Perché gli israeliani evitano la vittoria
di Daniel Pipes
da L’informale 19 ottobre 2018
Pezzo in lingua originale inglese: Why Israelis Shy from Victory
Immaginate che un bel giorno un presidente americano dica a un primo ministro israeliano; “L’estremismo palestinese danneggia la sicurezza americana. Abbiamo bisogno che tu vi ponga fine conseguendo la vittoria sui palestinesi. Fare ciò che serve entro i limiti legali, morali e pratici”. E il presidente continua: “Imponi la tua volontà su di loro, inducili a pensare di essere stati sconfitti in modo che rinuncino al loro sogno settantennale di eliminare Israele. Vinci la tua guerra”.
Come potrebbe rispondere il primo ministro? Coglierà l’attimo e punirà l’incitamento e la violenza sponsorizzati dall’Autorità palestinese (Ap)? Informerebbe Hamas che ogni aggressione porrebbe temporaneamente fine a tutti i rifornimenti di acqua, cibo, medicine ed elettricità? O declinerebbe l’offerta?
La mia previsione a riguardo è la seguente: dopo intense consultazioni con i servizi di sicurezza israeliani e le accese riunioni di governo, il primo ministro risponderebbe al presidente dicendo: “No grazie, preferiamo lasciare le cose come stanno”.
Davvero? Non è quello che ci si aspetterebbe, visto come l’Ap e Hamas cercano di eliminare lo Stato ebraico, vista la violenza persistente contro gli israeliani e visto come la propaganda palestinese danneggia la posizione internazionale di Israele. Sì. E per quattro ragioni: una diffusa convinzione israeliana che la prosperità mini l’ideologia, la soggezione della determinazione palestinese, il senso di colpa ebraico e la riluttanza dei servizi di sicurezza. Ognuna di queste argomentazioni può essere facilmente confutata.
La prosperità non pone fine all’odio
Molti israeliani ritengono che se i palestinesi traessero sufficienti benefici economici, medici e legali e di altro genere che il sionismo apporta loro, cederanno e accetteranno la presenza ebraica. Fondata sull’assunto marxista secondo cui il denaro è più importante delle idee, questa visione sostiene che le scuole eccellenti, i nuovi modelli di automobili e i belli appartamenti sono l’antidoto ai sogni nazionalisti islamisti o palestinesi. Come gli abitanti di Atlanta, i ricchi palestinesi saranno troppo occupati per odiare.
Questa idea ebbe origine oltre un secolo fa, raggiunse il culmine all’epoca degli accordi di Oslo del 1993 ed è strettamente associata all’ex ministro degli Esteri Shimon Peres, autore del libro Il Nuovo Medio Oriente. Peres mirava a trasformare Israele, la Giordania e i palestinesi in una versione mediorientale del Benelux.
Ancora più grandiosa, la sua visione sperava di emulare l’accordo franco-tedesco siglato dopo la Seconda guerra mondiale, quando i legami economici servirono a porre fine a una inimicizia storica e a formare alleanze politiche positive.
In questo spirito, i leader israeliani hanno lavorato a lungo per costruire le economie della Cisgiordania e di Gaza. Hanno esercitato pressioni sui governi stranieri per finanziare l’Ap. Hanno aiutato Gaza finanziando l’approvvigionamento di acqua ed elettricità, promuovendo altresì gli impianti di desalinizzazione dell’acqua. Hanno proposto un sostegno internazionale alla creazione di un’isola artificiale al largo delle coste di Gaza con tanto di porto, aeroporto e strutture alberghiere. Hanno persino concesso a Gaza un giacimento di gas.
Ma questi tentativi sono falliti in modo spettacolare. La furia palestinese contro Israele rimane immutata. Inoltre, i gesti di buona volontà non sono stati accolti con gratitudine, ma con rifiuto.
Ad esempio, dopo il ritiro unilaterale di tutti gli israeliani da Gaza nel 2005, le serre di questi ultimi sono state consegnate ai palestinesi come un gesto di buona volontà, per poi essere immediatamente saccheggiate e distrutte.
Forse quelli più eclatanti sono i casi dei palestinesi ricoverati negli ospedali israeliani che mostrano la loro gratitudine tentando di uccidere i loro benefattori. Nel 2005, una donna di Gaza di 21 anni fu curata con successo dopo aver riportato delle ustioni in seguito all’esplosione di un serbatoio di benzina, per poi restituire il favore tentando di attaccare l’ospedale con un attentato suicida.
