Tempest, riscatto (anche) europeo

Tornado, Tifone, e poi il caccia sperimentale “unmanned” Taranis, nome del dio celtico del tuono. I Britannici quando decidono come chiamare un nuovo aereo da combattimento pensano sempre alle furie della meteorologia, forse per farli sembrare più “cattivi”.

Per il loro nuovo caccia stealth di sesta generazione Tempest, stesso nome del velivolo concepito per la guerra aerea degli anni 40 (nella foto sotto), la tradizione è stata rispettata, segno che anche stavolta ci saranno lampi e tuoni.

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E Brexit o meno, si fa sul serio. Intanto, l’aereo da combattimento che, a (parziale) sorpresa la Gran Bretagna ha presentato a luglio al Salone di Farnborugh sotto forma di un simulacro in grandezza naturale, rischia di creare forti turbolenze nell’industria aerospaziale europea proprio là dove negli ultimi anni è rimasta più indietro, ossia negli aeroplani da combattimento con equipaggio a bordo.

Il nuovo programma creerà nuove contrapposizioni se non persino lacerazioni proprio nel momento in cui gli attori principali della UE cercano di avviare iniziative partecipate capaci di dare senso all’idea di una difesa comune continentale, condotta con assetti di concezione e produzione rigorosamente europea.

E’ comunque un nuovo passo avanti verso il riscatto dell’industria aeronautica al di qua dell’Atlantico nel settore più eccellente e strategico, dopo aver voluto e in parte dovuto subire negli ultimi cinque lustri l’iniziativa d’oltre Oceano.

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La cosa un po’ paradossale è che a proporre concretamente questo riscatto sia un pezzo d’Europa che se ne sta andando per i fatti suoi.

I due miliardi di sterline stanziati dal Governo di Theresa May per cominciare a buttar giù qualcosa del Tempest di qui al 2025, non sono neppure l’aperitivo del banchetto luculliano che si consumerà attorno a un programma che per ora è solo assertivamente, orgogliosamente britannico, costituendo il pilastro della nuova Combat Air Strategy d’oltre Manica, basata – con l’apporto dell’F-35, il cui fabbisogno però potrebbe ridursi – su sistemi d’arma e tecnologie il più possibile British, compreso un sistema di navigazione satellitare alternativo al Galileo europeo, nel solco delle iniziative legate alla Brexit.

Per arrivare al dessert, completati sviluppo e dimostrazione di capacità e nuove tecnologie (oggi in buona parte ancora largamente immature), che se va bene avranno moltiplicato almeno per 10 quei due miliardi, il Ministry of Defence dovrà contare sull’aiuto finanziario e l’expertise di un certo numero di partner.

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Partner che è presto per dire se saranno davvero tali (con i costi e benefici connessi, come nei programmi Tornado ed Eurofighter), o più semplici ancorché importanti fornitori di elementi. L’analista Robert Aboulafia si è spinto a immaginare l’Arabia Saudita come alleato decisivo, tanto sul fronte della condivisione dei costi quanto su quello commerciale, con gli effetti geopolitici nell’area mediorientale che si possono immaginare.

In ogni caso non dovremo sforare tempi e risorse, giuravano al salone londinese i vertici dell’industria d’oltre Manica e della stessa Royal Air Force, ma consegnare aeroplani ai costi e dalle prestazioni attese nei tempi stabiliti. Traduzione: non vogliamo, non dobbiamo finire come il Joint Strike Fighter statunitense. Bella e sacrosanta speranza. Auguri di cuore.

 

E’ un addio (momentaneo) agli UCAV europei?

Vediamo di esaminare la questione prima da una prospettiva governativo-industriale, poi da quella militare. Incasinatissima (si passi il termine) la prima per l’infinità di variabili in gioco e le incognite che questa mossa a sorpresa suscita nel pieno della Brexit, anche nella stessa Gran Bretagna, dove vari analisti (soprattutto vicini al Labour) ritengono che il progetto abbia più significato politico che “reale sostanza tecnologico-aeronautica”. Più definita la seconda, anche se non mancano pure qui dubbi e perplessità.

Team Tempest Future Combat Air System concept. Copyright BAE Systems.

Comunque sia, stufa forse di duettare da sei anni con Parigi attorno al programma bi-nazionale per un UCAV avanzato da combattimento che non sapeva bene dove la portasse, pur trattandosi del perno d’un programma strategico per le due sponde della Manica, quel Future Air Combat System (FCAS) lanciato in pompa magna da Nicolas Sarkozy e David Cameron, Londra ha voltato pagina.

