L’Esercito tuttofare: da “Strade sicure” ai campi rom

In questi giorni il sindaco di Roma ha chiesto di impiegare l’esercito per far fronte all’annoso problema del controllo dei campi rom, in particolare per contrastare/impedire l’accensione di roghi tossici. Il ministro della Salute, preoccupata per i ripetuti casi di aggressione al personale sanitario, chiede la presenza di soldati per garantire la sicurezza del personale medico e paramedico (vedasi DDL “Violenza negli ospedali”).

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Inizialmente in tre nosocomi (a Palermo, Catania e Napoli), ma è chiaro che la pratica potrebbe assumere dimensioni più generali a livello nazionale. Quando sorge un problema, di qualunque natura esso sia, e gli organismi preposti vengono ritenuti non in grado di farvi fronte, l’Italia invoca l’intervento dei militari!

Significa che le forze armate sono unanimemente considerate un’organizzazione efficiente, sulla quale si può sempre fare affidamento e lo si può fare per qualsiasi compito. Questo rappresenta sicuramente un merito, in una nazione di brontoloni che non ha la tradizione culturale di pensare sempre al bene dello Stato e dei suoi organi.

Merito da ascrivere ai nostri soldati, che operano con professionalità anche sul territorio nazionale (dagli interventi in zone terremotate a “strade sicure”) sotto gli occhi di tutti i cittadini, e merito anche delle gerarchie militari. che sono riuscite a trasmettere tale messaggio di efficienza alle autorità politiche a livello sia periferico sia centrale.

L'Esercito impegnato nella rimozione macerie nelle aree del sisma del centro Italia (2) (002)

Cosa oggi più difficile che in passato, essendo venuta a mancare l’osmosi tra l’Esercito e la società civile che era garantita dalla coscrizione obbligatoria. Occorre però chiedersi se tali generosi interventi rappresentino davvero l’impiego più funzionale ed efficace delle tante risorse che il Paese dedica alle sue forze armate: risorse umane in primis, che spesso si dimenticano, ma anche consistenti risorse finanziarie e tecnologiche.

È chiaro che in situazioni di emergenza le forze armate offrano un bacino di potenzialità e professionalità prontamente disponibile, cui si potrebbe attingere immediatamente in maniera anche più massiccia di quanto non si faccia oggi.

Ovunque una situazione di criticità si manifesti senza preavviso o ci si trovi di fronte a emergenze il ricorso ai militari dovrebbe avvenire con carattere di automatismo. Dopo gli eventi tellurici che hanno colpito l’Italia Centrale nel 2016 e 2017, su questa rivista avevo invocato un intervento più massiccio delle potenzialità che l’Esercito avrebbe potuto mettere in campo e che, invece, sono rimaste in caserma!

In quel caso, però, si trattava di “emergenze” non preventivabili, di norma contenute nel tempo e ben venga il massiccio ricorso a tutte le potenzialità umane e tecniche che le forze armate possono mettere prontamente in campo!

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Esaminando gli ultimi interventi richiesti nei campi rom e negli ospedali è auspicabile che nell’assegnare tali missioni si preveda anche l’attribuzione al personale militare delle autorità necessarie per assolvere appieno il compito con un minimo di autonomia. Ovvero, di autorità analoghe a quelle dei colleghi di carabinieri e polizia di Stato, in modo che si eviti la situazione in cui il militare può sì intervenire per interrompere un’azione in corso (incendio di materiale tossico o aggressione al medico di turno) ma deve poi attendere l’arrivo delle forze di Polizia per procedere all’arresto.

Il ruolo dei militari, infatti, appare essenzialmente quello di garantire una “presenza deterrente” e, eventualmente, di fare la “vedetta” per far poi intervenire le forze di Polizia. Ruolo un po’ riduttivo per i soldati professionisti che l’Esercito mette in campo, comunque utile, anche se i militari impiegati potrebbero fornire un contributo qualitativo ben maggiore.

Nel caso degli ospedali, la presenza potrebbe avere un effetto deterrente nei confronti di eventuali facinorosi e sicuramente consentirebbe un intervento immediato in attesa delle forze dell’ordine.