Nel 2011, una madre di Gaza il cui figlio aveva una malattia del sistema immunitario ed era stato salvato in un ospedale israeliano disse davanti a una telecamera che voleva che il bambino crescendo diventasse un attentatore suicida. Nel 2017, due sorelle entrate in Israele da Gaza affinché una delle due si sottoponesse a delle cure contro il cancro hanno tentato di contrabbandare esplosivi per conto di Hamas.
Perché questi tentativi sono falliti? Il modello franco-tedesco includeva un fattore non presente nella scena israelo-palestinese: la disfatta dei nazisti. La conciliazione non avvenne con Hitler ancora al potere, ma dopo che lui e i suoi obiettivi erano stati polverizzati. Al contrario, la grande maggioranza dei palestinesi crede ancora di potere vincere (ossia di eliminare lo Stato ebraico). Questi palestinesi vedono anche con sospetto gli sforzi volti a costruire la loro economia, mentre Israele ottiene in modo subdolo il controllo egemonico.
Già nel 1923, il leader sionista Vladimir Jabotinsky previde questo fallimento, definendo infantile “pensare che gli arabi acconsentiranno volontariamente alla realizzazione del sionismo in cambio dei vantaggi culturali e economici che potremo accordare loro”.
Più in generale, l’aver incrementato i finanziamenti ai palestinesi non ha creato consumismo e individualismo, ma rabbia.
Come ci si potrebbe aspettare, aiutare un nemico a sviluppare la sua economia mentre la guerra è ancora in corso, significa fornirgli le risorse necessarie per continuare a combattere.
Il denaro è stato utilizzato per incitare, indottrinare al “martirio”, acquistare armi e costruire tunnel per compiere attacchi terroristici. Una decina di anni fa, Steve Stotsky dimostrò la stretta correlazione esistente tra i finanziamenti per l’Autorità palestinese e gli attacchi contro gli israeliani; ogni 1,25 milioni di euro in aiuti, come da Stotsky riportato sul grafico, si sono tradotti nell’uccisione di un israeliano l’anno.
Nonostante la perenne delusione, persiste la convinzione israeliana legata all’idea che la prosperità palestinese conduca alla conciliazione. Ovviamente, la vittoria non desta alcun interesse negli israeliani che sognano, per quanto tristemente, la magia dei nuovi modelli di automobili.
Le guerre finiscono, come mostra l’esperienza storica, non arricchendo il nemico, ma privandolo delle risorse, riducendo le sue capacità militari, demoralizzando i suoi sostenitori e incoraggiando le rivolte popolari. A tal fine, gli eserciti, nel corso degli anni, hanno tagliato le strade per i rifornimenti, costretto le città alla fame, stabilito blocchi e applicato embarghi. In questo spirito, se Israele avesse intrapreso una guerra economica trattenendo alla fonte il denaro dei contribuenti, negando l’accesso ai lavoratori e interrompendo le vendite di acqua, cibo, medicine ed elettricità, le sue azioni avrebbero portato alla vittoria.
Quanto all’argomento secondo cui la rovina economica palestinese porta a più violenza, beh, è una fandonia. Solo le persone che sperano ancora di vincere continuano con la violenza; coloro che hanno perso si arrendono, si leccano le ferite e cominciano a ricostruire intorno ai loro fallimenti. Si pensi all’America del Sud nel 1865, al Giappone nel 1945 e agli Stati Uniti nel 1975.
La determinazione palestinese
Alcuni osservatori sostengono che la resilienza (sumud) palestinese sia troppo vivace per una vittoria israeliana. In una lettera dell’aprile 2017 indirizzata al sottoscritto, lo storico Martin Kramer spiegava così questa visione:
Nel 1948, metà della popolazione palestinese (700 mila) fuggì. Ogni centimetro della Palestina fu perso nel 1967, quando altri 250mila palestinesi fuggirono.
Il loro movimento di “liberazione” fu successivamente guidato da una forza schiacciante dalla Giordania e dal Libano. Secondo i palestinesi, gli israeliani uccisero il loro leader-eroe, Arafat. Tuttavia, nulla di tutto questo li ha persuasi del fatto che loro sconfitta fosse definitiva. In questa luce, non so come le misure relativamente modeste che Israele può prendere in tempo di pace potrebbero convincerli che hanno perso.
Se i palestinesi hanno sopportato un secolo di batoste, come afferma questa linea di pensiero, sono in grado di assorbire tutto ciò che ora Israele offre loro. Qualunque sia la ragione – la fede islamica; l’influenza duratura di Amin al-Husseini; l’unica rete di sostegno globale – questa straordinaria forza d’animo indica che la determinazione palestinese non si spezzerà.