Dapprima, non lasciando trapelare granché, ha fatto aprire al Ministry of Defence un Permanent Rapid Capabilities Office, un dipartimento all’interno della Royal Air Force con l’incarico di studiare con agilità progetti classificati.

Poi, al suo interno ha creato un “Team Tempest”, con la stessa BAE Systems, MBDA UK per l’armamento, Leonardo MW (Marconi Westland) per avionica e sensoristica in generale, e Rolls-Royce per la propulsione. Le quattro società, una per ciascuna delle quattro componenti-base del velivolo, sono legate da un primo contratto di studio della durata di due anni, estensibile fino alla data limite (per ora) del 2025, sottoscrivendo documenti sui concetti e una prima serie di requisiti dichiarati assolutamente “for uk eyes only”.

Nessun’altra azienda non britannica potrà visionarli, almeno per un po’. Quindi neppure la capogruppo italiana Leonardo Company.

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Fra i progetti gestiti dal PRCO figurerebbe una nuova classe di piccoli UCAV low-cost aviolanciabili ed eventualmente “spendibili” che il Tempest come pure piattaforme non da combattimento dovrebbero gestire nelle missioni più complesse.

Caccia di sesta generazione o secondo alcuni puristi di “quinta ++”, il Tempest, come vuole una prassi forse più modaiola che basata su credibili concretezze, viene annunciato come velivolo pilotato da bordo “oppure opzionalmente manned”; come diremo più avanti, è peraltro un po’ difficile immaginare un grosso caccia bimotore (comunque) equipaggiato di tutto punto e con costi operativi tipicamente elevati in veste di velivolo senza pilota a bordo – a meno di non specializzarne fortemente pochi esemplari come piattaforme “eccellenti” da guerra elettronica.

Questo non significa che la Gran Bretagna, per un futuro peraltro ora verosimilmente ancora più lontano di quello che attende il nuovo caccia, rinunci a un vero UCAV sullo stile di quello immaginato coi Francesi. Di certo, la “tempesta” scatenata oltre Manica obbliga a ripensare i piani europei dei velivoli unmanned votati all’attacco al suolo al combattimento aria-aria e al jammg, che finora hanno dato luogo solo a due velivoli sperimentali, il Neuron di Dassault (con la partecipazione dell’Italia) e il Taranis dei BAES. Dimostratori dal futuro ora ancora più incerto.

 

“Nostalgia” del B.E. Lightning e del H.S. Buccaneer

Ma vediamo le varie posizioni. Con il caccia multiruolo Tempest, primo aereo da combattimento stealth europeo, British Aerospace Systems si lancia in un’impresa enorme, qualcuno dice superiore alle sue forze: i forzieri di Sua Maestà hanno conosciuto tempi migliori e sulle vicende della Brexit non splende certo il sole.

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BAE Systems è forte di 2.500 società che danno lavoro a 128.000 persone, 26.000 delle quali dedicate a ricerca e sviluppo; il giro d’affari complessivo è di 33,5 miliardi di sterline, 37,3 miliardi di euro (con una proporzione abbastanza equivalente, Leonardo Company, società unica, ha 45.134 addetti di cui 10.000 per R&S, e ricavi per 11,5 miliardi di euro).

Dopo aver fatto la parte del leone nel Tornado e nell’Eurofighter, che considera “suoi”, British Aerospace intende mantenere la conduzione del nuovo programma (fase concettuale, formulazione di requisiti, progettazione, sviluppo e via così) anche quando lo allargasse ad altri attori, europei ma anche non.

A questi offrirà un rilascio di tecnologie graduale e consistente a seconda del loro contributo finanziario e tecnologico allo sviluppo e poi alla industrializzazione.

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Un approccio non troppo dissimile da quello degli Stati Uniti col partenariato internazionale dell’F-35, con prime contractor e Pentagono registi e decisori assoluti di e su tutto, ma – prima differenza – con partecipanti infinitamente sproporzionati rispetto al gigante americano, costretti con scarsissimo potere contrattuale a mille capriole per assicurarsi lavoro e ricavi, vincolati da scelte progettuali, industriali, contrattuali e tecnico-logistico-operative non negoziabili e tali – seconda differenza -, senza il rilascio di conoscenza/gestione delle tecnologie più abilitanti, da limitare la loro sovranità sul velivolo. Sovranità che almeno nelle premesse il Tempest dovrebbe invece concedere.