Certo il compito è più attagliatao per la polizia che per i militari: in un paese “normale” sarebbe probabilmente la polizia municipale a prendersene carico, senza distogliere carabinieri e polizia dai loro compiti, ma l’Italia, in materia di sicurezza, da tempo non è (o almeno non si considera) un paese “normale”.

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Peraltro, nell’emergenza è necessario dare un segnale di risposta immediato: l’esercito, con le uniformi di combattimento per le strade, può sicuramente dare questo segnale e, soprattutto, può darlo in maniera visibile, aspetto importante per i cittadini e soprattutto per la leadership politica.

In questo contesto, c’è da augurarsi che gli insegnanti, sempre più spesso vittime di atti di violenza da parte dai genitori degli studenti, non insistano per avere soldati armati nelle scuole.

L’intervento dell’esercito può essere efficace come misura immediata, in attesa che tali compiti possano essere stabilmente assegnati a forze di polizia nazionali o municipali, e rappresenta un segnale visibile e tangibile della volontà politica di intervenire su certe situazioni di crisi.

In Italia, però, non si ricorre ai militari in ruolo sussidiario alle forze dell’ordine soltanto nell’emergenza. Si tratta ormai di una consuetudine radicata forse da troppo tempo, sulla quale ci si è cullati senza cercare soluzioni alternative.

La famosa attività “Strade sicure” (in merito alla quale ho già espresso su questa testata le mie perplessità) fu avviata il 4 agosto 2008 e qualche malpensante potrebbe evidenziare come tali esigenze emergano sempre in periodo di ferie estive, periodo in cui forse gli organici delle forze dell’ordine sono un po’ sofferenti….

L’attività (ho qualche difficoltà a chiamarla “operazione”) fu sancita dalla legge n. 125 del 24 luglio 2008 che così recitava: “Per specifiche ed eccezionali esigenze di prevenzione della criminalità, ove risulti opportuno un cresciuto controllo del territorio, può essere autorizzato un piano di impiego di un contingente di personale militare appartenente alle Forze Armate.”

Milano

Nonostante i cambi di governo (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte) e le divergenti visioni in materia di ordine pubblico e sicurezza, “Strade sicure” continua ancora ed è stata confermata per il 2019! Evidentemente le “specifiche ed eccezionali esigenze” non sono così “eccezionali”, ma sono ormai divenute croniche e il supporto dei soldati alle forze dell’ordine sembrerebbe esser divenuto strutturale! Comunque, anche “Strade sicure” non era una novità nel suo genere.

È dall’estate 1992 (dopo gli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino) che l’esercito interviene senza soluzione di continuità in attività di polizia. Inizialmente con l’operazione “Vespri Siciliani”, che ebbe il merito di dimostrare veramente la capacità di reazione dello Stato e la sua volontà di riappropriarsi del controllo del territorio in Sicilia. A questa seguirono una serie di attività minori e dagli obiettivi più limitati (“Riace”, “Forza Paris”, “Partenope”, “Salento”, “Domino”, “Testuggine”) fino a giungere a “Strade Sicure”.

L'Esercito impegnato nella rimozione macerie nelle aree del sisma del centro Italia (002)

Il punto non è se tali attività siano state efficaci o meno. Certamente hanno conseguito dei risultati, ci mancherebbe!

Sicuramente c’è stato un messaggio “visivo” inviato alla popolazione e cioè che lo Stato, giungendo a impiegare l’esercito, stava facendo il massimo sforzo per la sicurezza. Effetto “visivo” che però incide non tanto sulla “sicurezza” ma bensì sulla “percezione della sicurezza”.

Si poteva fare meglio? Forse. La Corte dei Conti, espressasi a suo tempo al riguardo, aveva ritenuto il contributo dell’esercito alla sicurezza non rilevante per i numeri ridotti di militari impegnati e soprattutto per i limiti ristretti imposti alla loro possibilità d’azione.

A lungo termine occorre chiedersi se questa tipologia di impiego del personale militare fornisca una risposta efficace ai problemi della sicurezza interna del Paese e se si tratti di un impiego funzionale e costo/efficace dei nostri soldati.