La risposta a questo? Israele era sulla buona strada per la vittoria fra il 1948 e il 1993, ma poi i disastrosi accordi di Oslo lo fecero deragliare. La determinazione palestinese fu distrutta nel 1993, in seguito al crollo sovietico e alla sconfitta di Saddam Hussein, quando Arafat strinse la mano del primo ministro israeliano e riconobbe Israele.
Poi, anziché basarsi su questa vittoria, gli israeliani procedettero al ritiro unilaterale dal territorio (Gaza-Gerico nel 1994, Aree A e B della Cisgiordania nel 1995, Libano nel 2000 e Gaza nel 2005), e questo fece credere ai palestinesi di aver vinto. Dopo questi ritiri, nel 2007, Gerusalemme abbandonò qualsiasi piano a lungo termine e affrontò i problemi più impellenti. Qual è, dunque, l’attuale obiettivo di Israele per Gaza? Non ne ha nessuno.
Pertanto, la storia israeliana si divide in 45 anni volti a puntare alla vittoria e 25 anni di confusione. Ritornare all’obiettivo della vittoria rimedierà a quegli errori.
Il senso di colpa ebraico
Essendo i più perseguitati della storia – vittime di persecuzioni religiose, razzismo, pogrom e dell’Olocausto – gli ebrei hanno sviluppato un forte senso della moralità. La prospettiva di costringere i palestinesi a sopportare l’amaro crogiolo della sconfitta è un’idea che la maggior parte degli ebrei israeliani e dei loro sostenitori nella Diaspora sono restii a mettere in atto. Prevalentemente, gli ebrei preferirebbero usare la carota anziché il bastone, la ragione e non la coercizione.
Questo aiuta a spiegare perché, durante la guerra tra Hamas e Israele del 2014, la società elettrica israeliana inviò dei tecnici per riparare i cavi elettrici che furono distrutti a Gaza da un razzo lanciato da Hamas, mettendo a rischio la vita dei propri dipendenti.
Allo stesso modo, quando la situazione economica di Gaza è peggiorata all’inizio del 2018, ci si immaginava che gli ebrei israeliani, oggetto delle intenzioni omicide di Hamas, fossero indifferenti o persino compiaciuti dei problemi dei loro nemici.
Ma non è stato così. Come recita un titolo: “Mentre Gaza è prossima alla ‘carestia’, Israele, e non il mondo intero, sembra più preoccupato”. In parte, ciò è dovuto a motivi pratici – perché Israele si preoccupa del prezzo che pagherebbe per un collasso economico a Gaza – ma questo ha anche una dimensione morale: i prosperi ebrei di Israele non possono stare a guardare mentre i loro vicini, per quanto ostili, affondano nella melma.
Anche mesi dopo, quando Hamas ha messo a punto il lancio degli aquiloni incendiari e l’esercito israeliano non ha fermato questo attacco, Gadi Eizenkot, (a sinistra nella foto a lato) capo di stato maggiore dell’IDF, le Forze di difesa israeliane, ha spiegato per quale motivo ciò non sia accaduto, in uno scambio di opinioni con il ministro dell’Istruzione Naftali Bennett, nel corso di una riunione di gabinetto a porte chiuse.
Bennett: Perché non sparare a chi maneggia armi utilizzate per via aerea [palloncini e aquiloni incendiari inclusi] contro le nostre comunità? Non ci sono vincoli legali. Perché non sparargli invece di sparare colpi di avvertimento? Stiamo parlando di terroristi da ogni punto di vista.
Eizenkot: Non penso che sparare a bambini e ragazzi che a volte fanno volare i palloncini e gli aquiloni sia la cosa giusta da fare.
Bennett: E che dire di quelli chiaramente identificati come adulti?
Eizenkot: Proponi da sganciare una bomba su persone che fanno volare palloncini e aquiloni?
Bennett: Sì.
Eizenkot: Questo è contrario alla mia posizione operativa e morale.
Tale “posizione morale” ovviamente ostacola la vittoria.
Tuttavia, mentre le tendenze di voto e i dati dei sondaggi elettorali indicano che questa posizione rimane ferma come sempre tra gli ebrei della Diaspora, soprattutto negli Stati Uniti, gli ebrei israeliani sono diventati più forti e resistenti. Quando le dolorose concessioni fatte ai palestinesi non hanno portato benefici, ma violenza, molti ebrei israeliani hanno perso le speranze nell’approccio delicato ed erano pronti a imporre la loro volontà ai palestinesi attraverso misure approssimative. L’osservazione di Eizenkot ha destato furore. Un recente sondaggio ha mostrato che il 58 per cento degli ebrei israeliani concorda sul fatto che “sarà possibile raggiungere un accordo di pace con i palestinesi, quando questi ultimi riconosceranno di aver perso la loro guerra contro Israele”.