Compartecipato in misura più o meno rilevante – dipenderà poi da quanti (comunque tanti) altri miliardi di sterline il Governo vorrà in parte stornare negli anni da altri impegni nella Difesa -, in definitiva col programma Tempest, giusto nel centenario della Royal Air Force, Londra torna ai tempi in cui realizzò l’intercettore Lightning di British Electric (nella foto sopra) e l’aereo da attacco Buccaneer di Hawker Siddeeley (qui sotto), società poi confluite con altre sotto il brand BAE Systems.

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Le premesse ci sono: col prezioso apporto di Leonardo MW e QineticQ, ha lavorato per anni un po’ sotto traccia a un possibile sostituto del Tornado, quel Future Offensive Air System (FOAS) cancellato nel 2005 ma poi servitole per riprendere slancio nel quadro dell’intesa con Parigi, elaborando i concetti per i sistemi di comunicazione e la sensoristica necessari ai caccia della futura generazione. Anche qui, non lasciando trapelare granché, e forte di quella poca ma forse sufficiente visibilità di cui ha goduto come partner di primo livello nel Joint Strike Fighter americano.

Anche Dassault ha fatto i suoi bravi studi post-Rafale. E’ a capo del progetto franco-tedesco per un sostituto del suo multiruolo e dell’Eurofighter Typhoon, da sviluppare con la divisione Defence and Space di Airbus in veste di partner minoritario. Così è stato deciso dai rispettivi ministeri della Difesa e sancito da un accordo industriale ad aprile al salone di Berlino. Si tratta del famoso, “secondo” Future Combat Air System, che manco a dirlo per i Francesi si chiama Système de Combat Aérien Futur (in cauda venenum, tre mesi dopo Farnborough il CEO di Dassault Eric Trappier ha detto papale palale che “se gli Inglesi sviluppano un loro nuovo caccia, vuol dire che non sono contenti dell’F-35”).

Ad Airbus, cioè alla Germania, è andato in contrappeso il comando nel programma del MALE europeo. Quella che si dice una bella spartizione, con altri possibili partner a raccogliere se non proprio le briciole di due programmi pseudo-europei, di sicuro a subire senza troppa voce in capitolo strategie e decisioni di base del progetto.

 

Presa alla sprovvista, Airbus è ondivaga

Il Consorzio Eurofighter – di cui le stesse Airbus e BAE Systems fanno parte con le quote maggiori – per bocca del suo CEO Volker Palzto ha messo le mani avanti affermando che il previsto EF-2000 Typhoon “migliorato” con tecnologie d’avanguardia (500 i nuovi requisiti in discussione coi quattro partner) sarà il “pilastro” ideale di ogni progetto FCAS, fungendo anche da eventuale velivolo dimostratore; dimostratore che, invece, Dassault ha già in programma di sviluppare con Airbus.

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Eurofighter ha due carte da giocare: un’arma negoziale per far confluire nel programma Tempest a guida britannica gli altri partner tedesco, spagnolo e italiano; e un motore che vanta un ottimo potenziale di crescita, vale a dire lo stesso Eurojet EJ-200 del Typhoon ma con spinta aumentata del 15-20 per cento, pronto presumibilmente prima di quello definitivo, a ciclo variabile e principalmente made in Rolls-Royce.

Un motore adottabile dal velivolo dimostratore se non addirittura sui primi Tempest, nel caso – più che probabile quando si parla di turbogetti di nuova generazione – quello a ciclo variabile tardasse, viste anche le implicazioni con la stealthness del velivolo. L’opzione “motore provvisorio poi motore definitivo” obbligherebbe evidentemente a progettare unabaia motori e predisposizioni per gli impianti idonee a entrambi.

Airbus appare quantomeno ondivaga. Il capo in testa Tom Enders prima ha fatto sapere che il FCAS franco-tedesco non verrà in alcun modo colpito dalle grandinate di quello britannico, negando allo stesso tempo l’ipotesi di un matrimonio fra la divisione militare del consorzio europeo, che è nella UE, e la “fuoriuscita” BAE Systems (un progetto già fallito anni addietro), che finirebbe con l’avere Dassault come terzo incomodo.

