabeth (perché in realtà i problemi sono più radicati e diffusi), non è neanche possibile negare che la sostenibilità complessiva di queste 2 piattaforme (anche rispetto alle esigenze dei gruppi di volo imbarcati) stia finendo con il mettere a dura prova le possibilità, finanziarie e umane, della Royal Navy.

E questo anche in un’ottica operativa reale che le veda schierate con il proprio Gruppo Navale; tipicamente, un Carrier Strike Group sarà infatti composto da 2 cacciatorpediniere Type 45, 2 fregate che potranno essere le Type 23 (in futuro sostituite dalle Type 26 e/o 31), da un SSN della classe Astute, un rifornitore di squadra della classe Tyde e una delle future unità di rifornimento Fleet Solid Support Ship. Dunque, la difesa e l’operatività di una singola portaerei che assorbe (ancora una volta…) molte risorse, questa volta in termini di unità di scorta; al punto che i risultati di un’inchiesta parlamentare mettono in dubbio la reale capacità della Royal Navy di sostenere un simile sforzo.

Tra l’altro, non vi è ancora chiarezza neanche a proposito dello schema operativo che sarà utilizzato per le 2 unità; da un lato non si esclude che una delle 2 unità sia posta in condizioni di «Very High Readiness» (R2 nella classificazione della Royal Navy, “at 5 days notice”), con l’altra in «High Readiness» (R4 o 5, “at 20 days notice”/“at 30 days notice”).

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Dall’altro però non pochi analisti hanno già ipotizzato scenari più drastici: una sola unità operativa alle medesime condizioni mentre l’altra sarebbe posta in uno stato di “Extended Readiness”. Ricalcando cioè quanto accade già oggi per le 2 LPD della classe Albion, anche le 2 portaerei si alternerebbero in cicli operativi di 4 anni, durante i quali l’unità non operativa sarebbe equipaggiata con un minimo numero di uomini perché ferma nella propria base e impegnata solo in lavori di manutenzione/refit.

Insomma, da una parte non c’è dubbio che la Royal Navy compirà un balzo in avanti; sotto ogni punto di vista. Piattaforme con una vita operativa prevista di 50 anni, le cui notevoli dimensioni consentono da un lato di esprimere già oggi importanti capacità e, dall’altro, garantiscono margini di crescita.

Un balzo in avanti che sarà al servizio di tutte le British Armed Forces, con navi che rappresenteranno al meglio lo spirito “Joint”; non solo con riferimento alla “Lightning Force” ma anche alla configurazione «Littoral Manoeuvre» che, oltre agli così come della 16 Air Assault Brigade.

Ma a contare sono anche aspetti “Combined”, con una evidente ricerca (fin dall’inizio) di un’ampia interoperabilità con gli Stati Uniti; ampiamente testimoniata dalla presenza di F-35B del Corpo dei Marines nel corso della prevista prima campagna operativa della Queen Elizabeth.

Dall’altra parte però, ci sono tutti i dubbi accumulati nel corso di un programma travagliato e tutte le preoccupazioni di circa le possibilità di una Royal Navy non proprio in ottima salute (sotto diversi punti di vista) di gestire queste 2 unità. Insomma, quasi una scommessa; solo il futuro ci dirà se la Royal Navy potrà dire di averla vinta o meno.

Foto UK MoD, Royal Navy e ACA

 

Giovanni MartinelliVedi tutti gli articoli

Giovanni Martinelli è nato a Milano nel 1968 ma risiede a Viareggio dove si diplomato presso l’Istituto Tecnico Nautico per poi lavorare in un cantiere navale. Collabora con Analisi Difesa dal 2002 occupandosi di temi navali in generale e delle politiche di Difesa del nostro Paese in particolare. Fino al 2009 ha collaborato con la webzine Pagine di Difesa.

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