La riluttanza dei servizi di sicurezza
Coesistono due apparati di sicurezza israeliani: uno che combatte per ottenere la vittoria sull’Iran e altri nemici lontani; e uno difensivo, in stile polizia, che si occupa dei palestinesi. Il primo punta alla vittoria, il secondo a mantenere la calma. È Entebbe contro Jenin. È sottrarre l’archivio nucleare dell’Iran contro il lasciare che coloro che lanciano aquiloni incendiari esercitino il loro mestiere.
L’apparato di sicurezza di tipo difensivo conta enormemente perché spesso ha l’ultima parola sulla politica palestinese, come mostrato dall’episodio avvenuto sul Monte del Tempio del luglio 2017.
Dopo che i jihadisti palestinesi avevano ucciso due poliziotti israeliani con le armi nascoste nella sacra spianata, il governo israeliano installò dei metal detector all’ingresso del Monte del Tempio, una decisione apparentemente indiscutibile.
Ma Fatah chiese la loro rimozione e nonostante la popolazione e i politici israeliani desiderassero nella stragrande maggioranza che questi dispositivi rimanessero posizionati, essi scomparvero rapidamente perché l’apparato di sicurezza – compresi la polizia, la polizia di frontiera, lo Shabak, il Mossad e l’IDF – avvertì che lasciarli in loco avrebbe irritato i palestinesi e provocato violenze, caos e persino un collasso.
I servizi vogliono evitare accoltellamenti, attentati suicidi, una raffica di missili da Gaza e una intifada; ma soprattutto temono il collasso dell’Autorità palestinese o di Hamas, chiedendo un governo diretto israeliano sulla Cisgiordania e Gaza.
Come afferma l’ex parlamentare Einat Wilf,“se l’apparato di difesa pensa che (…) i finanziamenti a Gaza comprino la calma, si farà tutto il possibile per assicurare che i fondi continuino a fluire, anche se ciò significa che la calma viene acquistata al costo di una guerra che andrà avanti per decenni”.
Nel privilegiare la calma, i servizi di sicurezza respingono le misure severe e considerano la vittoria come irraggiungibile.
Questa riluttanza spiega molte altre circostanze, peraltro sorprendenti, riguardanti il governo israeliano, in particolare perché quest’ultimo:
- Consente le illegali attività edilizie.
- Chiude un occhio sul furto di acqua ed elettricità.
- Evita di prendere misure che potrebbero provocare la rabbia della leadership palestinese, come bloccare gli introiti in nero, applicare la legge, diminuire le loro prerogative o punirli.
- Si oppone alla decisione del governo statunitense di tagliare gli aiuti ai palestinesi.
- Non ferma la distruzione dei tesori archeologici del Monte del Tempio.
- Rilascia gli assassini condannati e consegna le salme degli assassini.
- Consente a Hezbollah di acquisire oltre 100 mila razzi e missili, e poi elabora piani per evacuare 250mila israeliani.
- Da decenni incoraggia i finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA).
Queste precauzioni hanno diverse cause.
Innanzitutto, i governi israeliani fondati su coalizioni con molti partner tendono, come afferma Jonathan Spyer, “a evitare di concentrarsi su questioni strategiche a lungo termine, preferendo far fronte alle minacce immediate”. Perché farsi carico di un problema quando si può rimandarne la soluzione?
In secondo luogo, i servizi di sicurezza israeliani sono orgogliosi del dover occuparsi del presente, e non delle astrazioni. Leah Rabin, moglie di Yitzhak Rabin, una volta spiegò così la mentalità del marito: “Era molto pragmatico, odiava occuparsi di una cosa che sarebbe accaduta nel futuro. Pensava solo a cosa sarebbe successo nel presente, in un futuro molto prossimo”. O, come esplicato dall’ordine imperituro di un tenente alle sue truppe: “Proteggete questa zona sino alla fine del vostro turno”.
In terzo luogo, così come la polizia ritiene che i criminali siano degli incorreggibili piantagrane, allo stesso modo i responsabili dei servizi di sicurezza israeliani vedono i palestinesi come nemici simili ad animali. Incapaci di immaginare che i palestinesi possano fare altro che attaccare gli israeliani, essi rifiutano l’obiettivo della vittoria, un po’ come dire: i leoni possono ottenere una vittoria duratura sulle iene?