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Poi, richiamandosi all’Europa unita nella Difesa, ha ammonito sul rischio che si ripeta il passato – con due, anzi col Gripen tre diversi caccia europei – auspicando che in futuro l’Unione Europea disponga di unico aereo da combattimento di nuova generazione, non fosse altro per mettere in uno stesso paniere gli ingenti capitali necessari allo sviluppo. Un’ipotesi questa peraltro lontana dai suoi auspici, con una collaborazione trinazionale Francia-Germania-Gran Bretagna a dividersi il 33 per cento del programma ma con almeno Parigi e Londra lasciati a rosicare per aver perso il ruolo di leadership.

Leonardo. Come s’è detto nel Team Tempest figura la branca britannica dedicata all’elettronica della capogruppo italiana, che ha una sua divisione votata ai sistemi per elettronica, difesa e sistemi di sicurezza. Settori di Leonardo che a breve potrebbero conoscere riassetti fra Londra e Roma con nuovi share di attività e conseguenti nuove partite economiche. Leonardo MW da un lato porta vantaggi economici (fatturato) alla capofila romana, ma dall’altro mantiene la proprietà intellettuale di ciò che sviluppa, produce e vende, con 7.000 addetti (più 25.000 dell’indotto) sparsi in sei stabilimenti.

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Fattura 2 miliardi di sterline ed esporta per 1,3 (non è del tutto chiaro perché nei suoi documenti ufficiali dichiari di “contribuire significativamente in tal modo all’economia britannica e al suo riequilibrio”). La collaborazione col ramo italiano c’è, ma le due “Leonardo elettroniche” hanno governance separate e mercati in parte differenti. In conclusione, sostenere che anche l’Italia ha già un piede nel programma Tempest è quantomeno una mezza verità.

Quanto alla parte restante di Leonardo, prima e dopo il Salone londinese almeno a livello ufficiale non aveva ancora stabilito contatti diretti con il Team Tempest, anche se al Sole 24 Ore il capo di Leonardo MW Norman Bone (nella foto sopra) ha dichiarato che con gli Italiani “ci sono già stati alcuni briefing”.

E’ più che evidente che anche la Divisione Velivoli potrebbe prendere parte all’avventura, perpetuando una tradizione industriale che ha visto l’Italia partecipare con profitto e continua crescita tecnologica ai vari programmi aeronautici europei. Vedremo come andrà a finire (a cominciare (partecipazione col 23 per cento all’umnanned europeo MALE a parte) dalla strada che prenderanno i denari che il ministro della Difesa vuole drenare dal procurement dell’F-35 per destinarli a collaborazioni europee.

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E veniamo al possibile/indispensabile partenariato che BAE Systems conta di mettere in piedi già a partire dall’estate 2019. Svezia e Giappone (oltre forse alla già citata Arabia Saudita) sono in pole position, anche se impegnate entrambe (soprattutto il Giappone) in programmi nazionali per altrettanti caccia di quinta generazione. Tokyo è già oggetto da tempo di un corteggiamento da parte di BAE Systems, che ha promesso di aiutarla a sviluppare il suo F-3.

Lo stesso sta facendo l’americana Lockheed Martin: si è offerta di occuparsi di quel programma (pensa a un “ibrido” F-22/F-35, proposto un paio di settimane fa alla stessa US Air Force) “lasciando” che il Giappone se ne prenda il 51 per cento.

Dalla sua la Gran Bretagna, che tra l’altro ha un piede anche nel programma turco del TF-X (se si farà), è la sola a poter vantare le capacità politico-diplomatiche necessarie a far convergere vari progetti su un unico programma, il suo. Né, almeno al momento, è lecito ipotizzare un (nuovo, e quanto ancora limitante?) accordo con gli Stati Uniti, alle prese con i progetti per i futuri caccia di sesta generazione di USAF e US Navy. Una nuova intesa transatlantica finirebbe per tradire in qualche modo il senso e gli scopi della nuova Combat Air Strategy britannica di cui il Tempest è figlio.

 

Unmanned forse sì, forse no

E veniamo all’aspetto militare, tecnico e operativo. Parlavamo di caccia manned e/oppure unmanned. Quel “oppure”, almeno per ora, appare più “markettaro” che fondato su requisiti, architetture sistemistiche e capacità reali, in gran parte ancora da sondare e i cui tempi di maturazione sono tutti da misurare.

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Almeno qui in Europa, perché al di là dell’Atlantico stanno studiando le dinamiche dei rapporti pastore-gregge già da tempo, e con qualche primo risultato concreto, o perlomeno con ipotesi di lavoro traducibili in realtà senza troppi sforzi.