In merito al primo punto, è evidente che il maggior problema italiano in materia di sicurezza è l’assenza di “certezza della pena” e la quasi assicurata impunità per chi delinque, non certo il numero di operatori di polizia e militari che si mettono per strada.

Militari dell'Esercito davanti alla stazione ferroviaria di Napoli Centrale

Ciò detto, se da 26 anni e senza soluzione di continuità l’Esercito viene impiegato a supporto delle forze dell’ordine, forse è il caso di rimpolpare gli organici di polizia e carabinieri (volontà peraltro espressa dall’attuale ministro dell’Interno, Matteo Salvini) e, eventualmente, rivederne la struttura organizzativa per evitare inutili duplicazioni tra le varie, forse troppe, forze di polizia.

Tenuto conto anche dei livelli di forza attuali (circa 330.000 uomini/donne tra PS, CC e GdF) i 7.000 soldati di “Strade sicure” rappresentano, comunque, una goccia nell’acqua, peraltro concentrata solo nelle città maggiori (attualmente sono dislocati in 53 centri urbani). Un intervento che potrebbe apparire mirato più a “farsi notare” che a conseguire effetti operativi reali.

In merito al secondo punto, è evidente che l’impiego dei militari non è funzionale e costo/efficace. I reparti vengono distratti dalle normali attività addestrative di specialità per quasi un anno tra preparazione per “Strade sicure”, turno in “strade sicure” e successivi periodi di recupero, licenza e riqualificazione nei rispettivi incarichi.

Roma

Ne consegue un inevitabile degrado del livello operativo-addestrativo dei reparti (soprattutto quelli a più elevata connotazione tecnologica) e lunghi periodi di inutilizzazione di armamenti e mezzi sofisticati e costosi.

Questo poteva forse andare bene con un esercito di massa e di coscritti, non se si vuole una forza armata “expeditionary”, di ristrette dimensioni e di professionisti altamente qualificati idonei e pronti all’impiego in teatri operativi che possono essere anche ad alto rischio.

Purtroppo, l’approccio concettuale di base sembrerebbe essere quello di considerare i militari una risorsa “inutile” parcheggiata in caserma e che potrebbe invece rendersi utile.

E’ l’approccio di chi non riesce a comprendere che le forze armate hanno una ragion d’essere nella difesa e, eventualmente, nell’imposizione degli interessi strategici del paese, anche con l’uso della forza.

Approccio semplicistico che non tiene neanche conto del fatto che le forze armate hanno costi elevatissimi in termini di retribuzioni del personale, addestramento e formazione di professionalità specifiche altamente specializzate, acquisizione e manutenzione di mezzi e sistemi d’arma sofisticati.

In sostanza, l’impiego in “Strade sicure” di reparti dell’esercito non è a “costo zero” e i costi sono essenzialmente in termini di inevitabile decadimento delle capacità operativa e addestrativa dei reparti, con perdita di capacità tecnico-operative da parte del personale di truppa e riduzione dei quadri intermedi (marescialli, tenenti, capitani) a fare poco più dei “capi –muta” con inevitabile degrado della loro preparazione professionale e delle loro capacità di comando.

Pescara

Occorrerebbe quindi strutturare forze armate e dell’ordine in relazione ai prevedibili compiti, evitando il più possibile di frammischiare forze e compiti.

Se l’esigenza di fornire 7.000 militari al ministero dell’Interno è diventata cronica e non vi sono altre soluzioni, come misura immediata si potrebbe, provocatoriamente, ipotizzare il transito di 7.000- 10.000 militari dalle forze armate alle forze dell’ordine.

Ovviamente, la cosa non sarebbe semplice e non dovrebbe riguardare né il personale militare più giovane né quello con gli incarichi/ specializzazioni più rilevanti per le forze armate.

Una tale misura poterebbe aiutare anche a “sfrondare” l’esercito dai troppi volontari in servizio permanente (VSP), immessi in servizio permanente sulla base di una politica (tipica del decennio 1995-2005) che mirava più a riempire i ruoli che a garantirsi per il futuro il ricambio con soldati più giovani. Tali “vuoti” potrebbero essere riempiti da personale a ferma breve o comunque non in servizio permanente, al fine di mantenere un po’ più giovani i reparti militari.

Foto: Esercito Italiano e difesa.it

 

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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