Gli schemi di sicurezza spesso sembrano di sinistra, ma non lo sono. Per questo motivo Commanders for Israel’s Security, un movimento costituito da circa 300 ex generali dell’Idf, che rappresentano l’80 per cento dei responsabili delle forze di sicurezza israeliane, propugna una soluzione dei due stati, quasi il doppio rispetto alla popolazione ebraica israeliana favorevole a tale soluzione.
In quarto luogo, gli schemi di sicurezza in genere ritengono che le attuali circostanze siano accettabili e non vogliono modificarle. L’Autorità palestinese sotto Mahmoud Abbas, nonostante tutte le sue carenze (e contrariamente all’era di Arafat), è un partner.
Sì, è vero, l’Ap incita all’uccisione degli israeliani e delegittima lo Stato di Israele, ma meglio tali aggressioni che rischiare di punire Abbas, ridurre la sua autorità e fomentare una intifada. Questo atteggiamento induce a essere diffidenti nei confronti dei cambiamenti, scettici verso un approccio più ambizioso e riluttanti riguardo alle iniziative che potrebbero provocare l’ira palestinese.
In quinto luogo, poiché i palestinesi non dispongono del potere militare, sono visti come criminali e non come soldati; di conseguenza l’Idf da forza militare si è trasformato in una forza di polizia, con tanto di mentalità difensiva.
I generali puntano alla vittoria, ma i capi della polizia mirano a tutelare la vita umana. Salvare vite umane si traduce nel considerare la stabilità come un obiettivo in sé. I generali non combattono con l’obiettivo di salvare la vita dei loro soldati, ma è così che un capo della polizia vede uno scontro con i criminali.
In sesto luogo, il Movimento delle Quattro Madri tra il 1997 e il 2000 traumatizzò l’Idf riuscendo a scatenare una forte reazione emotiva contro l’occupazione del sud del Libano, portando a un ignominioso ritiro. Questa enfasi sull’obiettivo di salvare le vite dei soldati anziché sul perseguimento di obiettivi strategici continua a essere una preoccupazione costante per la leadership dell’IDF.
Complessivamente, la principale opposizione alla vittoria di Israele non arriva dalla sinistra, ma dai servizi di sicurezza. Fortunatamente, l’establishment della difesa ha dissidenti che ambiscono alla leadership politica e alla vittoria di Israele. Gershon Hacohen, il quale chiede che i leader politici esprimano giudizi indipendenti, è un buon esempio; Yossi Kuperwasser ne è un altro.
Conclusioni
Tutti coloro che sperano in una soluzione del problema palestinese dovrebbero esortare il governo israeliano a esercitare pressioni sull’Autorità palestinese e su Hamas. Ciò favorisce gli interessi palestinesi, liberando questi ultimi dalla loro ossessione per Israele in modo da poter costruire il loro Stato, la loro economia, la società e la cultura. Tutti trarrebbero vantaggio da una vittoria di Israele e da una sconfitta palestinese. Quando un presidente degli Stati Uniti dà il via libera, il primo ministro israeliano deve agire di conseguenza.
Post Scriptum
Aggiornamento del 30 agosto 2018: Caroline Glick conferma la mia argomentazione al punto 4 in una mordace analisi su due dei quattro candidati in lizza per ricoprire il ruolo di capo di stato maggiore delle Forze di Difesa israeliane. Yair Golan ritiene che Israele si sia nazificato e Nitzan Alon giustifica i crimini palestinesi, addossando la responsabilità alle provocazioni israeliane.
Aggiornamento del 14 ottobre 2018: Il ministro della Difesa Avigdor Liberman e l’establishment di sicurezza continuano la loro lotta in merito ai rifornimenti a Gaza. Si osservino due titoli del Times of Israel:
- Liberman: No fuel or gas will enter Gaza until all violence stops – Liberman: Nessun gas o carburante entrerà a Gaza fino a quando non cesseranno tutte le violenze.
- Defense establishment opposed cutting off Gaza fuel – report – L’establishment della Difesa sarebbe contrario a tagliare il carburante a Gaza.
Il sommario del secondo articolo recita così: “Funzionari avrebbero affermato di essere stati colti di sorpresa dalla decisione di Liberman di subordinare tutte le consegne alla cessazione delle violenze, dopo gli scontri di venerdì e gli attacchi alla barriera difensiva”. Sembrerebbe, finalmente, che ci sia una reazione negativa da parte dei fautori della Vittoria israeliana contro i timidi burocrati.
(traduzione di Angelita La Spada)
Foto: IDF, AFP, AP, Ezz Zanoun/Activestills.org e Flash90
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