La più singolare vedrebbe i caccia delle nuove generazioni gestire nelle fasi conclusive della missione aerei della quarta generazione (gli F-16 più obsoleti fra tutti) trasformati in UCAV. I primi esperimenti oltre Atlantico sono attesi a breve, ma qualcosa si muove anche in Europa, manco a dirlo proprio in casa BAE Systems.

Ma torniamo al Tempest:

Il mock-up di Farnborough, rassomigliante per alcuni versi a quello del Replica, simulacro di caccia stealth sottoposto in Gran Bretagna vari anni fa a test sulla riduzione della traccia radar, propone un bireattore di grandi proporzioni della stessa classe del russo Su-57 e del cinese J-20.

La notevole mole fa supporre un velivolo da superiorità aerea dotato di range e carico bellico ragguardevoli (nelle consuete baie interne), capace quindi di condurre attacchi in profondità (Offensive Counter Air, OCA) e da notevoli distanze con l’impiego anche dell’“ultimo rirovato”, il missile ipersonico. Caccia multiruolo, il Tempest avrà capacità aria-aria tanto Beyhond Visual Range quanto Within (o Close) Visual Range. In quest’ultimo caso la sfida si gioca nel campo dell’aerodinamica e della conservazione/recupero di energia grazie a un più che buon rapporto spinta/peso.

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Fattori determinanti, questi, per ottenere l’agilità richiesta nel combattimento ravvicinato (dove il delta-canard Eurofghter eccelle), da condurre impiegando oltre ai missili a corto raggio anche armi a energia diretta. Secondo vari esperi, tuttavia, l’impostazione aerodinamica vista sul simulacro – ala a notevole angolo di freccia sul bordo d’attacco e freccia “spezzata” su quello d’uscita, unita a un doppio impennaggio a farfalla di dimensioni ridotte, utile assieme a quella “freccia spezzata” a ottenere notevoli doti di bassa osservabilità, in parte però compromessa dall’assenza delle tipiche prese d’aria stealth “Divertless Supersonic Inlet” -, mal si concilierebbe con le doti di maneggevolezza richieste proprio nell’impiego di laser “sparati” fulmineamente ed entro il maggior arco di ingaggio possibile. Vedremo se il software dei comandi di volo del Tempest saprà ovviare – se del caso, beninteso – a questa apparente inconciliabilità. Interessante poi il fatto che il tettuccio dell’abitacolo riprenda la geometria tradizionale “a goccia” dei caccia delle generazioni precedenti, dando al pilota anche la sempre gradita visibilità posteriore nel dogfight in parte compromessa dal canopy del JSF.

 

Il nodo (anche politico) dell’interoperabilità

Il software. Contrariamente al Joint Strike Fighter americano, il Tempest avrà un’architettura di sistema di tipo aperto, per facilitare attraverso modalità “plug-and-play” e “role-fit” (adattamenti a seconda della missione) l’installazione di sempre nuovi sistemi e funzionalità; fra i primi, sensori multi direzionali di nuova generazione, e fra le seconde una sensor fusion senza precedenti.

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E’ altamente auspicabile che il nuovo caccia britannico non segua la strada imboccata dall’F-35, che per una molteplicità di fattori perlopiù negativi ha percorso un lunghissimo calvario (non ancora terminato) per garantire con infiniti aggiustamenti software/hardware le capacità promesse, e con ulteriori aggravi in termini di tempo/costo dovuti alla prematura obsolescenza di alcuni sistemi.

Un approccio (negativo per l’utilizzatore ma altamente remunerativo per il costruttore) peraltro inevitabile e/o giustificato nell’aereo da attacco statunitense dal diabolico binomio complessità-tempi di sviluppo e validazione, e al quale anche BAE Systems e compagni almeno per taluni versi verosimilmente faticheranno a sottrarsi.

Come un “moltiplicatore di forza”, che interagisce con una vasta gamma di altre piattaforme e servizi militari e civili in tutti i settori aerei, terrestri, marittimi, spaziali e cibernetici, il nuovo caccia eserciterà il comando e controllo su altri sistemi basandosi su sistemi di comunicazione particolarmente avanzati, e garantendo una comprensione rapida ed efficace dell’area di combattimento. Farà largo ricorso all’intelligenza artificiale, adottando un’avionica che come nell’F-35 troverà il fulcro di capacità e prestazioni nel casco del pilota.

Tecniche di produzione avanzate (uso esteso della robotica, impiego di nuovi materiali anche per la gestione termica) avranno un ruolo significativo nel ridurre il costo di produzione unitario e costituiranno un fattore chiave per la flessibilità e l’aggiornabilità. La robotica sarà utilizzata anche nelle attività di supporto tecnico. Nulla è stato ancora specificato in termini di logistica generale; dipenderà molto dai volumi di produzione. I conteggi sono assolutamente prematuri, ma tanto per dare un’idea, per il loro FCAS Francia e Germania hanno dichiarato di stimare un fabbisogno comune di 500-600 esemplari. Poi ci saranno le forze aeree dei Governi e delle industrie che eventualmente si unissero ai due programmi, ma qui è davvero impossibile fare anche solo delle previsioni sommarie.

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I costi. Anche qui il vuoto più assoluto, com’è naturale. Annunciando il Tempest BAE Systems ha fatto sapere che “nel corso degli anni il programma Typhoon dovrebbe generare entrate di 28,2 miliardi di sterline da un investimento governativo iniziale di 15,2”.

Difficilissimo avere dati chiari e sinceri su come è andata e andrà ancora per l’Italia il programma Eurofighter. Per avere anche solo una vaga idea del “costo di programma” del caccia che lo sostituirà, quello che l’acquirente mette a budget, bisognerà aspettare almeno fino alla fine degli Anni 20. Per allora si saranno chiarite le dinamiche dei due scenari possibili, e cioè quello di un programma ancora “soprattutto britannico”, o quello di un consistente allargamento a partner investitori. Se Svezia, Giappone, magari anche la Turchia e altri ancora salissero sul carro del Tempest, mandando così in soffitta (almeno Tokyo e Ankara) i rispettivi progetti nazionali, e se poi (il “se” più grande) questo si fondesse nel FCAS franco-tedesco, nel migliore dei mondi possibili ossia non duplicando all’infinito le linee di assemblaggio, i volumi di produzione sarebbero tali da ottenere “costi di programma” in misura accettabile. Nell’ipotesi contraria, diverrebbero proibitivi.

Londra dovrà mettere in campo la massima interoperabilità del suo caccia con gli assetti aerei d’oltre Atlantico, ma più in particolare con tutti i velivoli da combattimento anche di generazione 4++ ancora in servizio almeno della NATO all’alba degli Anni 40. Il 17 luglio, il giorno dopo il disvelamento del simulacro e delle linee generali del programma, l’Air Force americana si è subito affrettata ad auspicare, anzi, a richiedere la massima interoperabilità fra il Tempest e i suoi aeroplani.

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Il sottosegretario Matthew Donovan ha dichiarato che “la cosa più importante quando un alleato realizza una piattaforma critica dal punto di vista di un’operazione congiunta (testualmente “allied fight”), è l’interoperabilità”.

Ma ancora più dirette e per certi versi sorprendenti sono state le parole di Will Roper, Sottosegretario per il procurement, le tecnologie e la logistica dell’Air Force: “Non possiamo realizzare la (nostra; ndr) National Defense Strategy da soli. Dobbiamo essere in grado non solo di combattere con i nostri alleati, ma anche di realizzare delle cose con loro”.

Espresso così, il concetto fa un po’ a pugni con quello che hanno in mente (alcuni) governi e (tutte) le maggiori industrie aeronautiche europee sviluppando prodotti avanzati capaci di affrancare il Vecchio Continente dalle forniture dell’Alleato. Il quale forse non è più – nella frase coniata già 20 anni fa dal Segretario di Stato Madeleine Albright – la “nazione indispensabile”.

Foto:  RAF, BAe Systems, MoD UK, Dassault e Leonardo

 

Silvio Lora LamiaVedi tutti gli articoli

Nato a Mlano nel 1951, è giornalista professionista dal 1986. Dal 1973 al 1982 ha curato presso la Fabbri Editori la redazione di opere enciclopediche a carattere storico-militare (Storia dell'Aviazione, Storia della Marina, Stororia dei mezzi corazzati, La Seconda Guerra Mondiale di Enzo Biagi). Varie collaborazioni con riviste specializzate. Dal 1983 al 2010 ha lavorato al mensile Volare, che ha anche diretto per qualche tempo. Pubblicati "Monografie Aeree, Aermacchi MB.326" (Intergest) e con altri autori "Il respiro del cielo" (Aero Club d'Italia). Continua a occuparsi di Aviazione e Difesa.

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